Alessandro Manzoni (De Sanctis)/Lezioni/V. La tragedia alfieriana e la tragedia manzoniana - Il «conte di Carmagnola»

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V. La tragedia alfieriana e la tragedia manzoniana -
Il «conte di Carmagnola»

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V. La tragedia alfieriana e la tragedia manzoniana -
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Lezione V

[LA TRAGEDIA ALFIERIANA
E LA TRAGEDIA MANZONIANA -
«IL CONTE DI CARMAGNOLA»]

L’ideale lirico che finora abbiamo esaminato negl’Inni, nell’Ermengarda, nell’Adelchi, nel Cinque Maggio, è, come avete visto, l’ideale dell’«ultim’ora», l’ideale della morte. Quando il poeta esce dalla sua generalità lirica, quando vuol trovare una situazione per incarnare il suo ideale, vi presenta la morte, Adelchi che muore, Ermengarda che muore: Napoleone stesso, quando all’ultimo comparisce quell’ideale, è nel momento della morte.

Chi vuol raffrontare questo contenuto cristiano redivivo con lo stesso contenuto qual è nel Medio Evo, vede subito la differenza. Lì l’ideale non è solamente il frate, il convento, il santo, 11 mistico; ma penetra in tutt’i recessi della vita, a cominciare dal papa vicario di Dio e dal re mandatario di Dio. E capite perché allora possa comparire la Divina Commedia, la quale non è che l’altra vita in cui si riflette la vita terrena, storica; non in dissonanza, ma di accordo e nelle istituzioni e nel concetto morale.

Al contrario Manzoni non trova l’ideale se non innanzi alla tomba, e invano finora lo abbiam veduto sforzarsi di farlo penetrare in tutti gli stadii della vita. L’ha tentato con l’Adelchi e non è riuscito, l’ha tentato con l’Ermengarda e ne è venuto fuori un Coro; ma la donna idealizzata a quel modo non ci è. [p. 155 modifica]Avete visto il suo sforzo, quando è venuto al Cinque Maggio, di fare di Napoleone l’orma del Creatore, uno strumento della Provvidenza; ma avete anche veduto come la grand’ombra di questa realtà copra tutte quelle velleità del nuovo ideale, come essa si presenta e pone da sé secondo il popolo la concepisce, e Manzoni fa risplendere quell’ideale solo all’ultimo momento, all’istante della morte.

Ebbene questo ideale dell’«ultim’ora» non lascia però di avere la sua influenza nel modo come il poeta concepisce gli avvenimenti, come rappresenta la vita terrena. Guarda con l’occhio dell’altro mondo, innanzi al quale le passioni della vita sono vanità: c’è in lui una tendenza a spogliare gli avvenimenti di quella vernice, di quell’involucro del quale li coprono i contemporanei; a vederli nella loro realtà, quali sono; a spogliar questa delle passioni che penetrano in tutta la vita storica e vederla con occhio tranquillo, con l’occhio calmo di chi si sente presso a morte: perché sapete che a quel passo le cose umane sembrano tutt’altre, tutte le passioni della vita terrena spariscono.

Vedete nel Cinque Maggio qual è il carattere che prende il poeta:

      Vergin di servo encomio
E di codardo oltraggio.

Il poeta vede l’uomo, fatto
Segno d’immensa invidia
E di pietá profonda;

e si mette al disopra delle passioni contemporanee, spoglia l’immagine di quell’uomo dell’involucro di cui la coprono gli altri attori della storia, lo vede da un punto di vista più alto, quello della giustizia.

Questa tendenza Manzoni l’ha non solo dal suo colorito cristiano, ma ancora dalla sua natura pacata e calma, perché anche la natura del genio ha influenza sulla sua creazione; ma [p. 156 modifica]lere o non volere, in questa maniera di considerare la storia, penetra qualche granello di quella reazione che allora invadeva gli spiriti contro il secolo XVIII. Perché il peccato principale che rimprovera vasi al secolo XVIII, era il profanare la storia, il travisare i fatti, il far servire la verità storica alle passioni politiche, al desiderio di libertà cui tutti gli altri interessi dello spirito subordinavansi. E il gran peccatore in Italia era Vittorio Alfieri, accusato perché nelle sue tragedie rappresentava un solo ideale, il suo; perché avea messo interamente da parte la storia, considerati i suoi personaggi fuori del tempo e dello spazio. Capite quindi perché Alfieri abbia avuto l’onore (perché questo è un onore) di essere principalmente segno agli strali della reazione del secolo XIX; e tra gli altri il nostro Carmignani fece allora una diatriba contro Alfieri. I più appassionati contro di lui furono i fondatori della scuola romantica in Germania, Federico e Augusto Schlegel, l’uno nel suo Corso di letteratura drammatica, l’altro nella sua Storia generale della letteratura.

Ora non voglio vedere fino a qual punto avessero ragione o torto costoro nel mettere in dubbio le qualità poetiche di Alfieri, questione già trattata da molti altri, e che ci allontanerebbe dal nostro proposito. Dirò solo che i fratelli Schlegel lo maltrattano non solo come Vittorio Alfieri, ma come rappresentante di un sistema messo da essi al bando dell’arte e della poesia. In virtù di questo sistema Alfieri si teneva in buona compagnia, perché con lui sono condannati tutt’i tragici antichi italiani, rei di aver imitato le forme classiche, e Corneille, Racine, Crébillon, Voltaire, lo stesso Molière, Metastasio, Goldoni e via di seguito.

Gli strali lanciati qua e là si condensano principalmente contro Alfieri. Qui si vede anche la passione cattolica reazionaria che in quel tempo si svegliava, e che sceglieva a capro espiatorio il povero Alfieri.

Bisogna esser vivuto in que’ tempi per comprendere l’immensa impressione che produssero le due opere dei fratelli Schlegel. Sono critici empirici, non sono filosofi né Federico né Augusto, e non sono io che li chiamo in questo modo, è Hegel medesimo. Sono empirici, ma nel loro empirismo c’è tanta ricchezza [p. 157 modifica]di nuovo contenuto, tante nuove viste originali, c’è un sistema che contraddice tutte le regole e opinioni ricevute, che naturalmente doveano produrre grande impressione. Uno di quelli che provarono questa impressione fu il giovane Alessandro Manzoni, ed essa è visibile in lui quando non solo si osservano le sue poesie, ma si leggono i suoi discorsi e articoli critici. C’è una parte in cui cita le opere de’ fratelli Schlegel come opere di gran merito. Bisogna conoscere tutti questi fatti speciali per comprendere la nuova forma della tragedia storica, di cui ora ci occuperemo, concepita dal Manzoni in contraddizione alla tragedia classica.

E come della tragedia classica Alfieri è il principale rappresentante, se non per merito poetico, per averla spinta all’ultima esagerazione; la tragedia storica di Manzoni ha il suo contrapposto nella tragedia alfieriana.

Per comprendere quindi la forma che Manzoni dà alla sua tragedia storica, vediamo prima quale sia la forma della tragedia di Alfieri, per poi conoscerne la differenza, paragonandole.

Alfieri quando vuol comporre una tragedia ha innanzi un ideale, mettiamo l’ideale del padre, del tiranno, della madre (Merope), del ribelle a Dio, come Saul. A lui non importa se questo ideale sia più o meno conforme alla storia; prende il nome, prende i fatti principali dalla storia: per tutto il resto lavora lui, mira a raccogliere in un personaggio tutte le qualità che possono rappresentare nella sua ultima potenza l’ideale che gli fluttua nella mente.

Ricordatevi qui che con tale processo si credeva una volta costruire il Bello. Si diceva che un famoso pittore greco avesse innanzi sette od otto belle giovani e da ciascuna prendesse le parti più belle, e poi come in una combinazione chimica, mettendole nella storta, ne usciva il Bello. In certo modo, la maniera come allora si costruiva l’ideale somigliava a questo processo.

Prendiamo per esempio che Alfieri voglia rappresentare il tiranno. A lui poco importa che Filippo II storicamente sia simile al suo ideale: non gl’importa. Filippo fu un tiranno: questo [p. 158 modifica]gli basta, e riunisce in lui tutte le qualità che può avere il suo ideale.

Vedete un po’ quali sono le conseguenze di questa maniera di formazione. Il punto di partenza non è il reale, la storia, ma un ideale concepito dalla intelligenza. Perciò la composizione è anch’essa per dir cosí ideale o intellettuale, cioè Alfieri non fa succedere i fatti secondo le esigenze storiche di tempo e di luogo : aggruppa i fatti come un filosofo raggrupperebbe le idee; e quindi questa successione mi rappresenta come tante proposizioni logiche unite insieme per dimostrare una proposizione principale, per giungere al quod erat demonstrandum.

Alfieri dunque ordina i fatti suoi più in modo intellettuale e logico che storico. Ne nasce da una parte mutilazione, dall’altra esagerazione. Mutilazione, perché è obbligato a togliere i fatti che non servono al suo scopo, non giovano a mettere in vista il suo ideale : i suoi personaggi sono storicamente mutilati. Esagerazione, perché mentre taglia alcuni particolari, altri deve alzare fino all’ideale che gli sta innanzi; e allora si ha il caso del tiranno Procuste, il quale quando mettea sul suo letto qualcuno che non ci stesse esattamente, lo prendeva per le gambe e lo stirava : cosí Alfieri deve prendere i personaggi e stirarli fino al suo ideale. Ecco i difetti naturali della sua composizione, logica ma fredda.

E non basta : la composizione ideale produce il meccanismo anche ideale nella tragedia : il meccanismo è l’esecuzione di quell’ordito, l’ordito considerato nelle sue parti. Dite ad Alfieri che la trama della tragedia è troppo lunga : egli che ha il suo ideale composto logicamente, non guarda se storicamente può avvenire ciò che fa avvenire, gitta via leggi di tempo e di luogo, e ne nasce l’unitá di tempo e di luogo, giá ammessa come canone dai critici, qui portata all’esagerazione, in modo che tutti gli avvenimenti si svolgono in una stanza e in ventiquattro ore : assurde regole nate da un’assurda composizione.

Veniamo allo stile e al linguaggio. Poiché il personaggio di Alfieri è ideale, cioè fuori della vita, di taglia non comune, eroe, dio dell’Olimpo; quando parla, il suo linguaggio non può [p. 159 modifica]rimanere quello della conversazione comune, deve elevarsi all’altezza del personaggio. Tutti sono eroi, parlano come dal tripode, a guisa di divinità dell’Olimpo, molto superiori all’ordine regolare.

Riassumendo: nelle tragedie di Alfieri ci avete un ideale tipico, con la tendenza a rappresentarlo nel personaggio con le sue più notevoli proprietà; una composizione più logica che storica, un meccanismo che rigetta i limiti di tempo e di spazio, un parlare sollevato a quell’altezza dell’ideale, conveniente a dii e ad eroi.

Se ho bene sviluppato questa forma propria a tutte le tragedie classiche, e che Alfieri conduce alle ultime sue conseguenze, spero esser anche chiaro nel rilevare il contrapposto di questa con la forma scelta da Manzoni, conveniente alla sua tragedia storica.

Manzoni non prende per punto di partenza un ideale, ma un fatto realmente avvenuto, ond’egli chiama la sua «tragedia storica», a differenza della tragedia classica. Perciò prima di comporre la tragedia, Manzoni studia cronache, storia, memorie; fa precedere una propedeutica storica, cerca farsi un’immagine al più possibile esatta de’ fatti come sono avvenuti. Una volta messo questo punto di partenza in contraddizione col punto di partenza di Alfieri, quali conseguenze ne derivano? Innanzi tutto la composizione non ubbidisce a leggi logiche, non è l’unione di tante proposizioni convergenti alla rappresentazione di un ideale; la composizione qui è la stessa successione de’ fatti come la dà la storia: non pedantescamente cronologica, perché anch’egli va da un punto a un altro, salta qua e là; e non è possibile una composizione poetica senza queste «licenze», come lo stesso Manzoni le chiama. Ma possibilmente séguita il cammino della storia, e situa i fatti in modo da non far perdere il legame dell’insieme; perché avendo fatti appiccicati a fatti, con un sol filo cronologico, perdete l’idea della totalitá.

Proseguiamo a vedere le differenze tra questa e la composizione alfieriana.

Dopo avere ordinata la composizione in questo modo, capite come non si sia piú obbligati a mettere i particolari sotto le [p. 160 modifica]leggi di unità di spazio e di tempo, anzi s’ingrandisce la trama della composizione, avendoci la successione storica. Manzoni non tien conto dell’unità di luogo e di tempo: offre velocemente, alla fantasia degli spettatori, aggruppati avvenimenti svoltisi in uno spazio larghissimo, in un tempo che oltrepassa parecchi anni.

Aggiungete che essendo il punto di partenza mutato, la composizione mutata, mutato il meccanismo, il linguaggio non può rimanere il medesimo. È evidente che personaggi non ideali ma storici, non innalzati per forza ad alte proporzioni, ma che sono un complesso di debolezza e di forza, di bene e di male come nella storia, adoperar debbano un linguaggio non più eroico o divino, ma che deve accostarsi al linguaggio parlato, ad una forma più popolare.

La tragedia storica dunque ha un punto di partenza reale, la composizione non logica ma storica, un meccanismo largo rispetto al tempo e allo spazio, il linguaggio vicino alla forma parlata. Applichiamo questo che abbiam stabilito al Conte di Carmagnola.

Manzoni nel 1816 concepì il Conte di Carmagnola, lo pubblicò tre anni dopo. Alfieri scriveva una tragedia in quindici giorni, e si comprende, perché la tragedia era lui, e poteva comporla senza bisogno di documenti. Manzoni verifica prima nelle cronache e nelle storie cosa sia il Conte di Carmagnola; cerca non un problema poetico, ma storico, che potesse essere interessante. Ora il Conte di Carmagnola per lungo tempo fu dagli storici creduto reo di tradimento, e gli storici stessi riconoscevano giusta la pena di morte inflittagli dal Senato di Venezia.

Manzoni studiando que’ documenti, e aggiungendovi la sua riflessione, venne a scoprire che forse il Conte era innocente, senza che il Senato fosse reo: credette far opera interessante riabilitando quell’uomo infamato dagli storici. La sua tragedia ha già un interesse storico, il presentare quel carattere eroico purificato dalla colpa, la riabilitazione del Conte di Carmagnola.

A noi ora importa poco vedere se ha ragione o torto. Pietro Verri dice che il Carmagnola fu reo, Manzoni lo nega; la tesi appartiene agli storici, a noi importa vedere se Manzoni ha potuto raggiungere il suo fine. [p. 161 modifica]Se egli vuol rappresentare Carmagnola non come essere fantastico, ma con quei caratteri che gli dá la storia, comprendete cosa sia la composizione di questa tragedia storica. Manzoni sceglie in tutta la storia del Conte un punto di partenza, e dopo vi presenta i fatti non legati artificialmente ma successivamente, come appunto nella storia. Pure c’è un certo filo ideale che li aggruppa insieme, e non si hanno scene cucite fra loro a suo arbitrio, come gli rimproveravano i critici di quei tempi, tra cui Paride Zaiotti. La composizione storica deve essere pur fatta con un certo artificio e legame che dia il concetto dell’insieme.

Il Conte di Carmagnola prima di essere conte era semplice pastore. Incontrò una truppa di avventurieri, e costoro l’istigarono ad andare con essi. Egli era di ingegno pronto, avea coraggio, audacia, tutte le qualità che fanno andare innanzi un uomo, specialmente in tempi in cui non c’è una forza speciale che impedisca lo sviluppo della potenza individuale. Carmagnola giunse ad avere una truppa, e con questa conquistò il ducato di Milano, ne fece dono a Filippo Maria Visconti, di cui sposò la figlia. Giunto qui diventa uno strumento non piú utile, ma pericoloso.

In que’ tempi di violenza non poteva piacere ad un principe aver vicino un uomo così potente, così amato dai soldati. Filippo cercò di disarmarlo destramente, e quando il pastore divenuto conte si accorse del tranello, abbandonò Filippo, e come Annibale andò cercando in Italia un nemico contro colui. Proprio allora Venezia era in procinto di dichiarar guerra al Duca, e il Conte offrì la sua spada al Senato veneziano. In quel tempo si andava per le spicce, per cui Filippo mandò un assassino ad uccidere il Conte, ciò che l’accreditò vie più presso i Veneziani, i quali ne argomentarono che quantunque Carmagnola fosse sposo della figlia del Visconti, pure tra essi era inimicizia irreconciliabile.

Tutta questa che è la parte più interessante della vita del Conte, è gettata come un antecedente nella tragedia, la quale comincia dall’offerta che egli fa della sua spada a Venezia. Da [p. 162 modifica]questo momento, sino alla morte di lui, si ha una serie di fatti storici.

L’autore ha sentito istintivamente che una tragedia puramente storica, senza personaggi ideali, non poteva che riuscir fredda. Cercando il modo di combinare la storia e l’ideale, il poeta viene alla strana risoluzione di ficcare nella tragedia personaggi ideali, cioè, per Manzoni, inventati. Infatti tutti i personaggi della tragedia sono storici, tranne due, Marino e Marco, oltre i due commissari che sono anche in parte inventati.

Quando si viene alla catastrofe, quando i Veneziani sospettano che il Carmagnola li tradisca per favorire Filippo Visconti, sorgono nel Senato due correnti. Da una parte è la ragione di Stato, il patriottismo superiore alla stessa moralità, l’idea che si riassume nel salus publica suprema lex esto. Il rappresentante di questa idea è un senatore. Marino, uno de’ personaggi inventati. Marino può dubitare se sia traditore Carmagnola, ma pure inculca l’atto più indegno che da uno Stato si possa commettere, sia qualunque la forma del governo: una insidia volgare. Sapete che il Senato, colmandolo di onori, invitò Carmagnola a venire in Venezia, allontanandolo da’ suoi soldati: preso, il tribunale segreto lo condannò a morte.

Rimpetto a quella idea c’è l’idea contraria, l’idea della moralità, della virtù, dell’amicizia, la quale non può consentire che [così] vigliacca insidia si trami contro Carmagnola. Rappresentante di essa è Marco, fi quale non crede possibile che il Conte sia traditore, e invano si adopera a fargli comprendere che gli si tende un tranello, prima che vi caschi.

Ma non basta aver rimediato così al bisogno di personaggi ideali; Manzoni trova un’altra difficoltà. Quelli ch’egli voleva rappresentare erano tempi lontani da noi, e le virtù e i vizi vi erano considerati in altro modo. Immaginate che cosa fossero quegli avventurieri che si vendevano a chi più dava:

E venduto ad un duce venduto.
Per lui pugna né chiede il perché.

[p. 163 modifica]        Il Conte di Carmagnola stesso non avea patria, Venezia gli era indifferente, non sentiva che il desiderio di vendicarsi del Duca. Queste passioni oggi renderebbero l’immagine di un uomo volgare e disgustosa, ma erano inerenti alla vita di que’ tempi; nessuno sentiva che orrenda cosa fosse per Italiani spargere il sangue di altri Italiani, il sentimento dell’Italia non c’era ancora. Come dunque rappresentare in una tragedia siffatte cose? Alfieri non lo avrebbe neppur pensato, o ci avrebbe messo la coscienza del suo secolo, avrebbe fatto i suoi personaggi alcuni liberi, altri tiranni.

Manzoni si domanda: — Che farò? e non si guasta la storia? — . Allora gli viene la strana idea di salvare capra e cavoli: mantenere il significato storico degli avvenimenti, ed aggiungervi la coscienza presente interrompendo la tragedia con un coro, tanto più che il suo caro Schlegel lodava il coro greco e sosteneva che si potesse ancora adoperare.

Così in questa tragedia in mezzo alla trama storica, in mezzo ai personaggi storici sono due personaggi ideali: poi nel punto più interessante, spariscono que’ tempi, entra il secolo XIX, entra il poeta con la sua coscienza moderna, e ci mostra come quello spettacolo faccia vibrare le corde del suo cuore.

Finora Manzoni dopo lungo giro ci ha sempre presentato all’ultimo la morte, e là ha sviluppato il suo ideale cristiano. Nell’Adelchi la conchiusione sono le ultime parole di Adelchi, rivolte a Carlo: — Tu pur morrai — ;e il Coro di Ermengarda.

È naturale che anche questa tragedia finisca così. Dopo che la composizione ha proceduto come abbiam veduto, al momento della catastrofe, quando già noi sappiamo che il Conte deve morire, si ferma, e tutto l’ultimo atto è consacrato alla morte, all’ideale della tomba. Ci è prima Carmagnola solo, poi con la moglie e la figlia, poi con l’amico: dopo che egli ha sviluppato il sentimento cristiano del perdono, tutt’i movimenti lirici dell’ideale cristiano, va alla morte.

Se avete innanzi tutto questo cammino della tragedia storica Il Conte di Carmagnola, potete comprendere l’impressione che fece su’ contemporanei. Allora la politica per forza taceva, gli [p. 164 modifica]Austriaci erano a Milano, ma c’era una nuova generazione ardente e piena di vita. Tutta questa vita si riversava nella letteratura.

Manzoni ebbe un privilegio mancato poi agli altri scrittori: quando compariva un suo lavoro, tutti se ne occupavano, tutti se ne interessavano. Il Conte di Carmagnola fu un avvenimento. Nella stampa, letteraria semplicemente perché non poteva essercene politica, primeggiavano la Biblioteca Italiana ispirata da Vincenzo Monti, diretta da Acerbi, scrittore che sotto le apparenze classiche era devoto agli Austriaci; e il Conciliatore che sotto pretesto di conciliare gettò le passioni della nuova generazione nel classicume. Da una parte Monti co’ suoi, dall’altra Manzoni, Pellico, Berchet, ecc.

La zuffa s’impegnò sul Conte di Carmagnola, e le osservazioni furono al disotto di quelle passioni: trite, volgari come la critica di quel tempo. Manzoni si trovò soperchiato nella lotta e ricorse ai suoi amici fuori d’Italia, Goethe, Fauriel. Abbiamo un fatto che onora Goethe e Manzoni. Il gran poeta tedesco scrisse prima un articolo, poi un altro in difesa della tragedia, dove sotto benevola critica si scorge la grande amicizia che egli nutriva per Manzoni.

Nonostante questa pressione sull’opinione pubblica, il Carmagnola non ha potuto reggere alla rappresentazione, perché al di sopra de’ partiti politici e letterari ci è la voce popolare, ultima a dare il suo giudizio che è infallibile. Quando Manzoni pubblicò il Cinque Maggio, tutti batterono le mani, i critici furono ridotti al silenzio. Innanzi al Conte di Carmagnola la critica rimase incerta; ma di tutto quell’insieme una sola cosa è rimasta viva, il Coro.

Dobbiamo renderci conto di questo giudizio, osservando quali ragioni resero freddo il popolo italiano innanzi a questa tragedia; ragioni che non possono essere di partiti, politici o letterari, ma desunte dal libro immortale dell’arte.

Qui permettetemi che vi faccia un piccolo intermezzo per esporvi i miei criteri sull’arte. Siamo giunti ad un punto dove sorgono tante domande: — Che cosa è l’arte? perché l’ideale di [p. 165 modifica]        Alfieri è manchevole? in che difetta la forma di Manzoni? quale criterio dovrà esserci guida nel giudicare? — . Finché siamo rimasti nelle generalità liriche, potevamo stare alle impressioni; ora entriamo nella vita reale ed abbiamo bisogno di raccoglierci in noi stessi.

Alfieri partiva da un ideale che chiamerò tipico, Manzoni da uno tutto storico, reale. L’arte non è né in questo reale né in quell’ideale. L’ideale classico di Alfieri non dà l’individuo vivo, ma ridotto a genere e specie. Voi sapete che mediante un’astrazione dell’intelletto, prendiamo un individuo e poi diciamo a che genere o a che specie appartenga. Il poeta vi presenta, come diceva, non più un individuo reale, ma un genere, una specie, un tipo. Il tipo ci vuole nell’arte, ma quando è scarno, non pieno di vita, rimane nell’astrazione e nelle generalità, non è più artistico.

D’altra parte il reale storico è l’«avvenuto», ciò che è stato, e questo non perché sia avvenuto è interessante: avviene anche l’insignificante, il frivolo, il prosaico. Non basta dire: — Questo è storico — , perché si possa conchiudere: — Dunque è poetico — . Evidentemente in quello che avviene ci vuole un senso che dia interesse alla realtà. E ciò non solo pel poeta, ma oso dire anche per lo storico. Uno storico, Mommsen per esempio, vi dice proprio tutto quello che avviene? Quando ciò che è avvenuto non ha valore, lo gitta via, presentando sole quelle cose che hanno un interesse storico. Tanto più il poeta, perché è impossibile che possa prendere per punto di partenza dell’interesse poetico semplicemente l’avvenuto.

C’è dunque del falso tanto nel modo di concepire classico quanto in questo modo di concepire che parte dal reale storico. Qui è d’uopo domandare: — Che cosa è per me la produzione artistica? Che dà fuori il poeta in un vero momento d’ispirazione? — .

Lasciamo da parte le formule. Quando voi camminate e vedete qualche cosa che v’interessa e produce su voi impressione, se il vostro cervello non è artistico, ma filosofico mettiamo, — quella lampada, per esempio, che vi ondeggia innanzi, vi [p. 166 modifica]getta come Galileo sulla via di qualche scoperta naturale. Supponiamo che siate artisti, e che vi troviate la sera sotto un cielo nuvoloso, che le nuvole aggruppate presentino forme svariate; voi entrate allora in una specie di réverie. Che cosa nasce da ciò? La cosa esterna che produce impressione su voi, viene immediatamente riprodotta da voi: il cervello umano genera l’uomo ideale o intellettuale, come l’essere fisico riproduce se stesso.

Dunque il cervello riproduce la cosa che ha fatto impressione. Come la riproduce? È proprio quel «di fuori» in tutta la sua integrità? No, è una terza cosa come avviene nella generazione fisica: una nuova cosa la quale ha i segni di quel di fuori impressi sul viso, con l’aggiunta delle impressioni che esso ha prodotto sul cervello; vale a dire la cosa veduta con le impressioni che ha fatto su voi. Nella realtà artistica sono due elementi: l’esterno naturale, il bello naturale, e poi l’azione del cervello sulla vostra visione. Perciò la concezione ha i segni della madre e del padre, della cosa e del cervello.

Talvolta questa cosa fa un’impressione così debole, che è una semplice occasione al lavorio del cervello: ciò vi dà appena un sentore della cosa, e si ha quello che si chiama fantasticare. Talvolta l’impressione è potente, e voi vi dimenticate in quella cosa, la riproducete con tutt’i suoi caratteri reali. Perciò la produzione ora ha i caratteri della realtà, ora i caratteri del «fantastico», dell’«umore», e simili. Vediamo le conseguenze. Avendo innanzi una produzione, quali domande rivolgiamo a noi stessi?

Viene l’estetico e dice: — Quello che è uscito dal cervello, è avvenuto oppur no? — . Ma che c’importa questo? L’importante è di sapere se quello che ne è venuto fuori è «forma» artistica. Perché «forma», nell’alto senso estetico della parola, è la cosa come è uscita dal cervello. Che interesse abbiamo di domandare se la cosa è avvenuta o no: se è ideale o reale?

— Ma questa forma è vera oppur falsa? — , toma a domandare l’estetico. Che importa a noi sapere se le idee espresse in questa forma sieno secondo un sistema filosofico o religioso? Sono [p. 167 modifica]domande importanti queste, se chi produce è un filosofo, ma non hanno senso se chi produce è un pittore, uno scultore, un poeta.

E si domanda ancora se questa cosa è morale o immorale. Noi rispondiamo: — Che importa se ciò che il cervello ha prodotto si chiami Margherita o Jago, se sia una creatura dell’inferno o del paradiso? Importa solo che sia forma, e forma vivente — .

Ora viene la domanda più grossa: — Questa forma è- bella o brutta? — . Sapete che gli estetici dicono che l’arte è la manifestazione del Bello. E questo nemmeno c’importa; ciò che il cervello produce può essere bello come un angelo, e può essere Satana, ciò che di più brutto può concepire l’immaginazione. Ma non avete voi il diritto di dire al poeta: — Producetemi il bello e non il brutto — . Dovete invece dirgli: — Producete! — . Dovete domandare se la forma è chiara, coerente, vivente; e allora avete il diritto di rimproverare il poeta, quando vi trovate l’informe, il difforme, il deforme.

L’«informe» è ciò che concepito dal poeta, è rimasto un aborto, un tentativo. Il «difforme» si ha quando le parti della forma sono in contraddizione fra loro, quando non sono le membra regolari di un armonico tutto. Il «deforme» si ha quando la produzione fa su voi l’impressione del niente, di ciò che non esiste.

Avete diritto di censurare il poeta se egli vi dà l’oscuro, il confuso, l’indefinito, l’arido (quando la forma per mancanza di sugo non acquista vita), il gonfio (la forma oltrepassata), il semplice vuoto generale o particolare: perché quel generale è un centro senza raggi, oppure si hanno atomi erranti senza forza che li attiri e li tenga insieme.

Ecco quali domande si devono fare al poeta, ecco quale è il criterio per giudicare in fatto d’arte.

Questa teoria gitta a terra i vecchi sistemi, specialmente abbatte la famosa definizione: «l’arte è la manifestazione del Bello»; mette problemi nuovi, rivolge domande nuove. E noi siamo ancora molto indietro nelle cose di critica, è necessario dissipare dalla nostra intelligenza tutto quel vecchiume.
[p. 168 modifica]        Io ho avuto già occasione di esprimere questi concetti, i quali formano il di dietro di tutt’i giudizii fatti da me su autori diversi. Ma ho creduto bene accennare questa teoria, che poi svilupperemo meglio, prima che gettassimo gli occhi sul Conte di Carmagnola

Per mostrarvi come importi determinare i criterii dell’arte, guardiamo la critica che di questa tragedia è stata fatta. Non prendiamo i critici italiani, i quali sono in generale superficiali e leggieri, se ne stanno ancora con le antiche regole di Aristotile e di Gravina.

I critici tedeschi si sono occupati di Manzoni con l’attenzione che egli merita. Ed ecco le loro idee. Essi osservano prima di tutto che nel Conte di Carmagnola manca l’« ideale », e poi che ci manca pure il sentimento morale; e dicono che se questa tragedia non è riuscita in teatro, si deve alla doppia mancanza da essi notata. Questi giudizii sono le conseguenze di certe estetiche fondate sopra falsi concetti dell’arte.

— Il Conte di Carmagnola, dice un di que’ critici, è un avventuriere; egli muore innocente : qual è il senso di questa catastrofe? — . Secondo lui, il Conte è il capro espiatorio delle colpe di tutti gli avventurieri : egli è il meno reo, pure paga per tutti, allo stesso modo che Luigi XVI, detto il men cattivo de’ re, scontò con la sua testa le reità di tutti i suoi antenati.

Ciò posto, il critico si mette la lente e vuol trovare per forza questa idea nella tragedia di Manzoni, il quale non ci ha mai pensato. Crede trovarla in quel

      venduto ad un duce venduto
Con lui pugna, né chiede il perché;

ma poi osserva che questi versi sono avvolti in un lungo Coro, e rimprovera a Manzoni il non aver pensato a ciò, a cui ha pensato egli. E dice: — Che interesse possiamo sentire pel Conte? È bello certamente il morire per la patria. (Sentimento nobile questo, in uno di que’ tedeschi che si hanno fondato una così bella patria). Ma il Conte è un uomo il quale non ha patria, [p. 169 modifica]non ha fede, è dominato dall’egoismo, opera per vendetta. Allora Manzoni dovrebbe mostrarci che egli riprova questo carattere immorale, e che la catastrofe è pena condegna a questo carattere — .

E divenendo audace come tutti i critici pedanti, fa quest’insinuazione: che se Manzoni non dipinge questo sentimento patriottico, è perché la sua anima non aveva sentimento patriottico. Il critico non pensava che pochi poeti avrebbero saputo concepire come Manzoni il Coro del Carmagnola e quell’altro dell’Adelchi, di cui pure ci occuperemo in seguito.

Voi sentite quanto ci è di arbitrario e di pedantesco in queste osservazioni, che nascono da un certo falso concetto sull’arte, sul bello, sulla moralità e simili cose.

Ora dobbiam vedere con la guida di quella teoria che vi ho esposta, perché veramente il Carmagnola è difettoso, e quali ne sono i veri difetti.


        [Ne La Libertà, 1-3 marzo 1872].