Anime allo specchio/Lo scopo segreto
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LO SCOPO SEGRETO.
— Sposarsi a vent’anni! — esclamò il signor Tito Ercolani, poichè suo figlio Raffaele gli ebbe dichiarato che amava la signorina Diana Leoni e che intendeva sposarla.
— Innanzi tutto sono quasi ventuno, non mancano che quattro mesi, — protestò Raffaele, soffiando fuori della finestra a rapide ondate il fumo della sua sigaretta. — E poi non capisco che male vi sia a pigliar moglie giovani quando si è seriamente innamorati come me.
— Oh, nessun male; anch’io mi sposai giovane, — osservò suo padre battendosi col frustino i gambali di cuoio giallo, — ma mia moglie aveva cinque anni meno di me, mentre tu diventeresti a vent’anni il marito di una ragazza che ne conta ventitrè e che ha probabilmente un’educazione piuttosto libera per aver vissuto quasi sempre all’estero sola.
— Mi pare cosa naturalissima ch’ella non potesse compiere i suoi studi in fondo a questo paese di provincia o rimanersene qui a vegetare in compagnia della sua vecchia nonna, — rispose risentito Raffaele con le mani sprofondate nelle tasche quasi per impedirsi di gestire con soverchia vivacità, — e ciò non significa certo che Diana non sia un’ottima fanciulla.
— Non lo nego; — disse il signor Tito stringendosi nelle spalle. — Io non la conosco perchè non vado più in casa sua da un discreto numero d’anni; ma t’avverto che non sono affatto disposto a presentarmi come tu vorresti alla vecchia signora Leoni e chiederle per te la mano di sua nipote Diana. Pensaci.
Egli uscì con un cenno di saluto che suo figlio non ricambiò, e si diresse per il viale di carpini ai cancelli della villa dove il suo cavallo sellato e tenuto pel morso dal palafreniere l’aspettava scalpitando.
Tito Ercolani aveva superato da qualche anno la quarantina e conservava della giovinezza la snella e solida struttura, l’elasticità delle membra e lo splendore dello sguardo, mentre già possedeva il volto pallido e devastato, le tempia grigie e il sorriso mordace della piena maturità.
Al piccolo trotto egli si avviò a una sua vasta manifattura cotoniera a pochi chilometri dalla villa e mise il cavallo al passo quando fu presso la casa ed il giardino chiuso delle signore Leoni. Forse per la prima volta dopo anni ed anni egli guardava con qualche curiosità quella porta da tanto tempo non più varcata e gli parve di intravvedere una figura femminile in vesti chiare presso il cancelletto coperto di caprifoglio. Ma passò oltre meditando.
La vecchia signora Leoni era stata maternamente amica di sua moglie, morta tredici anni innanzi quando ancora la piccola Diana viveva in città coi genitori. Durante quegli anni la signora Leoni aveva perduto l’unico figlio e la nuora s’era ammalata d’una grave infermità mentale che la teneva rinchiusa in una casa di cura, mentre la fanciulla veniva mandata all’estero per i suoi studi e solo tornava per trascorrere colla nonna un breve periodo delle vacanze estive.
Ma poche settimane prima del suo ritorno definitivo, soffermandosi per una settimana in città presso una famiglia di conoscenti comuni, ella aveva incontrato Raffaele Ercolani, biondo allegro pieno di salute, e stretto con lui, per ricordo forse dei vecchi legami famigliari, una di quelle amicizie franche serene cordiali che sembrano molto frequenti in paesi nordici, ma che stentano ad acclimatarsi tra il facile sentimentalismo e l’istintiva galanteria delle razze latine.
Per questo il giovane era rapidamente passato dalla cordialità alla tenerezza e dalla tenerezza all’amore, mentre Diana continuava a trattarlo con una confidenza fra dolce e ironica, con una benevolenza fra pietosa e lusingata che indispettiva Raffaele e insieme vieppiù lo incitava nel desiderio di vincerla e d’ottenerla. E poichè ella era intanto partita per la cittadina provinciale ove la sua vecchia nonna l’attendeva, anch’egli pochi giorni dopo ritornò presso suo padre e gli confessò il suo amore, supplicandolo di presentarsi egli medesimo alla signora Leoni, ch’era la tutrice della fanciulla, e di chiederla in moglie per lui.
Inutilmente Tito Ercolani lo aveva dapprima dissuaso e poi esortato ad una più matura ponderazione sul grave passo al quale intendeva accingersi, inutilmente gli aveva rammentato la sua giovanile età e l’instabilità d’un capriccio nato e cresciuto in pochissime settimane. Raffaele, dopo due giorni di iroso silenzio, un mattino gli entrò improvvisamente in camera tutto pallido e triste, gli dichiarò di non poter vivere senza di lei e lo scongiurò di non protrarre oltre quella domanda di matrimonio che la signora Leoni e sua nipote avrebbero certo accolto con il più lieto consenso e che l’avrebbe fatto tanto felice.
Un vespero di primo autunno grave e mite empiva d’ombre fluttuanti le silenziose pianure e piccoli uccelli balzavano con un frullo d’ali dalle siepi spaventati dal passo del suo cavallo, quando Tito Ercolani dopo un lungo giro meditativo suonò al cancelletto coperto di caprifoglio, vi legò il cavallo e fu introdotto da una vecchia cameriera nell’antico salotto di casa Leoni.
Tutto vi stava ancora disposto come tredici anni prima, solo una lunga sciarpa di crespo azzurro gettata sullo schienale di una poltrona ed un romanzo francese deposto su d’un tavolo con un pugnaletto a manico istoriato fra le pagine a guisa di tagliacarte, rivelavano la presenza consueta di una femminilità giovanile elegante e intelligente fra quell’antico arredo massiccio e durevole di buona casa borghese di provincia.
Si presentò quasi subito la signora Leoni stretta in un abito di vecchia foggia di seta marrone, con uno scialletto a frangia di ciniglia sulle spalle aguzze e gli porse sorridendo la mano ossuta calzata di mezzi guanti di lana bianca.
— Ella sarà meravigliata di rivedermi dopo tanti anni, — disse Ercolani inchinandosi e le rammentò con parole commosse l’amicizia materna che l’aveva legata a sua moglie. Ma il sorriso della vecchia signora, un sorriso di denti finti, troppo bianchi e uguali in quel volto grinzoso, non mutava alle sue parole come non mutava l’espressione di indagine attentissima e penosa dei suoi piccoli occhi senza ciglia. Istintivamente egli sollevò il tono della voce e solo allora ella parve afferrare il nome della sua amica defunta.
— Marta, povera nostra Marta, — mormorò lentamente senza più sorridere e tutta la faccia rugosa parve a un tratto rimpicciolirsi, premuta e contratta dal dolore di quella vecchiaia che una sordità quasi completa affliggeva ed isolava ormai nella mestizia dei ricordi.
Tito Ercolani la guardava con una pietà leggermente infastidita riflettendo intanto non senza ironia che l’onesta missione di chiedere a quella veneranda signora pel proprio figlio la mano di sua nipote diveniva in tali condizioni piuttosto difficile, e stava domandandosi come ne sarebbe onorevolmente uscito quando Diana apparve ad un tratto nel vano della porta e tese la mano al visitatore.
— Il signor Ercolani, non è vero? Il padre di Raffaele? Molto, molto felice.
Ella parlava con un lievissimo accento straniero, calcando le dentali, ma con una voce così calda vibrante e piena che pareva gustare le parole mentre le pronunciava. E dai suoi capelli bruni e corti ch’ella parlando scuoteva con graziosa baldanza, dal suo volto mutevole, da tutta la sua persona agile e salda avviluppata più che vestita di una seta orientale a colori vivacissimi esalava una tale vitalità, una tale forza di volontà e d’energia, insieme a un così vivo desiderio d’attirare e d’inquietare che Tito si spiegò immediatamente il violento capriccio di suo figlio per quella fanciulla.
Gliene parlò quasi subito onde giustificare la sua inattesa visita, mentre Diana lo ascoltava con un gomito appoggiato sul bracciuolo della poltrona e le dita intrecciate ai suoi corti capelli bruni, tutta zebrata dalle striscie verdi lilla e nere della sua veste orientale e sorrideva con una specie di dolce compatimento per il povero Raffaele e per il suo amore.
— Sì, suo figlio mi vuole molto bene, — ella disse con tranquilla compiacenza, — ed io pure ho per lui una vera amicizia.
— Null’altro? — domandò Tito scrutandola bene in volto.
Ella scosse il capo con un movimento lentissimo senza sfuggire gli occhi che la fissavano.
— Ma forse Raffaele fu da lei illuso, signorina, perchè egli si crede amato, egli crede il suo amore corrisposto con intera fiducia, — l’avvertì Ercolani con un velato rimprovero ch’ella non raccolse.
— Amato d’amore, no, — dichiarò Diana fermamente; — d’affetto, d’amicizia, quasi di fraternità, null’altro.
— E come si spiega quest’inganno? — domandò l’uomo sempre più stupito. — Mio figlio da un mese non vive più che per lei, non parla che di lei, s’ammala perchè non la vede e infine mi decide, per timor di peggio, a venire a chiederle per lui la sua mano, certo di essere accettato con gioia. Ed ella mi rivela ora che non l’ama e che non lo ha mai amato. La cosa è molto oscura, mi pare.
— Il signor Tito è inquieto per suo figlio? — domandò d’un tratto timidamente la vecchia donna quasi sorda che aveva vagamente raccolto nella conversazione il nome di Raffaele.
— Sì, nonna, — le disse con dolcezza Diana piegandosi per parlarle all’orecchio. — Suo figlio sta poco bene, ma è cosa passeggiera. Guarirà presto.
— Speriamolo, — mormorò la nonna e incominciò a sorridere affabilmente coi suoi denti finti, mentre Diana riprendeva il suo atteggiamento di giovine sfinge di fronte a Tito Ercolani.
Questi un po’ nervoso già accennava ad alzarsi e pronunziava brevi e secche parole di commiato.
— Poichè la mia missione è fallita, signorina, mi permetta di presentare a lei ed alla signora sua nonna le mie più profonde scuse e di andarmene rispettosamente.
Ma la fanciulla lo trattenne con l’implorazione dello sguardo, con l’ansia della voce: — No, no, la prego, non vada via, non vada via così. — E subito dinanzi allo sguardo intento della nonna che s’era rivolta ad osservarla, ella ricompose il volto al sorriso e continuò con una voce dura che contrastava singolarmente con la forzata gaiezza del viso.
— Non amo Raffaele perchè amo un altro; ha inteso? amo un altro che lo ignora, che quasi non mi conosce, che forse mi sdegnerebbe se lo sapesse; ha inteso?
— Signorina, io ho inteso che le sue aspirazioni matrimoniali non vanno verso mio figlio, e non mi resta che ritirarmi, — rispose Tito con un sorriso mordente, diffuso su tutta la faccia pallida e arguta d’uomo che ha molto vissuto e si diverte a vivere ancora.
Egli sentì i denti della fanciulla scricchiolare in un impeto trattenuto di collera e la voce uscire quasi sibilante dalla sua bocca socchiusa:
— Per carità non sia così crudele con me. Sì, io ho illuso ed ingannato Raffaele, ma fu per avvicinarmi per mezzo suo all’uomo che io amavo, e quello ch’io vedevo passare fin da bambina a cavallo dinanzi al cancelletto del giardino senza aver mai il coraggio di mostrarmi, tanto egli mi intimidiva e mi turbava. Io avevo bisogno che quest’uomo venisse qui per potergli dire quello che vi era e quello che vi è nel mio cuore per lui, da tanti anni. Ora l’ho detto e sento d’essere disprezzata, ma non me ne pento.
Ella appariva bellissima nel suo abito vivace a strisce verdi e lilla ed un tremito nervoso la faceva vibrare tutta come un arco da cui sia partita la freccia. Il suo volto intanto continuava a sorridere sotto lo sguardo attento della vecchia, sotto lo sguardo perplesso dell’uomo, ma il sorriso era convulso.
Quindi ella s’alzò e tese la mano a Tito Ercolani che la sentì nella sua gelida e ferma come una piccola mano d’acciaio.
Lo precedette in silenzio pel breve corridoio e pel vestibolo semibuio fino al giardino già occupato dalla notte profonda e gli porse ancora, nell’ombra, le sue dita fredde senza parola.
— Io temo ch’ella sia preda d’una strana debolezza, signorina, — mormorò Ercolani ancora sorpreso e titubante, trattenendo nelle sue quelle sottili mani avvincenti.
— No, — ella rispose in un sospiro, — sono ormai otto anni ch’io le voglio bene. Laggiù in Inghilterra io attendevo l’estate con tanta impazienza per vederla passare, solo per vederla passare, nascosta in questo giardino. E nessuno seppe mai nulla. Poi il destino mi fece incontrare Raffaele ed incominciai a sperare d’avvicinarmi a lei per mezzo suo. Io gli offersi solo la mia amicizia, null’altro. Avevo uno scopo segreto e cercai di raggiungerlo per una via tortuosa, la sola che mi si offrisse. Mi perdoni.
— Io le perdono, povera bambina, ma non so se Raffaele le perdonerà, se Raffaele dimenticherà.
— Dicono che a vent’anni tutto si dimentica, specialmente l’amore, — mormorò Diana quasi trasognata, portandosi alle labbra con appassionata umiltà la mano di Tito. Ma egli la ritrasse e gliela posò sorridendo sui capelli.
— Ed ora che cosa dirà alla nonna? Come spiegherà la mia visita? — domandò.
— Dirò che il signor Tito Ercolani è venuto a chiedermi in moglie, — rispose Diana fingendo uno scherzo, ma con la voce ansante e il volto febbrile di chi gioca sopra una parola la sua vita.
E l’uomo che era saltato rapidamente in sella si chinò e disse:
— No, bambina mia, sposarsi a vent’anni è presto, ma a quarantacinque è tardi.
Quindi si slanciò a gran trotto per la strada deserta.