Alessandro Manzoni (De Sanctis)/Lezioni/I. Il romanticismo e gli «Inni sacri»
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I. Il romanticismo e gli «Inni sacri»
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Lezione I
[IL ROMANTICISMO E GLI «INNI SACRI»]
Lasciamo stare altro, entriamo in materia. Io voglio in quest’anno, insieme con voi, fare lo studio delle diverse letterature del secolo XIX, delle loro diverse relazioni: centro, la letteratura italiana. Non vi dirò ora con quali criterii, con quale metodo dovremo procedere. Vi dirò solo che per me lo «studio» non è un «soliloquio», è un «dialogo». Quando dobbiamo trattare una materia, io maestro intendo essere il primo studente, e mi sforzerò essere il più laborioso e disciplinato. Ma che vale lo studio mio al quale voi siete estranei, ignorando come, per quali vie io sia giunto al risultato, quali ricerche sieno state necessarie, quali meditazioni vi si possano fare? Il giovane che sente, e ignora la via per cui si è giunto al risultato, è passivo, inerte; come avviene in tutte le epoche stazionarie e paludose in cui un popolo non studia per cercare, ma per imparare. Quell’imparare a mente è decadenza; cercare, investigare per quali vie l’uomo di pensiero e di genio abbia camminato, ecco il progresso, qui è l’acqua corrente.
Voglio oggi offrirvi un primo studio sul secolo XIX. Dopo dovrò dirvi in che modo io lo abbia fatto, come abbia trovato la materia della critica, e sarà una lezione sopra la lezione. Perciò ho bisogno di uditori benevoli non solo, ma di giovani che mi sieno intorno come il «mio due», il mio opposto, il mio controllo. Ciò che si chiama lezione, diventerà studio e scuola in cui giovani e maestro sieno una sola e medesima cosa. Ora, vi darò un semplice avviso. Farò le mie lezioni il lunedì e il venerdì dalle due alle tre e mezzo. Straordinariamente, mercoledì, vengano da me nell’Università quei giovani che non si spaventano di questa prospettiva, che intendono lavorare con me e formare una di quelle scuole di lavoro comune che fanno difetto in Italia e formano la grandezza della Germania. Questi «studenti effettivi» li prego di riunirsi in seduta preparatoria mercoledì alle due. Là li conoscerò, esporrò loro i miei criteri, il metodo che terremo, il modo di organizzare la nostra scuola. Noi saremo gli attori, gli «uditori» saranno la platea. Il professore non dovrà esser solo e presentare semplicemente il lavoro suo, ma il suo e il lavoro dei giovani.
Come dicevo, vengo ora ad offrirvi un primo studio sul secolo XIX.
Signori, riportatevi alla fine del secolo XVIII. Qual è l’ultimo lavoro letterario che fa grande impressione? Per cui solo, quasi, rimane l’autore immortale? I Sepolcri di Ugo Foscolo. E che cosa sono questi Sepolcri? Sono il mondo della natura e dell’uomo, senza cielo, senz’anima, senza Dio.
Passano quindici anni, un nuovo secolo è cominciato, e il primo lavoro con cui si presenta il secolo XIX s’intitola: il Natale, la Passione, la Risurrezione, la Pentecoste, l’Inno alla Vergine. Che cosa è questo? È la ricostruzione del cielo dopo due secoli d’indifferenza religiosa, è il cielo gettato in una società scettica ancora e materialista.
Vi è passaggio tra questi due lavori? Come in sì poco tempo un mondo letterario finisce e comincia uno opposto, che è la negazione del primo?
Noi uomini del secolo XIX siamo figli di una delle più violente, delle più radicali reazioni che si trovino nella storia, il cui lievito dura ancora, a cui non ancora sono state mozzate le unghia. Capite che parlo del 1815: è un nome che in quella data riacchiude una reazione politica, filosofica, storica, letteraria.
Il XVIII è il secolo della ragione; il nuovo si chiama «Santa Fede», «Santa Alleanza». Il XVIII si chiamava scettico, materialista; il nuovo comincia con uno spiritualismo mistico e spinto fino al più puro idealismo. Il XVIII si sente erede del Risorgimento, solidale con la Riforma; il nuovo passa sul capo al Risorgimento come se questo non esistesse, e cerca la sua legittimità, le sue idee nel Medio Evo, nel papato con le sue istituzioni, nella monarchia del diritto divino, nelle classi coi loro privilegi e con le loro distinzioni. Non solo ci è diversità, ma contrarietà: il nuovo secolo comincia con superbia da vincitore, tiene il vinto sotto i piedi, se ne fa contraddizione assoluta. Da una parte è il diritto di natura, dall’altra il diritto divino: alla sovranità popolare si oppone la legittimità; quello proclamava i diritti dell’uomo, questo i diritti dello Stato.
Non poteva la reazione essere né più violenta nelle azioni, né più radicale nelle conclusioni.
È naturale che una reazione penetrata nella filosofia, nella storia, nella politica, per cui nei sogni di vittoria vagheggiavasi la ricostituzione dei maggioraschi e dei privilegi sotto le ali del diritto divino, è naturale che non potesse non penetrare nella letteratura. E la letteratura nuova del secolo XIX sorge prendendo nome diverso, in opposizione di quella del XVIII, un nome di guerra — e si chiama «romanticismo», letteratura dei popoli romantici.
Signori, non ci appaghiamo di parole, dobbiamo analizzare. Che era la letteratura del secolo XVIII, che era la nuova che sorgeva fra la reazione romantica?
Che era quella del secolo XVIII? Un ideale: l’uomo nello stato di natura, com’è nato, volente e possente, con le sue facoltà, i suoi diritti. Questo è l’ideale. Il reale di quella letteratura, cioè l’opposizione in cui l’ideale s’infrangeva, qual era? La società. Scopo di predilezione è la natura, scopo di maledizione la società che avea guasta l’opera della natura, negati quei diritti, tolta l’espansione a quelle facoltà. La natura è glorificata, la società dispotica, privilegiata, è scomunicata. In questi casi rimangono immortali certi motti che li riassumono. Rousseau in un momento di esaltazione [ne] cava dalla immaginazione uno che fece il giro d’Europa e rimase immortale: «L’uomo è nato libero, ed è dappertutto in catene». Qui è il riassunto di quell’ideale e di quel reale. Ma questa società che era scomunicata, derivava dal cielo; colui che stava alla cima di essa dicevasi vicario di Dio, quelli che rappresentavano il potere laico erano i re per grazia di Dio. Se un uomo nasceva ricco, e un altro in altre condizioni, se ci erano frati oziosi, clero corruttore vestito alla laica, con laicali tendenze, se ci era una nobiltà accanto alla monarchia del diritto divino, ciò era pei fini imperscrutabili di Dio.
Chi legge i libri di quel tempo, vi troverà il segreto dell’odio contro il cielo, nei primi momenti della lotta. Ed è un progresso: prima ci era stata indifferenza, ora ci è odio. Si crede alla complicità del cielo con quell’ordine sociale, con quella degenerazione e corruzione.
Tale è il contenuto della letteratura del secolo XVIII. Leggete i filosofi e i poeti nostri e vi troverete l’uomo come è per natura, troverete libertà, eguaglianza, guerra contro le istituzioni e contro il cielo che le protegge. Qual’è la forma di questo contenuto?
Parini, Alfieri, Foscolo, i grandi del secolo XVIII gli dànno la forma. Tutto quello è effetto di un pensiero scientifico che a poco a poco ha fatto le sue conquiste, specialmente in altre nazioni, e che ora giunge in Italia. Quell’uomo in stato di natura, guastato dalla società, non è qualche cosa di vivente, che si trovi nelle condizioni storiche e reali. Queste sono la negazione dell’ideale venuto dalla speculazione, astratto, pensato, non calato nella vita. E l’uomo può avere l’ingegno che vuole, ma deve subire la necessità del suo concepire che è lui stesso. Quell’ideale non penetra in tutta la vita di colui che lo vagheggia, rimane idea astratta; così sentiamo anche oggi dire: Patria, Umanità, Virtù — parole che esprimono concetti, in cui non è ancora l’ideale.
Nel secolo XVIII l’ideale rimane dunque ancora concetto, qualche cosa partorita dall’intelligenza, senza antecedenti storici, tranne che non si voglia considerare come un antecedente quello stato di natura su cui si arzigogolava. Per conseguenza quegli uomini a quel contenuto astratto doveano dare una forma di doppio carattere: astrazione cioè ed esagerazione. Astrazione, perché quello è un concetto che ha delle qualità, ma non corpo, non sentimento, non fede; manca di ciò che costituisce la vita. Esagerazione, perché è un concetto non calato nelle condizioni storiche del tempo e del luogo; non ci sono forme reali, storiche, viventi: rimangono piramidali, colossali, quanto più grandi, tanto meno viventi.
Darò un esempio per dimostrarvelo, perché l’astrazione ha bisogno di qualche cosa di vivente innanzi per determinarsi. Prendiamo Farinata e Timoleone: l’uno di Dante, l’altro di Alfieri, tutti e due grandi patrioti, in lotta con la vita. Le forme di que’ due sono sintetiche, l’analisi non ci è penetrata; e ci sono de’ tratti generali che risvegliano accessorii e particolari. Farinata non è un concetto generale, cui il poeta dia un nome e possa chiamarlo: Timoleone. È un uomo vivente che Dante ricordava, di cui aveva sentito parlare, una forma quasi contemporanea al poeta, in cui questi sente se stesso. Tratti giganteschi escono dalla bocca di Farinata. Voi vi sentite non innanzi a un’idea, ma ad un uomo, perché ci trovate le condizioni reali, la vita. Quel verso:
Ciò mi tormenta più che questo letto |
E se, continuando al primo detto, Egli han quell’arte, disse, male appresa, Ciò mi tormenta più che questo letto: |
voi sentite che non ci è astrazione, ma realtà. Timoleone è un concetto del poeta, un concetto di gran cittadino e patriota. Alfieri non rispetta la persona, l’essere vivente che gli sta innanzi. Non si cura di domandargli:— Chi sei? — . Alfieri prende la forma come un pretesto per rappresentare le sue idee. Ecco la differenza essenziale tra la forma dantesca e la neo-dantesca, cioè quella degli scrittori del secolo XVIII che credono riprodurre la prima. Da una parte astrazione, dall’altra essere vivente.
Credo aver fissato i lineamenti generalissimi della letteratura del secolo XVIII. Ideale nuovo che non sa trovare la forma corrispondente, democratico in forma patrizia: il parlare del popolo non lo sentite, eppure tutti parlavano di popolo e scrivevano pel popolo.
Tali sono in Italia i lineamenti della letteratura. Maggior progresso si osserva in Francia. Ci era la prosa francese giunta alla sua trasparenza e finezza analitica; la critica era progredita con Diderot che parlava dell’imitazione della natura; Voltaire scriveva con quella prosa evidente che noi non abbiamo ancora. Ed è naturale: la grandezza d’un popolo non s’improvvisa, viene dopo lunga elaborazione. La Francia continuava la sua storia da Rabelais e Montaigne senza interruzione fino a Voltaire. L’Italia cominciava ad avere una letteratura nuova, respingendo la storia di due secoli di servitù e degradazione.
Un altro paese cominciava con noi la sua letteratura, parea nelle stesse condizioni nostre. Ne avete già il nome sulle labbra, la Germania. Schiller era contemporaneo di Alfieri, Klopstock pubblicò la Messiade nei primi anni del secolo XVIII. Tutti e due i paesi ricominciavano il loro cammino letterario; ma l’Italia rigettando le sue memorie, le sue tradizioni, accostandosi alla vita europea. La Germania ricominciava il suo cammino, rigettando l’influsso straniero venutole dalla letteratura francese, riattaccandosi alle memorie e tradizioni proprie. Federico II, il gran re, era uno spirito forte; sull’anima di lui fu grandissima l’influenza di Voltaire, intorno a lui sorse una letteratura aulica, leggiera, foggiata secondo lo spirito francese, in contraddizione con lo spirito nazionale: per cui seguì una reazione. Al tempo che l’Italia rigettava Accademia ed Arcadia, come degenerazione nazionale e letteraria, la Germania al contrario rigettando l’influenza straniera, ricercava le sue memorie e tradizioni.Capite la differenza della posizione. Cercando la vita sua nelle proprie viscere, la Germania incontra il Medio Evo, con le memorie gloriose, le conquiste, la lotta contro i papi; s’incontra nella Riforma e vi trova Lutero, la guerra al papato, la libertà del pensiero, il sentimento religioso fortificato, ingrandito. Questa era la nuova letteratura in Germania, contemporanea alla nostra. In quanto sceglievansi le forme nel popolo, viventi, ripudiando le imitazioni classiche, in antagonismo alla vecchia letteratura la nuova si chiamò «romantica».
Qual era l’ideale romantico?
Noi ci facciamo un’idea strana dell’ideale, crediamo che sia un concetto, una idea circoscritta; immaginiamo che potendo concepire l’ideale possiamo diventare ideali, avere una letteratura ideale. Italiani e Francesi sentendo dire: — Ideale! ideale! — , pensarono di avere una letteratura ideale. Ma l’ideale non è l’idea, è un insieme, un tutto; sentimento, intelligenza fusi insieme, ciò che diciamo: anima in date disposizioni. Per raggiungere l’ideale non basta concepirlo astrattamente. Quando ad esempio si dice: — Amo la patria, amo una bella donna, amo la gloria — , ci è amore rettorico, non ci è l’ideale; una forma molto plastica, poco ideale. L’ideale è una certa disposizione dell’anima come l’aveva Dante, come l’ebbe anche Petrarca, come l’hanno avuta Tasso e Leopardi. Il povero Leopardi fu chiamato malato pel suo ideale! Or tutto questo può essere il modo di concepire di un popolo, la malattia di una nazione.
L’ideale tedesco è rappresentato in tre parole: «intimità», «malinconia», «umore». A quest’ideale noi siamo stranieri, perciò esse meritano essere spiegate perché si comprenda che un popolo può avere quell’ideale, un altro no, tranne per eccezione qualche individuo.Prima condizione dell’ideale romantico è la disposizione dello spirito a sequestrarsi dal mondo esteriore, a chiudersi in sé, tra i suoi cari, a farsi un piccolo mondo, a rimanere straniero alla vita. Un tedesco con la sua famiglia, col suo giardino, i suoi libri, gli amici, si fa un piccolo mondo che gli basta. Questa concentrazione dell’animo, questo chiudersi là dentro, è l’«intimità». Per questa disposizione che voi provate talvolta, quantunque di rado, e che può essere determinante in tutto un popolo, avviene che l’uomo vede con altro occhio le cose terrene, con «occhi mutati», dicea Leopardi che l’aveva. Nella solitudine del pensiero il corpo si affina, le forme si assottigliano, si entra in un mondo vaporoso, fantastico. Goethe, che il primo comprese codesto, dice: «Il poeta deve vivere nel regno delle ombre», e sapete qual regno ha egli creato, in cui la realtà è spezzata, le forme sciolte, tutto è ricomposto secondo il pensiero: il Faust, opera che parrebbe miracolosa senza quella disposizione nazionale.
L’«umore». Noi Italiani non lo conosciamo, i Francesi lo hanno qualche volta, come può concepirlo un Francese, un giuoco di spirito, un pétillement. L’umore tedesco è profondo. Quando l’uomo concentrato in sé vede la natura schiudersi, la superficie aprirsi, uscirne come onde sonore, come una musica, vede il fantastico apparirgli, e ci crede, ne ha il sentimento, allora si sente riconciliato con sé. Quando sopraggiunge l’indifferenza, l’incredulità, ed ei si accorge che i fantasmi sono un giuoco, che quel mondo è capriccioso, sorto a caso, e vede la dissoluzione degl’ideali, allora tristezza profonda lo invade, ride d’un riso amaro, come quello di cui si vede qualche segno nel pazzo: ciò costituisce l’umore tedesco, quale lo studieremo in Heine.
Qui non trovate niente di reazione, trovate la manifestazione d’un gran popolo, un nuovo mondo venuto dalle viscere del paese, il sentimento nazionale.
Ma lasciamo il romanticismo francese, senza vedere ora che cosa divenne in Victor Hugo, che lo ridusse ad antitesi: di ciò ci occuperemo a suo tempo; veniamo all’Italia.
In Italia ci era allora un giovane, aveva venti anni, educato in Milano, Alessandro Manzoni. Trovava in casa le idee rivoluzionarie, perché la madre era sorella di Cesare Beccaria. Andato a Parigi, ne tornò volteriano ed enciclopedista. Aveva le idee rivoluzionarie del secolo XVIII, ammirava la forma di quel contenuto, era entusiasta di Alfieri, ammiratore di Monti. La sua educazione era classica. Vediamo i primi saggi del suo ingegno.
Muore Carlo Imbonati ed egli scrive dei versi. Che cosa sono? Reminiscenze del «sogno» del Petrarca, divenuto cosa volgare ne’ sogni dell’antica letteratura italiana.
Un anno dopo, nel 1806, scrive l ’Urania, concezione mitologica. Primi saggi in cui si rivela già l’ingegno: c’è la forma plastica, chiara del Monti; ci trovate però qualcosa che vi annunzia che quel giovane farà il suo cammino. Sentite l’orgoglio in que’ versi: — Voglio tentar nuove vie,
o far, che s’io cadrò sull’erta, Dicasi almen: sull’orme proprie ei giace — . |
Ci sentite un elevato mondo morale, che era la vera conquista della letteratura del secolo XVIII:
...conservar la mano Pura e la mente: de le umane cose Tanto sperimentar quanto ti basti Per non curarle: non ti far mai servo. |
L’Urania è un ideale, l’ideale di Pindaro che si forma nella sua mente: è lui che sente in sé qualche cosa di Pindaro: ci trovate indizii di qualche cosa di nuovo. Dategli un mondo nuovo e svilupperà le sue forze.
A Parigi, in mezzo a quella corrente di romanticismo alla Staël, il giovane si arresta, studia la letteratura tedesca, la francese: e non gli bastano libri, si mette in comunicazione col mondo vivente, con Goethe, con Cousin, fu il beniamino di Fauriel. La sua vista s’è allargata, tornerà in Italia con orizzonte più vasto. Esce dagli studi romantici, appropriasi il romanticismo come allora era concepito. Nel 1815, quando tutto era Santa Fede, concepite come un poeta tornando da Parigi in Italia faccia succedere ai Sepolcri gl’inni sacri. Concepite il cammino per cui da un mondo senza Dio, senza cielo, si giunga al Natale, alla Passione, alla Pentecoste.
Ma quest’Inni sono forse il cielo? il cielo quale concepivalo il secolo XVIII, cielo della autorità, del diritto divino, del dispotismo, del papato e della monarchia, contro cui sentivasi ancora il ruggito di Foscolo e di Alfieri? Non è questo cielo, è uno tutto opposto; ci è un Dio che non sta accanto alle «vegliate porte» dei potenti, ma tra i pastori: un cielo democratico, posto come egida accanto ai deboli della terra. Manzoni non ha passioni sanfediste o rivoluzionarie, rimane straniero al furore della reazione francese. In questo mondo nuovo vede un nuovo, un puro cielo religioso, quale già fu concepito nella sua purezza e poi guasto dagli uomini, — quello de’ poveri e degli oppressi.
È il cielo romantico dei Tedeschi? Trovate qui il sentimento del fantastico, dell’infinito, del soprannaturale?— Presso i Tedeschi la poesia romantica ha grande semplicità, ha il sentimento del fantastico. Ci è negl’Inni del Manzoni? Crede egli con fede profonda? Ha quel sentimento del soprannaturale? Trovo che quando s’imbatte in qualche cosa di soprannaturale, ei si contenta di accennarla, secca e nuda. Darò degli esempi.
Un fatto importante nella storia biblica è che Gesù nacque proprio in quel giorno che era stato profetizzato. Se il Manzoni avesse sentimento reale di questo fatto, quale non dovrebbe essere il suo raccoglimento, la sua unzione, la sua semplicità di fede? Il Manzoni dice:
Da chi il promise è nato, Ond’era atteso uscí. |
Che impressione riceve da quel fatto? Quando talora il soprannaturale lo investe, non lo getta tra le ombre, la sua immaginazione italiana si forza di renderlo concepibile, vuol trovare qualche parola che lo faccia comprendere.
Altro fatto commoventissimo che s’incontra negl’Inni è che il figlio di Dio viene in terra per redimere gli uomini, e muore per essi. Può aversi cosa più commovente di questa? Ma il poeta cerca qualche cosa che vi renda comprensibile il soprannaturale, e il soprannaturale compreso è distrutto. Egli immagina l’uomo nell’abisso profondo da cui ha bisogno di alzarsi per forza di altri, di Cristo; e vi fa il magnifico paragone del masso. Che impressione sentite leggendo quei versi? Vi trovate in cospetto del Dio? Avete il raccoglimento religioso? No. Rimanete maravigliati innanzi al masso, troppo ben descritto, che da accessorio rimane il principale della poesia. E son certo che molti di voi ricordano il paragone ed han dimenticato la cosa a cui si riferisce, o ignorano a che proposito sia stato fatto. Qui dunque non ci è l’ideale del tedesco, ci è l’immaginazione chiara e plastica italiana.
Gli angioli scendono in folla dal cielo per annunziare la nascita di Gesù ai pastori. Come tratta di questo la Scrittura? Con pochissime parole: «claritas Dei circumfulsit illos». Lo scrittore biblico, con la semplicitá degli uomini di fede, non ha bisogno di spiegare, ricamare il soprannaturale. Qui vedete gli angioli:
accesi in dolce zelo. Come si canta in cielo, A Dio gloria cantar. |
E il poeta vuol seguire l’ultima impressione di quella musica:
L’allegro inno seguirono, Tornando al firmamento: Tra le varcate nuvole Allontanossi, e lento Il suon sacrato ascese. Fin che più nulla intese La compagnia fedel. |
Con la debita riverenza al grand’uomo, è questa la parte mortale, classica, oratoria, descrittiva, talvolta rettorica de’ suoi Inni. Nella Passione e nella Risurrezione quante apostrofi, quante esclamazioni!
La parte viva degl’Inni, quella in cui si rivela il poeta, ancor giovane, è quando ei lascia il soprannaturale e tocca la terra, quando vi rappresenta le impressioni umane rimpetto a que’ fatti. Il sentimento democratico esalta il poeta, lo rende semplice, efficace, quando rappresenta il cielo come difesa degl’infelici.
Sentite la nuova poesia che nasce, sentite in questi versi chi descriverà la madre di Cecilia in mezzo alla peste:
La mira Madre in poveri Panni il Figliuol compose, E nell’umil presepio Soavemente il pose. |
Addio forme descrittive, addio paragoni! Sentite il sentimento dell’eguaglianza umana in un piccol tratto rimasto immortale:
a tutt’i figli d’Eva Nel suo dolor pensò. |
Quanta verità in questi versi:
Nelle paure della veglia bruna Te noma il fanciulletto; a Te, tremante, Quando ingrossa ruggendo la fortuna, Ricorre il navigante. |
Guardate se si può meglio rappresentare l’anima della femminetta abbandonata dagli uomini e che cerca aiuto alla Vergine:
La femminetta nel tuo sen regale La sua spregiata lacrima depone, E a Te, beata, della sua immortale Alma gli affanni espone. |
Sentite il reale, sentite il terreno mostrarsi nella pienezza della fede verso quel soprannaturale descritto innanzi. Ci può essere di più vero di questi versi:
Per Te sollevi il povero Al ciel, ch’è suo, le ciglia, Volga i lamenti in giubilo, Pensando a Cui somiglia? |
Ecco la parte viva degl’Inni. Quando il poeta vuol gettarsi nel soprannaturale, comparisce oratorio, retorico; quando si accosta alla terra, le sue forme sono semplici ed eloquenti. Cavate già l’indizio che quest’uomo non è nato per rappresentare l’ideale come concetto dell’intelletto; quando troverà un campo determinato, svilupperà la sua potenza.
Negl’Inni trovate appena qualcosa di ciò che sarà quando scenderà in terra: mettete questo mondo accanto ad Ermengarda, a Napoleone morente, ai Promessi Sposi, e comprenderete che la forma semplice, moderna, la troverà quando avrà occasione di accostarsi alla realtà.
Terminata questa parte dello studio, dovrei cercare qualche frase per farmi applaudire, ma io parlo alla buona, senz’effetto. Solo vi dico, poiché si fa oggi molto uso della parola «positivo», che noi dobbiamo in modo veramente positivo studiare.
[Ne La Libertà del 31 gennaio 1872].