Alessandro Manzoni (De Sanctis)/Lezioni/VI. «Il conte di Carmagnola»

LEZIONI
VI. «Il conte di Carmagnola»

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Lezione VI

[«IL CONTE DI CARMAGNOLA»]

Come fu visto nell’altra lezione, i critici tedeschi censuravano il Conte di Carmagnola non per le sue parti meccaniche, ma per la sua parte organica, e vi trovavano mancanza di un significato generale, il quale oltrepassasse l’individuo, ciò che in quella scuola critica chiamano «concetto», «idea». Questa, secondo uno di quei critici, sarebbe che la catastrofe del Conte di Carmagnola dovrebbe essere l’espiazione del suo poco amor di patria; e secondo un altro, che nel Conte di Carmagnola dovrebbe trasparire l’avventuriero, il capitano di ventura, il quale, quantunque men reo degli altri, pure fosse come il capro espiatorio di tutta quella istituzione.

Dal significato generale scendendo all’individuo, dicevano che come tale il Conte di Carmagnola è poco interessante, perché non è il guerriero il quale combatte in prò’ del suo paese, ma un uomo assoldato, il quale combatte per vendetta, per egoismo.

Nella passata lezione vi mostrai che questi elementi non sono essenziali all’arte, possono e non possono esservi, e quelli che li elevano a criterii assoluti, sostituiscono nuovi idoli agli antichi. Abbiamo distrutto la regola di Aristotile, ebbene — ora ergiamo nuove regole, nuovi dogmi! E seguitando, vi mostrai qual’è la parte essenziale dell’arte, cioè la vita organica, la forma vivente.

Se in Germania fu bene accolto il Conte di Carmagnola per l’esterno meccanismo, e censurato per motivi interni, in Francia [p. 171 modifica]e in Italia avvenne il contrario. Nessuno disse nulla riguardo all’interno organismo, anche perché la critica non si era ancora alzata a quelle regioni a cui era giunta la tedesca; la lotta s’impegnò intorno al meccanismo esterno e alle tre unità, di tempo, di luogo e di azione, che formavano appunto il cardine del meccanismo tragico. Naturalmente i Tedeschi accoglievano con favore questa tragedia, perché scostavasi dalla scuola francese e italiana e si accostava alla tedesca e all’inglese. Gl’Italiani e i Francesi non potevano accettare un meccanismo che era la negazione di Racine, di Corneille, di Molière.

In Francia Manzoni rimase sino al 1820, era a Parigi quando comparve il Conte di Carmagnola, vi aveva amici e seguaci. Vi dirò della lotta che questa tragedia fe’ scoppiare in Italia quando parlerò dei romantici e de’ classici.

In Francia il Conte di Carmagnola fu male accolto; i critici che se ne occuparono, come Raynouard, Chauvet — che fece una lunga dissertazione per provare che il meccanismo di Manzoni conduceva alla inverosimiglianza, era la negazione dell’interesse drammatico — celebravano il meccanismo tragico della scuola francese. Manzoni, prima di lasciar Parigi, dette una lettera manoscritta a Fauriel con la facoltà di farne quel che gli sarebbe piaciuto. Fauriel la pubblicò per le stampe, e a questa benevola indiscrezione di lui dobbiamo la celebre Lettera intorno all’unità di tempo e di luogo.

In essa Manzoni risponde allo Chauvet e cerca confutarne ad una ad una le obbiezioni, e siccome ora per giudicare di un lavoro dobbiamo fermarci anche sulle teoriche, e la questione delle tre unità ci viene spesso innanzi, ed ha relazione co’ criterii sull’arte esposti nella passata lezione, così è necessario fermarci su queste due lettere per cavarne un resultato fisso, delle norme che ci guidino ne’ nostri giudizii.

Chauvet, partendo dalle unità di tempo, di luogo e di azione, propone il seguente piano, correggendo lui la tragedia di Manzoni. — La tragedia, egli dice, dovrebbe cominciare al quarto atto, quando cioè il Senato veneto crede aver acquistato le prove della colpa di Carmagnola e ne ha deliberato la morte — . [p. 172 modifica]Questo cominciare da un tempo così prossimo alla catastrofe è un inconveniente del meccanismo tragico, perché essendo l’azione rinchiusa in ventiquattro ore e in piccolo spazio, non vi si può abbracciare un grande numero di fatti. Chauvet dunque dice che il quarto atto dovrebbe essere il primo: allora scoppia la lotta tra il Senato e il Conte di Carmagnola, nasce ciò che in linguaggio drammatico dicesi «collisione», il conflitto drammatico. Per mantenere la collisione dovrebbe mettersi forza contro forza. Da una parte il Conte appoggiato sul suo esercito, sua moglie e sua figlia non dovrebbero restare oziose nella lotta, ma operare; poi il popolo, perché quel Senato era un’oligarchia sospettosa, e il Conte per resistergli dovrebbe farsi sostenere da esso. — Da una parte, dunque, il Conte col popolo, le donne, l’esercito; dall’altra il Senato e le altre istituzioni di Venezia: ecco già tutta una tragedia; e Chauvet aggiunge: — Dovrebbe avvenire che il Conte fosse vicino a schiacciare il Senato, ma là si arrestasse, e dicesse a se medesimo che ciò sarebbe contrario al suo onore, alla parola data. Nascerebbe in lui la collisione, e mentre egli starebbe deliberando, ecco il Senato ad arrestarlo e sottoporlo al consiglio segreto — .

Manzoni esamina questo piano nella sua risposta e lo confuta con molte ingegnose osservazioni.— È bene immaginato, egli dice, ma non ha nulla che fare con la storia: ai tempi di Carmagnola popolo non ce n’era, popolo consapevole di sé, tale da poter gettare il suo peso sulla bilancia. L’esercito era lontano dal Conte, e se fosse intervenuto, avrebbe disfatto il Senato, anche se il Conte non lo avesse voluto. Le donne non prendevano parte alle lotte politiche, rimanevano chiuse in casa, e perciò non le introduco che all’ultimo nella tragedia. Tutto questo bel romanzetto di Chauvet non è tragedia storica, e il fondamento dell’interesse tragico dev’essere qualche cosa di serio che nasca dal movimento storico e non giá un parto della fantasia — .

Così Manzoni in quella lettera rivela ciò che ha voluto fare, quali sono stati i suoi fini, e noi senza smarrirci in altre indagini, abbiamo lui stesso che dice: — Ho voluto fare, ho fatto [p. 173 modifica]così. Che cosa ha voluto fare? Rappresentare la lotta tra il potere civile e il potere militare, quello personificato dal Senato, questo dal Conte di Carmagnola. Da una parte il potere militare turbolento, indisciplinato; dall’altra il potere civile conscio della sua debolezza, furbo, volpe come quello è leone. Ultima conseguenza è che il leone è vinto dalla volpe, trionfa il potere civile, il Conte soggiace.

Questa idea drammatica come l’ha condotta Manzoni, dobbiamo ora vedere. La vita del Conte abbraccia molti fatti. Manzoni prende per punto di partenza l’arrivo di Carmagnola a Venezia; egli è innanzi al Senato, il quale dopo aver deliberato gli dà il comando delle truppe. L’ultima scena del dramma è la stessa: il Senato veneziano, e Carmagnola innanzi a lui. Il punto di partenza e la fine sono situazioni identiche, con questa differenza, che al principio il Senato dà il comando a Carmagnola perché fida in lui, all’ultimo lo condanna perché non ha più fiducia in lui. Fin qui tutto è liscio, v’è coesione fra le parti, ciò che Manzoni chiama «ideale del dramma». Egli ha innanzi due tipi. Marco e Marino; Marino che rappresenta il potere civile, il Senato; e Marco anch’egli senatore, che rappresenta gl’istinti generosi della parte del Conte di Carmagnola.

Questo è il succo della lettera, questo il sistema di Manzoni. Non discuterò ciò che dice Chauvet, critico dell’antica scuola, classico; ma quello che Manzoni dice aver voluto fare. Egli sostiene che non può esserci interesse tragico senza fondamento storico, e dato questo non può esserci unità di tempo e di luogo. Noto l’assoluto di questi principii. Possono esserci casi in cui la tragedia abbia fondamento storico; ma chi vi dá il diritto di dire che non può farsi una tragedia su base inventiva? Lo stesso si può dire a Chauvet: — Voi mettete a base della tragedia l’invenzione; ma chi vi dá il diritto di dire che non può esservi tragedia con fondamento storico? — .

Manzoni dice: — Guardate il fanciullo. Se gli raccontate un fatto maraviglioso, prima di tutto egli domanda: è accaduto? Se gli dite no, egli alza le spalle, non ci s’interessa più. Lo stesso è del popolo che per parte sua è il fanciullo della storia — . Ma [p. 174 modifica]si può rispondere a Manzoni: — Perché il fanciullo domanda se quel fatto che gli è narrato è vero? Perché non ha ancora sentimento estetico, non sa distinguere una bella da una cattiva musica o voce, non sente ancora diletto estetico, che suppone educazione, squisitezza di gusto. Ciò che il fanciullo concepisce prima è il reale, poi l’immaginato, il fantastico. Tardi l’uomo acquista il sentimento estetico, e tardi un popolo acquista questo fiore della civiltà. Vi sono popoli morti senza averlo avuto, cioè prima di essere giunti alla virilità; e noi ammiriamo nella Grecia antica appunto lo squisito sentimento estetico che produsse tanti capilavori di poesia, di architettura, di scultura, ecc. Che cosa ammiriamo nelle repubbliche italiane? Il sentimento estetico sviluppatosi così presto dalla rozzezza e che produsse i capolavori di Dante, di Michelangelo, di Raffaello e tanti altri. Le regole assolute e dogmatiche sono dunque arbitrarie; contro di esse si leva il genio, e le spezza— .

Altro torto di Manzoni è il considerare l’unità di tempo e di luogo come contrarie alla verisimiglianza. Se dicesse che è difficile fare una tragedia fra questi limiti, difficile sopra tutto chiudere entro di essi un fatto storico, saremmo d’accordo. Ma egli a priori rigetta l’unità di tempo e di luogo perché la storia, egli sostiene, non può inquadrarsi in limiti così stretti; ed ha torto, perché vi sono tragedie come il Saul di Alfieri, l’Athalie di Racine, rimaste in que’ limiti.

Dunque in correlazione di questa con la lezione passata, vi dico: il torto de’ critici è stato l’aver concepito l’unità di tempo, di luogo e di azione in modo assoluto, e il non aver capito che queste tre unità dipendono da un principio superiore e hanno limiti più o meno larghi secondo quel principio, che è un’altra unità più generale, l’«unità di situazione».

E che è questa? È l’unità della composizione presa nel suo insieme, nella sua totalità. L’essenza dell’arte è la vita organica, la «forma vivente»; l’espressione di questa vita è la «totalità», in cui gli elementi stieno come parti, sieno «partecipi» delle idee, le quali fanno che quella totalità sia quella e non altra, e di essa fanno un individuo. Quando il sentimento del tutto [p. 175 modifica]trovasi nelle parti, allora tutto è vivente; quando ciascuna parte è per sé sola, quando si perde il sentimento del tutto, comincia la dissoluzione, o come direbbe Machiavelli, la corruttela.

Per uscire dalle astrazioni, prendiamo per esempio un tutto, lo Stato. Lo Stato non è questo o quello individuo, questa o quella istituzione, è la società nel suo insieme. Se manca il sentimento dello Stato in tutte le sue parti, allora Luigi XIV dice: — Lo Stato son io — ; il diritto divino dice: — Il governo mi viene da Dio — . Lo Stato è la totalità, il suffragio universale, diremmo oggi. Le parti di esso sono: il Re, il Parlamento, i Consigli Provinciali e Comunali, le Corti, le classi: borghesia, nobiltá, clero, popolo minuto, ecc. Quando è vivente lo Stato? Quando in tutte queste parti è vivo il sentimento del tutto a cui appartengono. Quando s’incancrenisce e si avvia alla dissoluzione? Quando il sentimento dell’insieme è smarrito nei singoli membri, quando per esempio quei funzionari, come li chiamano, non esercitano le loro funzioni per lo Stato, ma per interesse proprio, e le classi sono divise per moralità, intelligenza, benessere, concetto della libertà; quando trovate di quegli spacchi che formano il pericolo della società latina, di quegli abissi profondi tra la borghesia illuminata e il popolo analfabeta. Allora avviene ciò che in un corpo morto. Quando l’uomo muore il corpo non è ancora disciolto, questo tiene tutte le parti dell’uomo vivo, ma è morto perché le parti non funzionano più, non sono più organi rispetto al tutto. Ciascuno di quelli elementi cessa di essere «partecipe» dell’insieme, diventa elemento a sé, e il tutto si scioglie.

Lo stesso avviene in una composizione poetica, che è una totalità vivente quando tutti gli elementi sono «parti», quando ivi è vivo il sentimento e l’intelligenza del tutto a cui appartengono. Se l’insieme è scarsamente rappresentato in quelle parti, la composizione, quantunque meccanicamente ben congegnata, è morta. Quando il poeta ha ben concepito l’insieme, la totalità della vita, e questa totalità è rappresentata in tutte quelle parti, allora la composizione è viva.

Se il poeta dunque ha ben concepito la totalità, se tutti gli [p. 176 modifica]elementi sono partecipi del sentimento generale, egli ve li colloca in modo che ogni parte abbia il sentimento del tutto, e questa maniera di collocarli si chiama la «situazione». Dove è situazione, il lavoro è idealmente indovinato; ove quella manca, quantunque ci sia sentimento della moralità, della verisimiglianza, del bello, la composizione è morta.

L’«unità di situazione» è l’unità della totalità, dell’insieme; il sentimento dell’insieme nella parti. Posta questa unità di situazione, che cosa è l’unità di azione?

L’unità d’azione presa in se stessa, divisa dal tutto al quale appartiene, diviene una falsità. Ma chi vi ha detto che l’azione dev’essere una? I nostri poveri critici si sono accapigliati per trovare l’unità d’azione nell’Orlando Furioso, o nella Divina Commedia, ed hanno avuto il coraggio di dichiarare un difetto il non avercela trovata; e il Tasso stesso per difendere il Furioso ha detto che questo è il seguito dell’Orlando Innamorato, e che entrambi formano un tutto solo. Nel Furioso sono molte azioni importanti, la guerra de’ Mori contro Parigi, la pazzia di Orlando che dà il titolo al poema, gli amori di Ruggiero e Bradamante con cui quello si conchiude. Ma qual’è l’azione principale? Nessuna. L’azione dev’essere una, ma l’unità non dev’esser presa in senso materiale; possono esservi molte azioni, ma legate in modo che tutte prese insieme rappresentino il tutto che ha innanzi il poeta; in modo che tutti i fatti, tutte le azioni si riannodino intorno a qualche cosa di centrale che rappresenti l’anima della composizione. In questa maniera voi trovate la via di giudicare l’Orlando Furioso e la Divina Commedia. Per esempio, nel Furioso l’insieme è il mondo cavalleresco fortemente concepito dal poeta, intorno al quale le azioni si riannodano: tutto quel disordine apparente, materiale, rappresenta l’essenza del mondo cavalleresco, lo spirito di avventura, l’iniziativa individuale.

Dirimpetto alla «situazione», che cosa è l’unità di tempo? Chi vi ha detto che il tempo dev’essere limitato a ventiquattro ore? È anch’esso relativo alla situazione, e quando questa voi l’avete fortemente concepita e l’insieme ben ripullula nelle [p. 177 modifica]parti, il tempo può essere anche un secolo. L’unità di tempo non sono le ore materialmente prese. Nel Cinque Maggio abbiam veduto quel passo:

Dall’Alpi alle Piramidi,
Dal Manzanarre al Reno...,

nel quale sono accumulati fatti accaduti in dieci o dodici anni, e tutto questo tempo vi sembra un minuto paragonandolo coll’idea che il poeta ha voluto esprimere.

Ed anche il luogo lo fa la situazione, e se questa esige il giro del mondo, voi lo girerete senza che nemmeno vi sembri uscire dalla vostra stanza, se il poeta ha ben riprodotto dappertutto nelle parti l’insieme.

Ecco dunque come quelle regole prese in senso assoluto debbono dirsi assurde, ma sono vere quando proporzionate, non materialmente, alla natura della situazione.

Cerchiamo di applicare al Conte di Carmagnola questi criterii intorno al meccanismo che abbiamo dovuto stabilire, in dipendenza del criterio organico dell’arte, del principio della vita, che determinammo nell’altra lezione.

Manzoni ha voluto rappresentare la lotta tra il potere civile e il potere militare. Che cosa è la totalità organica, vivente di questa tragedia? È, non quale la dà il Conte di Carmagnola preso in se stesso, ma quale la dà l’idea che è passata pel capo di Manzoni, cioè l’idea di quella lotta tra i due poteri. Avviene perciò che la vita di Carmagnola è spezzata in due grandi parti, e la prima giunge fino al momento in cui egli arriva a Venezia: parte questa piena d’interesse, ma non rappresentata, fatta narrare da’ personaggi. La tragedia comincia quando si sviluppa la lotta tra i poteri. Accettiamo la situazione così qual’è, vediamo ora come Manzoni ha saputo trattarla. Che cosa suppone una lotta tra il potere civile e il potere militare? Suppone un processo psicologico, una storia dell’anima umana, rispetto all’uno e all’altro de’ due poteri; e siccome questi sono personificati in Marino e nel Conte di Carmagnola, suppone una storia di questi personaggi, un processo psicologico per cui essi [p. 178 modifica]cominciando la loro vita d’accordo, giungano di ombra in ombra, di sospetto in sospetto, al punto che Carmagnola è sottoposto al tribunale segreto.

Di ciò Manzoni stesso è persuaso, e a me piace presentarvelo non solo come poeta, ma anche come critico, perché in que’ tempi egli fu uno de’ migliori critici. Non già che egli pel primo avesse combattuto quelle regole; avevamo avuto Guarini e Metastasio, i quali aveano allargato i limiti messi all’arte da Aristotile. Eglino difesero l’opera loro come poeti divenendo critici, uno nella sua Apologia, opera straordinaria rispetto al tempo in cui fu scritta, perché vi comparisce in germe ciò che poi fu detto il romanticismo; e Metastasio nell’Estratto della Poetica di Aristotile.

Manzoni fa una bella riflessione.— Quando voi rinchiudete un fatto drammatico in ventiquattro ore e nello stesso luogo, il processo psicologico — egli dice — diviene impossibile; la storia dell’anima non si svolge in ventiquattro ore, né in così ristretti limiti possono restringersi le fine gradazioni per cui si sviluppa un carattere; avete bisogno di limiti più larghi — . E qui egli fa un magnifico paragone. Prende la Zaira di Voltaire e l’Otello di Shakespeare. In fondo il fatto è lo stesso in queste due tragedie: c’è un marito geloso che prendendo le ombre per corpi e i corpi per ombre, si persuade della infedeltà di sua moglie e la uccide. La differenza dipende dal diverso meccanismo.

Voltaire in ventiquattro ore non può darvi il processo psicologico del geloso, e rimedia a questo difetto con una macchinetta. Suppone che sia diretta a Zaira una lettera da suo fratello, e che il marito la creda lettera d’un amante, per cui diventa furioso e uccide la moglie. È un mezzo comico questo, buono per una commedia fondata su intrighi ed equivoci; ma nella tragedia di Voltaire, quantunque questa faccia effetto per la magniloquenza dello stile e per alcune situazioni drammatiche, è un elemento volgare.

Guardiamo ora il gigantesco Otello di Shakespeare. Quell’uomo comincia amando Desdemona con tanta passione: poco a poco la sua serenità se ne va, quel carattere si turba, piccoli [p. 179 modifica]incidenti insignificanti si trasformano nell’immaginazione: ci penetra il perfido Jago, che eccita e dirige il sospetto, fino al punto che questo diventa certezza. Qui si ha il vero processo psicologico, la storia dell’anima.

Manzoni, dunque, vuol rappresentare il modo come poco a poco dalla confidenza reciproca tra il Senato veneziano e Carmagnola si passi al sospetto, e da questo alla certezza del tradimento, e si giunga alla morte del Conte.

Il difetto del Carmagnola è il seguente. Se la base di questa tragedia dev’essere un processo psicologico, questa vera base di tutto il movimento drammatico è rappresentata solo nel terzo atto. Là si vede il Conte superbo della sua vittoria, poi un Commissario viene a dirgli: — Bisogna continuare nell’opera cominciata colla vittoria — . Il Conte non ammette che un Commissario del potere civile gli faccia lezione. Più tardi viene un altro Commissario e dice al Conte: — I soldati restituiscono i prigionieri, ordinate loro che noi facciano — . Era quello un uso di guerra, e il Conte non solo si rifiuta ad impedire la restituzione, ma ne fa liberare altri quattrocento. Egli se ne va e i due Commissarii rimasti soli si guardano in faccia e dicono: — Abbiamo a fare con un uomo avvezzo al comando, e che vuol sempre comandare — .

I due precedenti atti sono l’esposizione degli «antecedenti», i due seguenti sono la condanna del Conte, la catastrofe. Tutta la tragedia si concentra nel terzo atto.

Manzoni che vuol fare una tragedia storica, non s’è domandato: — Le cose sono avvenute cosí? — . La storia è stata più poetica della sua tragedia. Quel fatto de’ prigionieri fu il primo incentivo del sospetto; passano due o tre anni dopo questo fatto, prima che il Conte sia condannato. In questo tratto di tempo il Conte comincia ad essere sfortunato e ciò gli produce danno, perché la sfortuna d’un generale apre facile adito al sospetto. Egli ordina di prendere Cremona: i soldati le dànno l’assalto di notte, i cittadini resistono, quelli sono costretti a ritirarsi, e il Conte non insiste, non toma all’attacco. La flotta veneta si trova in mal passo, egli potrebbe salvarla, ma per vendicarsi [p. 180 modifica]della mancanza di rispetto, per mostrare che non gli si può dar lezione in fatto di guerra, la lascia schiacciare. È il cumulo di tutti questi fatti che induce il sospetto nel Senato veneziano.

Manzoni vuol fare un dramma nuovo, ma ha innanzi un pubblico avvezzo alle regole classiche, ed ha pensato: — Se prolungo la storia di due e tre anni, esco troppo fuori dei limiti che ammette il pubblico italiano — . Componendo egli pensa ai fischi del parterre. Quindi nel quarto atto mette in bocca ad un personaggio la narrazione dei fatti in cui è il processo psicologico, la tragedia: quei fatti perciò riescono freddi, sfuggono all’attenzione dello spettatore, perché narrati e non rappresentati.

Vediamo quali sono le conseguenze di tutto questo. Poiché non c’è movimento drammatico, non quel processo psicologico che Manzoni medesimo vede nell’Otello, e le azioni sono quasi tutte narrate, e c’è una sola azione rappresentata, la battaglia di Maclodio, cosa accessoria che dà origine al Coro; la tragedia è composta di discorsi: non c’è vita drammatica.

Nel primo atto abbiamo innanzi il Senato che dopo aver discusso a lungo, delibera di affidare a Carmagnola il comando delle truppe contro Filippo Visconti; poi Marco, amico del Conte, che va a comunicargli la notizia, e qui un discorso tra Marco e il Conte. Nel secondo atto è un consiglio di guerra de’ generali di Filippo, vi si discute a lungo se si deve dare battaglia oppur no; poi c’è il Conte che comanda ai suoi di starsene pronti: qui finisce il secondo atto. Nel terzo si comincia a mostrare lo sviluppo drammatico, i Commissarii proibiscono la restituzione de’ prigionieri, il Conte nega di farlo. Nel quarto si ha la narrazione de’ fatti accaduti dopo, il Senato fa venire a Venezia il Conte, e c’è un lungo dialogo tra Marco e Marino. Nel quinto atto è la catastrofe.

Come si vede, tutto il dramma è vuoto di azione; vi sono magnifici discorsi; ma sono discorsi: nulla fa tanto danno alla rappresentazione di un dramma come il vuoto dell’azione. Oggi che i più mediocri scrittori sono pratici del teatro, vanno all’eccesso opposto, presentano una catena di fatti e di situazioni, [p. 181 modifica]sopprimendo quasi del tutto i discorsi. Ma, ripeto, nulla rende cosí fredda la rappresentazione come i discorsi: allora si ha ciò che dicesi la «stagnazione», sorge la disattenzione, la noia, la quale si sente anche nella lettura di uno di quelli. Spesso la s’interrompe, sorgendo il desiderio di correre a vedere che cosa vien dopo. Per l’eccellenza della poesia la lettura di que’ discorsi del Carmagnola ci rapisce, ma nella rappresentazione ci sono finezze che sfuggono allo spettatore. Come volete che egli, quando si narra l’assalto di Verona, colga i fatti narrati, invece di averli sott’occhio? Egli prende le cose all’ingrosso, perché per colpirlo c’è d’uopo presentargli qualche cosa che operi, si muova.

Nel Conte di Carmagnola dunque, la maggior parte è narrazione, vi sono discorsi più che azione. E vi è una curiosa singolarità. Manzoni vuol darci un dramma storico, e non si accorge che strozza il conflitto drammatico in un solo atto, riempiendo il rimanente di discorsi; il che se mantiene la parte, diciam così, «materiale» della storia, falsifica, fraintende la parte spirituale di essa. Nel secolo XIX un dramma pieno di discorsi e soliloquii è concepibile, perché è un secolo in cui si discorre più che non si operi: essendo l’intelligenza molto sviluppata, noi siamo avvezzi a ripiegarci su noi, c’è dell’Amleto nel nostro secolo. Ma nel Medio Evo la vita era tutta al di fuori, e quei capitani di ventura erano tutt’azione; e non c’era molto sviluppo d’intelligenza. Questi discorsi nel Carmagnola sono un anacronismo storico: il ripiegarsi dello spirito in se stesso è proprio dell’uomo moderno.

Quando Marco è obbligato a sottoscrivere un foglio e ad impegnarsi di non avvertire il Conte amico suo, fa un lungo soliloquio e sottili considerazioni. Egli si domanda: — Fo bene o male? Che cosa farò? Avvertirò l’amico? Ma così infrango il giuramento! Non infrango il giuramento? E sono un perfido amico — . Infine, come una canna in balìa del vento, perde la volontà e dice: — Si segua il destino! — . Accusa del suo operato il destino, il quale non è altro che la sua codardia morale, battezzata con quel nome, e lo segue maledicendo la sua patria che l’ha messo in quella situazione. Egli dice: [p. 182 modifica]
                              — Che tu sii grande
E gloriosa, che m’importa? Anch’io
Due gran tesori avea, la mia virtude.
Ed un amico; e tu m’hai tolto entrambi — .

Ora tutto questo è moderno: quel modo di sentire e di concepire suppone intelligenza sviluppata, avvezza alla concentrazione. Questa mancanza di vita drammatica nel Carmagnola è dunque difetto non solo in se stesso, ma rispetto ai tempi in cui visse il protagonista.

Ed ora facciamo un po’ di critica produttiva. — Ma era veramente quella l’idea poetica del Conte di Carmagnola? È quella la totalità organica di cui vi ho parlato?

Manzoni si è messo in capo che quella idea sia la lotta tra il potere civile e il militare. Ma è veramente là la lotta? È col considerare tutto il dramma storico, col penetrarci della sua totalità, che possiamo vedere qual’è veramente l’idea organica della composizione. È questa: che le stesse qualità le quali hanno condotto Carmagnola alla grandezza, son quelle che lo conducono alla decadenza.

Analizziamo il Conte non solo qual è rappresentato, ma anche qual è narrato, con tutt’i suoi antecedenti. Trovate un uomo nato in bassa fortuna, un pastore: pure, egli ha qualità che lo fanno superiore alla sua sorte, forte volontà, febbre di attività, intelligenza non ordinaria, coraggio indomabile, e senza saperlo egli ha anche ambizione straordinaria.

E che cosa è l’ambizione? Oggi diciamo: ambizione di partito, ambizione di questo e di quell’altro. La vera ambizione è rara, è il desiderio, la necessità di attuare quello che un uomo ha dentro di sé, di farlo diventare realtà; e quindi vi ha diverse specie di ambizione, politica, letteraria e via di seguito. E quando un uomo si propone uno scopo sproporzionato alle sue qualità, la sua non è che vanità. La vera ambizione è la coscienza della propria forza, il sentirsi capace di attuare grandi cose.

Quest’uomo è evidente che rimarrà turbato, scontento, finché non avrà esplicata quella forza. Il Carmagnola pastore, trova [p. 183 modifica]una truppa d’avventurieri che lo invita a seguirlo: egli lascia la greggia, diventa soldato, le sue qualità lo distinguono subito. Il suo capitano è Pergola; questi ha fiutato l’ingegno di Carmagnola, lo mette sotto la sua protezione, lo fa progredire. Di protetto egli diventa poco a poco protettore, anch’egli capitano di ventura, ha un esercito a cui comandare. La sua ambizione ha già raggiunto un grado di attuazione. Avea aspirazioni, ora ha la potenza. Mette la sua spada al servizio di Filippo Visconti, conquista Milano, regala a Filippo la corona, sposa la figlia di lui. Fin qui la sua vita è ascendente, perché sapete che l’uomo sale sino a un certo punto, dopo il quale è la china. E viene la china nella vita di Carmagnola: egli è costretto a lasciare Milano, va a Venezia dove succede la sua catastrofe.

E quali sono le ragioni della decadenza? Le stesse qualità che lo hanno fatto salire. Finché ha avuto uno scopo a cui tendere, e per mezzo i soldati e le battaglie, egli è rimasto nel suo ambiente. Ma eccolo ora suddito di Filippo Visconti, sposo della figlia di lui, circondato da cortigiani invidiosi che gli tessono insidie, a lui, avvezzo a sciogliere i nodi con la spada, inconscio degl’intrighi di corte. Filippo Visconti non lo guarda più come strumento utile, anzi non più utile, pericoloso.

Un uomo volgare a quel posto sarebbe stato contento, egli no; vi si sente morire, è fuori del suo campo di azione, la sua attività febbrile è rimasta senza scopo. Egli dà ombra al suo signore, se ne avvede, domanda un’udienza. Filippo Visconti gliela nega, e Carmagnola lo abbandona, va come Annibale cercando nemici al Duca, la vendetta diviene il suo stimolo. L’attitudine del comando, l’indole irrequieta, la sete delle battaglie lo han reso grande, ora lo mettono in rovina.

Venezia prepara guerra al Visconti, egli va ad offrirle la sua spada. Colà trova un’oligarchia sospettosa, un Senato che vuol comandar anche nelle cose di guerra, che si permette mandargli de’ Commissarii — oggi diremmo delle spie — , di dirgli: — Devi far questo o quello — . Carmagnola, avvezzo a comandare, guerriero, si trova di fronte borghesi pieni di menzogne, consci della loro debolezza, i quali cercano vincere non per forza ma per [p. 184 modifica]arte. Carmagnola, perché ha quelle qualità che lo condussero in alto, deve morire. Un uomo mediocre sarebbe caduto nella trappola? No; ma egli sa che si sospetta di lui, gli amici ne lo avvertono; eppure quando è chiamato dal Senato, va a Venezia. All’ultimo dice: — Fui uno stolto— . È la stoltezza d’un’anima generosa.

Manzoni non ha veduto che cosa rende interessante questa vita, la quale è simile alla vita di Napoleone: quelle stesse qualità che condussero Napoleone in alto, gli fanno girare il cervello e lo spingono alla mina. Manzoni non s’innalza fino a quell’altezza ed ampiezza, avea ancora i pregiudizi classici. Ma se vi fosse giunto che dramma avrebbe fatto, e senza i lunghi discorsi! In questo dramma il punto di partenza sarebbe simile a quello del Wallenstein di Schiller: Wallenstein è il personaggio storico che più si accosta al Carmagnola. Vedreste quest’uomo entrare in iscena quando è all’epoca della sua potenza, circondato di amici e ammiratori e seguaci devoti: egli regala una corona a Filippo Visconti, è promesso sposo della figlia di lui. Magnifica entrata! E ci trovereste non solo la vita di Carmagnola, ma tutta la vita italiana, quando gli si mettessero accanto Pergola, Piccinino, tutti que’ capitani di ventura che egli avea vinti, la figlia di Filippo e lo stesso Filippo, que’ cortigiani e que’ soldati. Cosí avreste en raccourci, in abbozzo tutta la vita italiana di quel tempo. In questo modo avremmo avuto un Wallenstein, uno di que’ drammi come li sapeva concepire Shakespeare, un Macbeth, un Re Lear.

La decadenza del Conte proviene non dal perché egli siasi mutato, ma perché si è mutata la situazione ed egli è rimasto lo stesso. E per seconda parte del dramma concepito in questo modo, avremmo tutto ciò che avviene a Milano, vedremmo il leone che si dibatte tra i lacci che gli tendono i cortigiani, e si rode nell’inerzia, di fronte a quel sospettoso Filippo Visconti: qui ci è tutto un soggetto di tragedia. Nella terza parte Carmagnola sarebbe a Venezia, ove egli non è mutato; il suo carattere non muta, invece s’inasprisce; e infine giunge alla catastrofe. In questo modo avremmo innanzi tutta la vita di una grande [p. 185 modifica]individualità, un risultato psicologico interessantissimo, una vita piena, ricca, che si svolge fatalmente, necessariamente fino alla catastrofe, sviluppata in tutte le sue fasi. E insieme con essa, come parte di questa totalità, la vita italiana di quel tempo. E allora quel Coro invece di comparire in mezzo alla tragedia a proposito d’una battaglia che è un accessorio, quel Coro che non ha nulla che fare con la battaglia, e lì rimane sconnesso dal resto; che effetto immenso produrrebbe, anche nella rappresentazione in teatro!

E tutto ciò, dopo tre secoli, innanzi un popolo che per conseguenza di quella vita è stato servo or di questo or di quello straniero, di Tedeschi, di Spagnuoli, di Francesi. Se il poeta avesse fatto sentire in tutta la tragedia questa intonazione della vita italiana, come in quel

      Tu che angusta a’ tuoi figli parevi,
Tu che in pace nutrirli non sai;

detto a un popolo anelante a nuovi destini, quel Coro produrrebbe un effetto straordinario: invece rimane un incidente. E si comprende perché la tragedia sia stata messa da parte, perché ciò che è rimasto ancora vivo nel paese sia il Coro, che il paese ha staccato dalla tragedia.

Ma qui Manzoni esce fuori della drammatica e va nella lirica. In lui manca il sentimento del dramma, del conflitto, della «collisione»; ma mettendo le mani a questo Coro, il suo orecchio pare senta una nuova musica, il suo genio si risveglia, una nuova lirica gli si presenta, perché la sua potenza è lirica. Trovandosi innanzi questa nuova espressione lirica, trova una corda finora non toccata. C’è pure il sentimento religioso, il sentimento della fratellanza universale, come in quel

      Tutti fatti a sembianza d’un Solo,
Figli tutti d’un solo riscatto;

ma c’è qualche cosa di nuovo, ed è il sentimento nazionale. Come questo gli sia sorto innanzi, vedremo nell’altra lezione.


        [Ne La Libertà, 13-15 marzo 1872].