Anime allo specchio/Il viaggio
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IL VIAGGIO.
— Domani sera parto per Londra, — annunziò Leonetto di Bianzè alla signora Gemma Reali quando l’ultima visitatrice se ne fu andata ed essi rimasero soli nel salottino quasi buio, dinanzi al disordine luccicante del tavolino da thè su cui qualche sigaretta male spenta agonizzava in un filo di fumo azzurro.
— Tu scherzi, — ella mormorò corrugando le ciglia, cercandogli il volto nell’ombra, già fremendo di sospetto.
— Non scherzo, ecco qua la lettera che mi chiama; una lettera notarile, rassicurati, — egli rise facendo scattare la luce e mettendole sottocchio una busta dal bollo straniero. — Mi è morto laggiù uno sconosciuto prozio lasciando qualche sostanza da dividersi fra alcuni parenti. Essi incaricano me, che non ho nulla da fare e che parlo un po’ d’inglese, d’andare a Londra e di regolare la piccola eredità. Starò assente un mese, non di più.
— Un mese? — sospirò Gemma Reali stringendosi alle tempia le palme divenute fredde, e chiuse gli occhi quasi per non vedere dinanzi a sè quella lunga sfilata di giorni senza sole.
Poichè l’amore di Leonetto di Bianzè era da quasi un anno il sole della sua vita, la fonte di gioia torbida e pur dolce a cui si abbeverava la sua anima ambiziosa e appassionata per soverchiare e per dimenticare la mediocrità borghese del suo stato. Leonetto, che discendeva da una nobile famiglia, che era bello, elegante e mondano, le apparteneva anima e corpo nel segreto della passione colpevole e quasi ogni giorno, mentre suo marito riceveva nel piccolo studio arredato di semplici mobili chiari i malati impazienti rassegnati paurosi, ella si vestiva accuratamente, passava rapida nell’anticamera oscura, mescolando all’odore acre dei disinfettanti il suo profumo squisito e correva nella casa di Leonetto dove gli arredi antichi, le tappezzerie preziose, i gingilli rari, tutta una atmosfera di raffinatezza esaltavano il suo spirito, vibrante e sensibile, la smemoravano della grigia solitudine della sua vita.
— Vedi, — egli diceva giocando distrattamente con le mollette dello zucchero, — se tu fossi libera mi potresti accompagnare e certo il viaggio con te sarebbe assai più divertente.
— Sarebbe tanto bello, — ella mormorò stringendosi accanto con un atto carezzevole. — Pensa, amore; una notte intera in ferrovia noi due soli, poi una sosta a Parigi, la città magica dove non sono mai stata, poi ancora qualche ora di treno e l’imbarco a Calais, la traversata della Manica....
— E il mal di mare.
— Che importa? Essere a Londra noi due sconosciuti a tutti, liberi fra tutti, perderci fra le strade immense, tra la folla ignota, senza paura, non sarebbe delizioso, non sarebbe divino?
— Divino sì, ma anche impossibile.
— Dio mio, perchè la vita è tanto nemica?
Ella teneva il capo abbandonato sulla spalla dell’amante e come prima aveva inseguito ad occhi socchiusi i bei fantasmi del suo inutile sogno, ora li sbarrava tra paurosi e ostili in faccia alla dura realtà.
Leonetto s’alzò e si congedò accarezzandole i capelli con pietosa tenerezza:
— Vedrai come passeranno presto tre o quattro settimane e come ci ameremo di più dopo tanti giorni di lontananza.
— Partirai domani sera?
— Sì, a mezzanotte. Passerò domattina a fissare il posto nel vagone-letto.
— Verrò a salutarti un momento nelle prime ore del pomeriggio.
— Sì, cara; ma un momento solo. Ho tante cose ancora da disporre.
Si salutarono correttamente nell’anticamera dove l’odore acre dei disinfettanti fluttuava nell’aria come un severo ammonimento e Gemma Reali rientrò nel salottino sospirando, si torse le mani nervosamente, scrutò nello specchio con irosa tristezza il suo bel volto impallidito, stirato dall’indicibile pena. Non mai come in quel momento la continuata menzogna, la torbida falsità della sua vita le era sembrata così miserabile e così insopportabile. Bisognava rifarsi ora il viso sereno, il viso legale che il destino le aveva imposto e sedere con gesti calmi e con sorrisi innocenti alla tavola familiare, mentre tutta la sua anima correva ansando sulle traccie di quell’uomo che non poteva seguire, che sarebbe stato domani al di là delle terre, al di là dei mari solo e irraggiungibile, solo e infelice senza di lei.
Si scusò col marito di non potergli tenere compagnia durante il pranzo, adducendo un violento mal di capo e si ritirò in camera per mettersi subito a letto. Tutta la notte sognò treni fuggenti, disperate corse verso l’ignoto fra voragini spaventose; soffocò fino all’alba sotto l’oppressione degli incubi e quando fu sveglia si sentì così sollevata e leggera che le parve di poterne trarre un buon presagio. Allora incominciò a sognare ad occhi aperti su quel viaggio impossibile e con un gioco pericoloso della fantasia volle immaginare di compierlo.
Ecco: ella giungeva all’improvviso alla stazione mentre Leonetto partiva. Egli passeggiava nel corridoio del treno triste ed annoiato, dopo aver dato gli ultimi ordini al suo domestico. D’un tratto egli si volgeva e trovava la sua amica di fronte a sè, avvolta in un lungo mantello da viaggio, coperta da un fitto velo, pronta a partire con lui. A stento egli tratteneva un grido di sorpresa, una esclamazione di gioia e la trascinava con sè, le baciava le mani ringraziandola con una commozione profonda. E il treno si poneva in moto e lo spazio cresceva, cresceva fra la realtà odiosa della sua vita e la sognata bellezza della felicità.
Le venne da quel fantasticare una agitazione nervosa così intensa che ella fu costretta ad alzarsi sebbene fosse di buon mattino e dopo la consueta cura minuziosa della sua persona, ad uscire a passeggio per calmare la propria inquietudine.
Passò dinanzi al villino dove abitava Leonetto, notò che vi sostava una vettura chiusa e andò oltre, giunse inconsciamente passo passo fino alla stazione quasi attratta da un oscuro fascino verso quella mèta. Rincasò a mezzogiorno e pur compiendo come ogni giorno gli atti abitudinari dell’esistenza le pareva di vivere quasi in uno stato di sonnambulismo con l’anima assente e lontana.
Quando suonò per un ultimo saluto alla porta di Leonetto di Bianzè tremava come quando vi era venuta per la prima volta. Le aperse il domestico con la sua solita faccia fredda e impenetrabile e la guidò attraverso ai bauli che ingombravano l’entrata fino allo studio dove Leonetto in pigiama di seta azzurra scriveva. Egli sollevò il capo, le sorrise e tracciò l’indirizzo prima di venirle incontro.
— Figurati che non ho ancora trovato il tempo di far colazione, — le disse cingendole le spalle col braccio senza smettere di fumare, — e fra mezz’ora devo ricevere una visita del mio avvocato.
— Ciò significa che mi mandi via subito, — osservò Gemma fra desolata e risentita.
— Oh, non subito. Ma oggi sono come tuo marito quando ha molti clienti da sbrigare, — rise egli senza finezza, e dinanzi al volto mortificato di Gemma soggiunse: — E invece avrei tante ore e tanti giorni da dedicarti durante questo mese mentre me ne andrò solo e ramingo pel mondo!
— Se tu lo vuoi io ti seguo, — dichiarò ella prontamente rialzando il capo quasi con un moto di sfida verso il destino contrario.
— Non dire sciocchezze, — egli l’ammonì con benevola compassione. — Lo sai che non è possibile e tu non devi rovinare per me la tua vita.
Ella chinò la fronte corrucciata e si dispose poco dopo ad uscire.
— Tu non devi rovinare per me la tua vita, — si ripeteva camminando lentamente per i viali ancora deserti di quell’ora quasi meridiana. E sentiva insorgere nel suo cuore sconvolto un impeto di ribellione contro quel dovere. La sua vita le apparteneva e poteva ben rovinarla, poteva gettarla per un capriccio o per una passione quando le fosse piaciuto. Qualche volta aveva desiderato di morire, una volta s’era apparecchiata una morte per veleno, alla Bovary, compiacendosi di quei preparativi con una malata curiosità di sè stessa, come facendo un gioco di cui ignorava la fine. E alla fine aveva buttato ogni cosa, ridendo.
Ora ella sentiva la necessità morbosa di disporsi a questa partenza che sarebbe stata la rovina della sua vita apparentemente onesta e che l’avrebbe gettata di colpo fuori della società e fuori della legge.
L’amore per Leonetto di Bianzè s’esaltava e s’esasperava di una nuova e più eccitante attrattiva: il desiderio di quel viaggio, la promessa di visitare paesi ignoti, città ancora sconosciute eppure già tanto affascinanti per uno spirito sensibile all’eleganza e alla bellezza. E i giorni e le settimane di libera gioia, di amore senza infingimenti, di vita diversa più intensa e più fervida, di tutte le raffinatezze del lusso cosmopolita, ignote alla sua ristretta esistenza di piccola borghese.
Chi poteva impedirle di uscire quella sera stessa di soppiatto di casa sua e correre alla stazione, prendere un biglietto ed accompagnare a Parigi e a Londra l’amico?
Possedeva qualche danaro raggranellato con cura per l’acquisto d’un oggetto prezioso che desiderava da molto e le sarebbe bastato anche per il posto nel vagone-letto.
Rientrò già quasi decisa a questa follìa, ma il tranquillo e ordinato rifugio della sua esistenza quotidiana, il volto sereno del marito, la sua voce calma che si spandeva nella chiara saletta tra i fiori e i frutti della tavola, la riempirono di nuove esitazioni, di nuovi e più agitati dubbi. Ma quando egli s’alzò per ricevere una telefonata e l’avvertì che avrebbe passato la notte fuori di casa al letto di un malato gravissimo, ella sentì che ricadeva irrimediabilmente nella tentazione.
E poco più tardi sola nella sua camera trasse una piccola valigia e incominciò a riempirla lentamente degli oggetti più indispensabili. Si vestì adagio, con atti tranquilli e precisi cercando di dimenticare la cosa straordinaria alla quale s’accingeva, e quando ebbe indossato un mantello scuro e un piccolo cappello che le lasciava scoperte solo due ciocche oscure alle tempia, riflettè alquanto se dovesse scrivere al marito un biglietto d’addio. Decise infine di mandargli invece un telegramma dalla frontiera che egli avrebbe trovato il mattino dopo rientrando e per ultimo s’avvolse il viso e il capo in un velo nero fittamente arabescato che le confondeva i lineamenti rendendola a un primo sguardo quasi irriconoscibile.
Suonarono le undici, ma la fantesca sfaccendava ancora rumorosamente per la casa deserta ed ella attese che tutto fosse buio e silenzio prima d’uscire. Il cuore le martellava sordo nel petto mentre salutava le piccole cose note e care che non avrebbe riveduto mai più. Baciò un ritrattino di sua madre morta anni innanzi, le chiese mentalmente perdono e pensò che poteva portare con sè quel ricordo dolce e triste. Lo chiuse nella valigetta e cautamente si dispose a partire. Al buio, attutendo i passi, dischiuse l’uscio senza rumore, discese rapida, aperse un’altra porta, fu nella via. Camminò nell’ombra evitando i fanali, dissimulando contro la veste la leggera valigetta fino ad una piazza dove sostavano alcune vetture. Diede l’indirizzo della stazione e non appena fu seduta s’accorse d’essere stanca come se avesse percorso un interminabile cammino, ma l’aria della notte fresca e profumata la sollevò, fu un refrigerio mite per la sua fronte scottante. Un facchino prese il suo lieve bagaglio e la guidò allo sportello. Ella si guardava intorno paurosa di incontrare qualche amico del marito, qualche propria conoscenza, ma ciascuno andava pei fatti suoi e l’osservava senza curiosità.
Quando ebbe il biglietto chiese all’impiegato dove si trovasse l’ufficio dei vagoni-letto. Egli la informò cortesemente che poteva fissare il posto sul treno stesso essendo l’ufficio chiuso a quell’ora. Il facchino la precedette fino al treno di Parigi, aspettò ch’ella avesse confabulato col conduttore dello sleeping e andò a collocarle a posto la piccola valigia.
Ella rimase sola. Tutto si era compiuto colla massima facilità, quasi come una tranquilla e onesta partenza, piuttosto che come una romantica fuga. Mancavano dieci minuti all’ora fissata ed ella supponeva che Leonetto non fosse ancora giunto. Lungo il marciapiede passeggiavano discutendo due signori stranieri; nel corridoio non v’era alcuno.
Ad un tratto nel silenzio risuonò un lungo, squillante riso di donna.
Veniva dalla cabina accanto, che aveva la porta semiaperta, e vi rispose una voce di uomo, bassa, contenuta, accompagnata da un ridere sommesso, come in uno scherzoso rimprovero.
Il cuore le diede un balzo. Felinamente strisciò incontro alla parete del corridoio, spiò dalla porta socchiusa. Le due cuccette erano già preparate per la notte e sopra una d’esse sedeva una giovine donna col gomito sul guanciale e la nuca appoggiata alla mano. Rideva ancora mostrando i denti molto bianchi fra due labbra sottili e rosse come una ferita e parlando scuoteva i capelli corti e ricciuti d’un nero rossigno intorno al viso grasso e corto come quello d’un fanciullo.
L’uomo, un po’ curvo verso di lei, volgeva le spalle alla porta e sebbene la statura, il portamento, i gesti rassomigliassero a quelli di Leonetto, ella s’illuse per un attimo, disperatamente, che non fosse lui.
— Chiudi la porta, — disse d’improvviso la donna, ed egli si volse, le fu di fronte. Ella ebbe appena il tempo di buttarsi indietro, di scomparire, di cadere sul divano col sudore freddo alla fronte, col volto livido, con la bocca socchiusa ad aspirare l’aria che le mancava. Era lui e partiva con un’altra.
Allora la sospinse un solo pensiero: quello di fuggire senza essere scorta, di andarsene prima che quel treno la portasse via, di correre all’impazzata senza più volgersi indietro.
Il guardiano l’avvertì che mancavano tre minuti alla partenza, mentre ella s’avviava verso l’uscita. Ella rispose che non partiva più e l’uomo la vide così stravolta che non osò replicare. L’impiegato a cui consegnò il suo biglietto la richiamò per dirle qualche cosa ch’ella non comprese e a cui rispose crollando il capo con gli occhi smarriti.
Macchinalmente aveva afferrato la valigetta e quel peso inconsueto la riconduceva tratto tratto alla realtà del suo essere mentre ella correva per le strade quasi oscure, rasentando i muri, svoltando agli angoli, guardando fisso innanzi a sè col cervello vuoto come un’allucinata. Giunse dinanzi alla sua porta guidata unicamente dall’istinto che conduce anche le bestie, i ciechi e i dementi. Come fu nella sua camera liberò il viso dal velo e si guardò intorno sperduta. Nulla era mutato nelle cose inconsapevoli, solo un male, un orribile male, non gelosia, non odio, non rivolta, ma un male ancora confuso, materializzato, come un contorcimento dell’anima e della carne, come lo schiacciamento di un piede brutale la premeva, la straziava, la distruggeva.
E fu tra le coltri gemendo, smaniando, col sangue già acceso dalla febbre, in un principio di delirio.