Anime allo specchio/La saggezza del destino
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LA SAGGEZZA DEL DESTINO.
— Eppure qualche volta il destino è saggio, — mi disse Lorenza Ornelli, la prima volta che venne a trovarmi sola dopo il suo matrimonio. Ella sentiva intorno a sè non ancora spenti lo stupore e la curiosità sollevati da quelle nozze inattese, per cui una fanciulla quasi povera, quasi brutta, non più giovanissima, s’univa ad un uomo ricco, intelligente, ufficiale brillante e avventuroso come Ruggero Capua.
Me lo disse aprendo e chiudendo più volte il suo piccolo ventaglio di merletto e avorio, dono nuziale di un’amica, senza sollevare il volto ch’ella teneva spesso inclinato, quasi per far dimenticare a chi l’ascoltava le pochissime grazie che l’adornavano. Quindi alzò per un momento gli occhi ch’erano belli ed espressivi, come lo sono quasi sempre gli occhi delle brutte consapevoli, e mi vide così assorta nella mia attesa, così avidamente intenta alle sue parole, che proseguì con un sorriso fra benevolo e incerto:
— Anche tu sei molto incuriosita di questa storia, ed è naturale; io stessa due mesi fa non avrei mai immaginata una simile soluzione. Perchè io amavo Ruggero da tanti anni, in silenzio e senza speranza e mi pareva che l’oscuro dramma della mia vita non avesse possibilità di scioglimento, credevo che nessuna influenza umana o divina avrebbe mai accostato il mio destino al suo, nè piegato neppure per un momento il suo cuore alla povera disgraziata creatura ch’io ero. Non mi illudevo, non sognavo, quasi non desideravo per evitare a me stessa ragioni di inutile sofferenza, ma sentivo continuamente questo amore presente in me, vivo in me come lo sguardo e il respiro.
Ruggero ed io siamo cresciuti quasi insieme perchè le nostre ville in campagna erano a pochi chilometri di distanza, e durante l’estate ci si vedeva ogni giorno, ma mentre l’affetto chiassoso e turbolento dell’infanzia si calmava in lui mutandosi in una serena fraternità, in me si cambiava in fervore ed in tenerezza e s’accendeva di una gelosia sempre più violenta e sempre più repressa. Io ero invidiosa delle mie amiche più belle e più eleganti, ero gelosa di tutte le donne su le quali si posava il suo sguardo, alle quali egli rivolgeva la sua parola, ma convinta com’ero della mia bruttezza sgraziata e ritrosa, rinchiudevo in me la mia tristezza e me ne struggevo quando ero sola in lagrime e in singhiozzi senza fine.
L’anno in cui Ruggero uscì dall’Accademia con le spalline, tutte le nostre compagne di villeggiatura se lo disputarono, ed egli si prodigò in amori ed in amoretti, divertendosi e appassionandosi follemente a quel gioco di presa d’assalto della vita. Io sola l’osservavo e soffrivo in silenzio, io sola lo seguii passo passo, non veduta nè sospettata per gli anni che sopravvennero, e conobbi quasi tutte le sue avventure, seppi i nomi di quasi tutte le sue amanti, lo vigilai dalla mia ombra desolata con l’ansia d’una madre e la passione d’una innamorata.
Al principio della scorsa estate la casa d’un lontano parente di Ruggero, chiamata Villaverde, fu affittata ad una famiglia di americani del nord, i Wilson, gente dispendiosa, chiassosa, smaniosa di divertirsi in qualsiasi modo lecito e illecito. Ne facevano parte due signorine poco più che ventenni, Magda e Glady, entrambe alte, snelle e disinvolte come giovinetti, molto graziose, molto eleganti e civette fino alla temerità.
Figurati che accoglienza fecero a Ruggero, il bell’ufficiale italiano, il corteggiatore consumato che possedeva tutto il fervore sentimentale della sua antica gente latina e insieme l’energia e l’irrequietezza della loro giovine razza! Fu un delirio; Ruggero non rincasava più che per dormire a tardissima ora della notte, e correva a Villaverde ogni mattina. Talvolta che s’indugiava alquanto a discorrere con sua madre od a riaprire qualche suo libro di studio, Magda o Glady saltavano in bicicletta e venivano a tirar sassi nelle sue finestre, finchè egli scendeva e le riaccompagnava.
Glady specialmente, la maggiore e la più bella, lo circuiva e gli si attaccava sempre più come una piccola serpe che si attorcigli al piede d’un passeggero e lo costringa a fermarsi. Lo costrinse a fermarsi così bene che dopo un paio di mesi il loro fidanzamento fu annunciato quasi ufficialmente. Ma il guaio peggiore fu questo: Ruggero s’era innamorato seriamente di quella bambola perfezionata d’ultimo modello americano e si mostrava geloso di tutti e perdeva giorno per giorno la sua bella serenità d’uomo fortunato. Ormai si vedevano quasi sempre insieme e spessissimo soli, a piedi, a cavallo, in automobile per le vie maestre e per le viottole ombrose del paese, ed io che li spiavo dal cancello della nostra villetta, io che sapevo guardare oltre l’apparenza, comprendevo che il dominato era lui e soffrivo sentendolo destinato a diventare uno di quegli schiavi inconsapevoli che la bellezza imperiosa e fredda d’una donna trascina con sè alla rovina.
Qualcuno della sua parentela che s’attentò a parlargli della progettata unione dimostrandogli cautamente la propria riprovazione, si sentì invitato con tanta gelida risolutezza a non occuparsi della sua tutela, che nessuno osò più replicare.
Intanto Ruggero stava per riprendere il suo servizio e il matrimonio doveva ufficialmente annunziarsi prima della sua partenza. Senonchè quasi alla vigilia di questo avvenimento gli arrivò improvvisamente l’ordine di partire con un riparto di truppe destinato alla Libia. Mesi innanzi egli aveva richiesto di far parte dell’esercito coloniale e la domanda era stata inoltrata ed accettata proprio nell’ora in cui egli meno l’aspettava e forse meno la desiderava. Ma non ostante le lusinghe dell’amore e delle prossime nozze, Ruggero non esitò dinanzi al proprio dovere, anzi pregò i Wilson di ritardare fino al suo ritorno la firma del contratto onde non legarsi l’un l’altro con vincoli legali, mentre dovevano bastare l’amore e la lealtà d’entrambi a mantenerli fedeli. Fu accettato il suo consiglio e, giunto il momento della partenza, mentre io rimasi in casa a consolare sua madre, tutta quanta la famiglia Wilson accompagnò Ruggero alla stazione.
Li esaltava il pensiero ch’egli poteva forse non più ritornare vivo e lusingava il loro amor proprio di barbari appena inciviliti la immagine di quel fidanzato-eroe che la loro bella figliuola si sarebbe portato in giro pel vecchio e pel nuovo mondo, come un fiore rosso all’occhiello della sua giacchetta mascolina.
Seppi più tardi che Glady Wilson gli scrisse appena due o tre lettere in un suo faticoso italiano, puerile di pensiero e di forma, e seguitò quindi mandandogli innumerevoli cartoline fotografiche nelle quali ella appariva riprodotta ai piedi di tutti i più celebri monumenti d’Italia. Perchè i Wilson avevano lasciato Villaverde e viaggiavano, divertendosi e distraendosi in quella disordinata vita nomade di treno in treno e d’albergo in albergo, che la loro inquietudine chiassosa prediligeva.
Ma dopo Pasqua, mentre ero anch’io in campagna presso una zia ammalata, seppi che gli americani tornavano in villa e non ostante il mio odio per quella gente, me ne rallegrai in cuor mio per Ruggero. Egli aveva scritto da poco a sua madre, annunziando il suo ritorno e preferivo ch’egli ritrovasse la sua fidanzata in quella casa quasi tranquilla, piuttosto che in giro per qualche popolato albergo cosmopolita. E poi ne gioivo per me stessa poichè l’avrei forse veduto passare, gli avrei forse dato il mio benvenuto, e l’aspettavo.
Anche più tardi seppi da lui stesso quanto gli accadde al suo ritorno. Dopo un rapido saluto dato in città a sua madre, egli decise di correre a Villaverde e telegrafò onde avere alla stazione un cavallo sellato, sembrandogli che una carrozza dovesse impiegare un tempo interminabile a percorrere quei dieci chilometri di strada che occorrevano per giungervi. Era una mattinata calda del principio di giugno e suonavano le campane di mezzogiorno quando Ruggero passò di galoppo dinanzi al mio cancello. Ma non mi vide; proseguì impaziente verso la sua mèta e discese poco dopo a Villaverde. Egli non aveva annunziato ai Wilson il suo ritorno; desiderava sorprenderli all’improvviso, sapendo com’essi amavano le emozioni violente ed inattese e si riprometteva un’accoglienza quasi folle di gioia e di festosità.
La famiglia con alcuni ospiti prendeva il caffè nella veranda, dopo colazione, quando Ruggero, seguito dal domestico che aveva pregato di non annunziarlo, sollevò la tenda che metteva in giardino ed apparve come una visione; sarebbe forse più giusto dire come un fantasma, perchè tutti i volti espressero uno stupore pieno di sbigottimento e passarono alcuni attimi prima che il padre Wilson si risolvesse a venirgli incontro ed a stringergli energicamente la mano. Ma in quei pochi attimi di sospensione lo sguardo di Ruggero aveva còlto la situazione e compreso. Un giovine alto e biondo, dalla fisionomia spiccatamente inglese, s’adagiava in una poltrona di vimini ed alla sua sinistra, sul largo bracciuolo sedeva Glady, la sua Glady, accendendo una sigaretta alla sigaretta dell’ospite; il suo braccio bianco e nudo posato su lo schienale pareva cingere le spalle del giovine il quale la fissava intensamente, sorridendo.
Rimessi dal primo impaccio, gli offrirono il caffè e lo assediarono di domande sui paesi sconosciuti dai quali egli giungeva, ma Glady non gli rivolse quasi parola, ed egli rispose breve e conciso sebbene cortese, dominando la collera sorda che lo mordeva. Poi se ne andò e non promise di ritornare. Solo Magda, la sorella minore lo accompagnò al cancello, e mentre egli scioglieva le briglie del cavallo legato ad un albero, gli disse con quella ingenua sfrontatezza che pareva talvolta promettere tutto, perfino la lealtà del carattere:
— Glady sposa l’inglese fra quindici giorni, ma io sono ancora libera, mio caro Ruggero.
Ruggero la guardò un momento in silenzio, poi le domandò:
— Crede in Dio, lei?
Probabilmente la piccola Magda non si era mai rivolta una simile interrogazione, perchè non seppe che cosa rispondere, ma Ruggero replicò:
— Ebbene, se ci crede, le giuro in nome di Dio ch’io sposo la prima donna che incontro per via, non lei. Lo giuro a Dio ed a me stesso.
Balzò in sella e lanciò il cavallo ad un galoppo furioso. La strada era bianchissima deserta silenziosa sotto il sole di mezzogiorno e correva fra i grani già alti. Qualche cicala friniva un momento su un pioppo, poi taceva e nulla s’udiva se non lo strepito ritmico del cavallo in corsa, cosicchè io, vigilando dal mio giardinetto, lo sentii giungere di lontano, palpitando d’emozione. Avevo ingannato l’attesa, che credevo più lunga, cogliendo alla rinfusa fasci di fiori e d’erbe, e con quel mio carico ridicolo sulle braccia, mi precipitai sulla strada agitandolo in alto per farmi scorgere da lui e per fermarlo al passaggio. Ruggero mi vide, discese, legò il cavallo ed entrò nel piccolo chiosco coperto di caprifoglio pieno di ombra e di frescura. Era pallido e stravolto ma sorrideva e mi guardava con occhi strani, con occhi diversi che parevano vedermi per la prima volta. D’un tratto mi prese la mano e disse:
— Sei tu la prima donna che ho incontrata per via. Questo è il destino. Se tu vuoi io ti sposo, perchè questo, questo è il destino.
Credetti ch’egli delirasse, credetti che per la strada, in quell’ora ardente, una insolazione lo avesse colpito e che le sue parole fossero incoscienti. Gli toccai la fronte, gli afferrai le mani soffocata dalla pena e dalla commozione e corsi a prendergli un cordiale. Ma quando ritornai egli sorrideva calmo e non mi pareva più così pallido:
— Non sono ammalato e non vaneggio, — disse, — credimi, un saggio destino vuole che tu sii mia moglie.
— Ti prego, Ruggero, — insistetti offesa, — non prenderti gioco di me; sei crudele.
Allora egli s’alzò e mi guardò negli occhi, serio, grave, quasi dolente:
— Ti pare ch’io abbia la faccia d’un uomo che scherza? — mi chiese, e cingendomi le spalle con le sue braccia soggiunse: — Ti prego, Lorenza, di voler essere la mia compagna buona, per sempre.
Ma io non potei rispondere; il piccolo chiosco verde si mise a girare vertiginosamente intorno a me ed io mi sentii cadere, trascinata seco, come una foglia in un turbine di vento. Ruggero mi fece sedere, mi costrinse ad inghiottire il cordiale portato per lui e mi baciò le mani mormorando:
— Come soffri, povera piccola!
— Sì, soffro, ma di gioia, — risposi finalmente, e piansi un momento smarrita su la sua spalla.
Ci sposammo dopo un mese e nessuno seppe finora il segreto di questo nostro matrimonio, su cui s’è avventata tanta maligna e invidiosa curiosità. Tu sola lo conosci ora, ma poichè questa storia può tornare forse utile e confortante a qualcuno, raccontala pure, se vuoi. Te lo concedo.