Alessandro Manzoni (De Sanctis)/Lezioni/II. L'ideale religioso degl' «Inni» - Adelchi
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II. L'ideale religioso degl' «Inni» - Adelchi
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Lezione II
[L’IDEALE RELIGIOSO DEGL’«INNI» - ADELCHI]
Cerchiamo dunque di fissar bene i risultati ottenuti dalle investigazioni che l’altra volta facemmo. Siamo riusciti a questa conchiusione, che gl’Inni del Manzoni sono un ritorno del mondo religioso, ma per le condizioni dello spirito moderno e appunto perché quello è un ideale di ritorno, non è immediato, diretto. Trovammo che negl’Inni la parte teologica è soverchiata dalla, parte morale, il sentimento religioso dal sentimento artistico. Non vengo ora a darvi delle prove, do il risultato degli studi fatti su questo ritorno dell’ideale religioso nel secolo XIX. Ma non ci è più il sentimento del soprannaturale, il sentimento di ciò che è santo, bensì un mondo morale elevato, una bella forma artistica. Gl’Inni del Manzoni non sono un fenomeno isolato: leggete il Genio del Cristianesimo di Chateaubriand, Lamennais, la stessa Vita di Cristo di Renan, e vi troverete il doppio carattere moderno: al sentimento del soprannaturale vedrete succedere il sentimento del mondo morale, al puro sentimento religioso la contemplazione artistica.
Dobbiamo dunque analizzare più da presso l’ideale religioso risorto, perché gl’Inni sono qualche cosa di produttivo, producono le altre poesie del Manzoni e i Promessi Sposi, producono l’Ildegonda del Grossi, e tutto il mondo artistico cristiano che fino ai nostri tempi è stato cosí spiccato in Italia ed oggi è ancora spiccato in Francia. Analizziamo bene questo redivivo sentimento religioso, per aver la chiave onde giudicare tutti i lavori che ne derivano. Questa idealitá del mondo religioso, come è nata nella mente di Manzoni? Come si è formato il secolo XIX? Ci è sotto un concetto volgare, perché le grandi ispirazioni nascono da’ ragionamenti di luogo comune che noi facciamo. Ci era il Cristianesimo storico, divenuto pura forma, vuota forma, senza sentimento, senza spirito. Anche oggi un credente che recita il Pater Noster e la Salve Regina, e pronunzia col cuore quelle parole, quante bellezze artistiche, quanti sentimenti vi trova! Per gli animi indifferenti e schivi come quelli del secolo XVIII, quelle forme divengono cose volgari, comuni; come per chi si fa la croce, recita il Pater Noster e poi va a mangiare, o va a dormire, queste sono divenute cose abituali, forme vuote di contenuto.
Qual è il ritorno religioso del secolo XIX? È il sentire che queste forme vuote appartengono all’epoca del Cristianesimo non ancora contaminato, nel suo stato di origine ideale, lungi dalla corruzione e dalla degradazione. È come se si dicesse: — Questo che voi odiate non è il Cristianesimo vero, è quale lo hanno fatto gli uomini, la storia, le passioni, gl’interessi. Se volete essere giusti, spogliate dalla profanazione storica l’ideale, e sarete indotti a sciamare: «Quest’ideale l’amo, l’adoro»; perché tutti ammettono la giustizia, la libertà, la democrazia cristiana — . E vedete come un secolo respinge gli eccessi dell’altro, come è rigettato il pensiero eccessivo del secolo XVIII, che pure scosse un poco il secolo XIX, il quale ripristina nella coscienza l’idea religiosa. In tal modo quell’ideale ritorna nella coscienza umana.
Ma gl’Inni del Manzoni rappresentano veramente questo ideale di ritorno, con quei fenomeni co’ quali esso si ripristina nella coscienza umana? Vediamolo.
Prima però dobbiamo spiegare le parole. Quando l’ideale colpisce per la prima volta l’immaginazione, la fantasia, ed è creduto con semplicità, allora è ideale «immediato». Tale affacciossi il Cristianesimo primitivo agli apostoli, ai primi cristiani ne’ quali l’idea cristiana è vivente. Vivono, mangiano in comune, mangiano in carità, come dicono essi medesimi, essi scelgono i loro capi, tutti si considerano eguali. Ora ciò chiamasi ideale immediato come la prima apparizione, affacciasi per la prima volta alle genti cristiane.
Abbiamo un monumento immortale di poesia, uscito da questo ideale. Non parlo della Bibbia, la poesia delle poesie, e nemmeno del Vangelo, che in tempi più lontani ci presenta l’ideale non ancora profanato dagli uomini. Parlo anche di inni, quelli della Chiesa. Sapete che anche oggi essi sono viventi in musica: il De Profundis, il Te Deum, il Miserere anche oggi ispirano le immaginazioni musicali. E quegli uomini che li composero non avevano l’abilità tecnica, non l’ingegno del Manzoni, maneggiavano una lingua ad essi pervenuta per tradizione, parlata difficilmente, mezzo barbara, il latino. Eppure in quegl’inni quanta vita voi sentite! C’è l’ideale innanzi alla coscienza, il quale prorompe vivo perché penetrato nell’animo, ed esce dall’animo di chi lo contempla.
Ricordate che vi parlai dell’«intimità», che può essere proprietà di tutto un popolo. Ebbene, che cosa rende immortali quegl’inni, con tanta vita in quella lingua aspra, rozza? È questa intimità. È che quei Santi Padri, quegli uomini che innalzano le loro parole al cielo, avevano Dio non fuori, ma dentro di loro, intimo. Notate bene questo, perché v’indica la piaga della poesia italiana. Noi possiamo concepire colla mente la patria, la famiglia, la nazione, la religione, la gloria, l’amore; ma tutte queste cose sono ancora fuori di noi, non sono ancora ideali, non sono poesie.
Quando sentiamo quelle concezioni diventar parte della nostra esistenza, parte dell’anima nostra, in modo che non possiamo vivere senza quel mondo dentro di noi; allora quelle che erano innanzi concezioni intellettive, diventano sentimento, non le vediamo solamente fuori, le sentiamo, e questo sentirle si chiama «intimità». Ecco quello che fa trovarci l’intimità in Dante, in Petrarca, negli scrittori primitivi, ecco il segreto che rende quegli inni musicati sempre vivi, perché non sono la voce dell’artista, ma dell’anima che sente il bisogno di volgersi a Dio e ci è la profonda semplicità dello scrittore. L’ideale degl’inni collocato nella storia, cade tra gl’interessi, le lotte, le passioni, e sorge profonda opposizione tra lui e tutto ciò che non è lui, che gli è stato messo intorno. Allora egli sorge con contenuto estraneo al di dentro, contrario a lui, e che egli cerca respingere. L’ideale nella sua espressione con la collera, col sarcasmo, con la satira, rappresenta quel sentimento negativo, il desiderio di cacciare l’intruso. — Vi darò un esempio. Guardate Dante nel Paradiso, che in parte è un prodotto filosofico, teologico, dommatico. Ebbene, Dante ai suoi tempi vedeva l’ideale cristiano profanato, specialmente da quelli che dovevano esserne i custodi, i tutori, i ministri, specialmente dal papato. È ricevuto Dante alla porta del Paradiso da San Pietro, il quale in mezzo alla beatitudine eterna, si accende di collera vedendo Dante, e gl’intima che tornando in terra gridi contro quella profanazione, ed esclama:
— Il loco mio, il loco mio che vaca — . |
La sedia è occupata, ma vaca perché colui che l’occupa è indegno! Quanta nuova vita in quell’ideale, allorché vi penetra la collera contro la profanazione che gli uomini ne hanno fatta!
Dopo avere spiegato con chiarezza l’ideale immediato e l’ideale pieno di contenuto storico, vediamo come Manzoni sviluppa il suo. Che doveva essere questo? È naturale : essendo ideale di ritorno, non bastava che Manzoni ricostruisse i lineamenti generali dell’ideale cristiano, bisognava si sentisse commosso e si ribellasse contro la profanazione che ne avean fatta gli uomini, contro il vituperio di cui lo aveva coperto il secolo XVIII, il quale si estolleva meritamente su quell’ideale profanato : ci avesse mostrato come esso si sviluppi da quel fango e si affermi. Se Manzoni avesse fatto cosí, se per esempio nella Pentecoste fosse entrata la contraddizione storica, ed egli avesse preso il flagello di Dante, che impressione avrebbe fatto sulla vita contemporanea, quante repulsioni, quante collere, quanti applausi suscitati!
Se volete vedere qualche cosa di simile a ciò che avrebbe dovuto avvenire, rammentiamo quando giunsero in Italia le Ultime parole di un credente, di un prete, di Lamennais. Ricordo (io era giovinotto allora) che profonda impressione fece quel libro venuto a noi tardi, tradotto, orribilmente tradotto. Quante irritazioni, quante confutazioni sollevò. Cosa era? Era il prete che finiva apostolo della rivoluzione, che avea sentito il suo secolo. Così Victor Hugo, così Lamartine, che avean cominciato tra le nebbie reazionarie, se ne svilupparono sentendo la voce dell’età contemporanea. Verso la fine Lamennais invoca Dio contro gli oppressori della Polonia, si rivolge al papa, che secondo Cristo dovrebbe essere il sostegno della democrazia, proteggere gli sforzi degli amici della libertà, che vogliono scuotere il servaggio: voi ci sentite non solo l’ideale cristiano, ma ancora qualcosa della vita reale.
Un esempio più recente. Quanta impressione ha fatta la Vita di Gesù di Renan! Qual è il segreto di questa impressione? Eccolo: Renan abbozza Cristo mentre ha innanzi il mondo morale contemporaneo, il mondo della libertà; egli è un uomo di questo secolo, appartiene ad un partito politico, ha una patria, una missione: tutto questo rende il libro attraente, perché voi vi sentite un riflesso della società vivente.
Invece gl’Inni del Manzoni passano inosservati, sono come non scritti: ciò che avviene spesso in Italia, la quale è apata, inerte. Anche quando Goethe scrisse nel suo giornale letterario le lodi degl’Inni, chiamandoli, lui tedesco, maravigliosi per forma ed ingenuità (ciò che non è esame serio), quantunque Goethe e Fauriel si fossero fatti patroni del giovine poeta (e voi sapete che quando giunge in Italia una voce straniera che esalta un italiano, quest’italiano diventa subito una gran cosa, com’è difetto dei popoli senza coscienza, che non sentono essere il loro giudizio eguale in valore a quello degli altri); ebbene nonostante ciò gl’Inni non destarono impressione. L’Italia si accorse degl’Inni quando Manzoni divenne celebre. Gl’Italiani soIo quando il genio di Manzoni si fu sviluppato ed ebbe acquistato coscienza di sé negli altri suoi lavori, si ricordarono che quell’uomo aveva fatto degl’Inni, e ciò prova in favore dei lavori posteriori, non in favore di quelli che si erano dimenticati. Manca nell’ideale degl’Inni il contenuto storico, e perciò essi non sono lirica, non epica, non drammatica, poiché ciascun genere di poesia suppone un ideale pieno di contenuto, calato nella storia; qui il contenuto è generale, vuoto della vita contemporanea, vi manca il processo interno, quell’affermarsi come sé, il calor del mondo reale, lo scendere in mezzo alle lotte, ai contrasti, e poi di nuovo affermarsi. Dunque cosa sono gl’inni di Manzoni? Sono come quelle poesie primitive nelle quali i popoli narrano le proprie credenze, il sistema teologico che essi si fanno del mondo, e che diconsi «teogonie», poemi religiosi. Sono teologici, coi lineamenti generali religiosi non ancora determinati, perché ancora fuori della storia.
Lo stesso dirò dell’uomo nuovo come lo concepisce Manzoni, e come si trova negl’Inni. Un mondo nuovo genera un uomo nuovo. Se quel mondo rappresentato dal Manzoni vi riproducesse un ideale redivivo, l’uomo da lui rappresentato dovrebbe essere la riproduzione dell’uomo antico religioso. Or quale è il carattere dell’uomo poeticamente concepito dall’immaginazione di Manzoni, negl’Inni? Quest’uomo non ha base in terra ma nel cielo, al di là della terra; colà sono tutte le origini, là si rivolgono tutte le aspirazioni. Ciò è appunto perché l’uomo non sente se stesso come uomo, ma rispetto al cielo, patria ultima, definitiva. Quale sentimento nasce da questo capovolgimento della base dell’uomo? da quest’uomo il cui centro, la cui aspirazione è fuori, al di là della terra? È il sentirsi uguale a tutti i suoi, per cui si chiama loro simile, loro fratello: l’uguaglianza cristiana dinanzi al cielo. Il ricco e il povero, il nobile e il plebeo sono tutti fratelli in Cristo, tutti redenti da Cristo; il cielo è aperto a tutti, se sapranno meritarlo. Questo ho chiamato sentimento democratico degl’Inni.
È questa la democrazia del secolo XVIII? No, è una nuova, la democrazia cristiana, l’uguaglianza di tutti gli uomini dirimpetto al cielo, e non come uomini, ma come cristiani, fratelli in Cristo, redenti da Cristo. Ma l’essere gli uomini tutti uguali dirimpetto al cielo non porta per conseguenza che debbono essere uguali anche in terra. Ecco la differenza profonda tra le due democrazie. Anzi il buon cristiano deve rassegnarsi al posto in cui Dio l’ha messo su questa terra; il bene e il male, tutto viene da Dio, anche il dolore, e questo lo consacra, lo santifica, lo rende capace di andare in cielo: la ricchezza, la nobiltà, la potenza vengono da Dio. In questo mondo l’uomo non ha missione da combattere, perché è mondo provvidenziale; è la Provvidenza che deve punire i malvagi, sollevare gli oppressi: tu non hai diritto di rifare colle tue mani il mondo, colle tue mani farti giustizia.
Negl’Inni c’è una differenza radicale del concetto dell’uomo. Che cosa è quest’uomo cristiano del Manzoni? È sottoposto all’autorità esteriore, perché l’autorità deriva da Dio, deve rassegnarsi al suo stato perché gli è assegnato da Dio, non ha diritto di odiare, di resistere, di vendicarsi, perché l’uomo che l’opprime è creatura di Dio come lui: non solo non devesi vendicare, ma deve perdonare; non solo non odiare, ma amare. E nasce il sentimento dell’amore universale, il desiderio di un mondo concorde. Quella che si dice pace celeste è applicata alla terra, e spinge quest’uomo abbozzato negl’Inni, questo povero, a volgersi al cielo, dire: — Il cielo è mio — :
Per Te sollevi il povero Al ciel ch’è suo le ciglia. |
Calpestato dal violento non prega Dio che lo punisca, ma che lo corregga:
Scendi bufera ai tumidi Pensier del violento; Ispira uno sgomento Che insegni la pietà: |
Questo mondo ci rappresenta Dio che nasce povero:
Che nell’umil riposo, Che nella polve ascoso. Conosceranno il Re. |
Spingiamoci un po’ innanzi, alle conseguenze.
Ma se è vero che siamo sulla terra di passaggio, se è vero che l’ultimo fine al quale siamo indirizzati è al di là della terra, che cosa sono dunque le passioni, le lotte, le guerre, gl’interessi che ci occupano nella vita terrena? Ombre, vanità, polvere: morte è redenzione, ciò che ci è di vero è al di là della vita terrena.
Così dal concetto dell’uomo del Manzoni nasce l’ascetismo, il misticismo. E concepite il frate di quei tempi che dopo le tempeste della vita cercava la solitudine, concepite Dante che cerca il convento e vi chiede la pace, Petrarca che finisce solitario la sua vita. Questa tendenza mistica, ascetica, è l’essenza dell’uomo cristiano.
Vedete però abbozzato il mondo e l’uomo negl’Inni, in lineamenti indeterminati: non ci è la storia, l’ideale non è sceso nella vita. Accompagniamo Manzoni nella formazione di questo ideale. Qui ha messo le categorie, le leggi, i lineamenti generali del suo uomo e del suo mondo. Vediamo quando scende nella storia, come realizzi quell’ideale.
Infatti il movimento ideale religioso del secolo XIX è accompagnato da un movimento pronunziato di studi storici. Da una parte sono filosofi teologi, come Bonald, De Maistre; dall’altra grandi storici, come in Germania Savigny, in Francia Thierry, in Italia un grand’uomo ch’è nostro, Carlo Troya. Che cosa sono questi studii storici? Non ci è solo un sentimento scientifico, il desiderio di trovare la storia nelle forme primitive, originali, scartando i giudizi affrettati, vagliando i risultati ottenuti da altri. Non è solo lo spirito del passato, che vi spiega lo sviluppo dello spirito storico. Ci era ancora la stessa tendenza reazionaria contro il secolo XVIII.
Ma spieghiamoci. Le parole «rivoluzione» e «reazione» non devono prendersi in senso assoluto, indicando «reazione» quanto c’è di male, «rivoluzione» quanto c’è di santo. Vi sono reazioni più potenti macchine rivoluzionarie, che le stesse rivoluzioni. Per cui anche le reazioni hanno il loro significato storico, la loro efficacia. Vediamo nella storia questo spirito reazionario contro il secolo XVIII.
Dapprima si domanda: — Come mai dalla storia han potuto nascere i saturnali del ’93, Marat, Robespierre? — (I quali però erano uomini che avevano in sé lo spirito del loro secolo). Allora si cerca di rifare il mondo storico, di andare alle prime sorgenti, di far la critica ad uso di un partito politico, per vedere se possono venir fuori nuovi risultati. Con queste idee preconcette si ottengono risultati opposti a quelli del secolo XVIII.
Per uscire dalle astrazioni vi darò un esempio, il più vicino alla nostra lezione: la questione longobarda. Come il Risorgimento parlava con isdegno e disprezzo del Medio Evo, considerandolo epoca di barbarie, così il secolo XIX fa centro di studi il Medio Evo, e s’incontra con la questione longobarda, la quale non fu agitata solo in Italia. Savigny scrisse un magnifico capitolo su di essa, e Manzoni non aveva letto Savigny quando se ne occupava.
Vediamo un po’ il secolo XVIII, il XVII, il XVI (perché il XVIII non è uscito come un fungo dalla storia, le sue origini rimontano alla metà del XV), come considerano la questione longobarda?
Dimostrano gli storici di quei tempi che i Longobardi erano un popolo straniero, che venuto in Italia finì coll’immedesimarsi col popolo latino; che quello avea conceduto a questo l’uso delle leggi sue, le libertà municipali, tutte le larghezze che potevano avere gli uomini longobardi, tranne la superiorità del dominio. Perciò, dicevasi, se i Longobardi non fossero stati disturbati nella loro opera unificatrice, fin d’allora si sarebbe avuta un’Italia nazione; prima colla violenza, poi col dolce e lento mescersi delle razze, e l’Italia sarebbe stata una come la Spagna, e la Francia. E ciò per quegli storici era un risultato così grande che doveva renderli indulgenti verso i Longobardi: Machiavelli li esalta, Muratori li difende, finanche l’ultimo filosofo del secolo XVIII, morto nel XIX, Romagnosi, n’è invaghito, li ama, li giustifica. Che era questo? Voi lo sentite: era l’Italia, era il sentimento politico dell’unitá nazionale che rivelavasi nell’apologia dei Longobardi. E se da una parte si glorificavano questi, dall’altra non avevansi parole a sufficienza severe contro papa Adriano che chiamò i Franchi, Carlomagno, alla distruzione del legno longobardo. Per quegli storici liberali, questa era la prima colpa del papato contro cui ribellavasi il loro animo patriottico. Perciò Machiavelli qualifica severamente l’appello allo straniero per mantenere l’Italia spezzata.
Questi scrittori vanno piú innanzi e si sforzano di distruggere la leggenda di Carlomagno, di quel Carlo tanto ingrandito dai frati, considerato come il principe piú grande del Medio Evo. Essi lo seguono passo passo, fra l’altro constatano le violenze da lui commesse in Italia, mettendo in dubbio la donazione del patrimonio di San Pietro al papa. Leggete Giannone e vi troverete largamente sviluppate queste considerazioni.
Manzoni si gitta negli studi storici, comincia a leggere cronache e trova la questione longobarda. Con che tendenze la esamina? Mette in un fascio Machiavelli, Muratori, Romagnosi, gli storici francesi e italiani del tempo (aveva letto Troya, non Savigny), fa la controparte dei loro risultati, giunge a conchiusioni contrarie. Dimostra che i Longobardi, stranieri, erano rimasti stranieri, avevano conculcata la gente conquistata, usurpate le terre del papa, il quale aveva diritto di chiamare Carlo non contro gli Italiani, ma contro gli stranieri. Ed ammettendo che i Longobardi avessero fatta l’unità d’Italia, non è lecito, per salvare le generazioni a venire, condannare le genti romane a subire le violenze dei Longobardi. Vedete in quale altro ordine di tendenze trovasi il Manzoni negli studii storici. Gittato in mezzo a quelle idee, leggendo cronache, confutando Muratori con critica che si fa perdonare per la bontà, per la moderazione e per lo spirito, gli sorge l’idea di cavare da tutto quello una tragedia storica. Ecco l’origine dell’Adelchi.
— Chi è questo Adelchi? — direbbe don Abbondio, se vi ricordate. Com’esce fuori? Desiderio si comprende, egli fu l’ultimo re longobardo; si comprende Carlomagno: sono uomini della storia, naturali eroi della tragedia storica. Ebbene, questa tragedia si chiama l’Adelchi.
Qui dovrei spiegarvi come Manzoni concepisce la tragedia storica in opposizione alla tragedia astratta di Alfieri; come cercò concordare l’ideale voluto dall’arte e il reale comandato dalla storia; come, non potendo risolvere il problema, venne ad una conchiusione strana, creare personaggi reali ed ideali, metterli insieme, in linea parallela. Concezione falsa, assurda, ma di cui ora non posso parlarvi: ce ne occuperemo quando vedremo il modo come Manzoni concepisce il romanzo storico.
Intanto, nell’interesse de’ nostri studi, prendiamo a corpo a corpo l’Adelchi. Chi è questo Adelchi? È l’ideale degl’Inni, l’uomo dal carattere indeterminato, che Manzoni abbozzò, ci cominciò a mostrare nei’ suoi Inni, e che egli vuole realizzare. Immerso negli studi storici, obbligato dalla sua teorica a creare caratteri ideali, prende il figlio di Desiderio, Adalgiso, ne fa la sua creatura, il suo ideale realizzato, ne fa l’Adelchi. Lasciando per ora tragedia e personaggi storici, Adelchi è quel tipo di eroe cristiano che ei cerca tradurre.
Vediamo di abbozzarlo bene come lo concepisce Manzoni. Siamo in tempi barbari, tempi di violenze, tanto da parte di quelli che parlano in nome di Dio che da parte di quelli i quali son contro Dio, di chi scomunica e di chi è scomunicato. Ebbene, Manzoni su questo mondo di violenze gitta l’ideale di un mondo morale più elevato, più civile, cristiano: questo ideale è Adelchi. Vediamolo in diversi tratti della tragedia.
La sorella di Adelchi, Ermengarda, reietta da Carlo, si presenta alla casa patema: il primo pensiero del padre è: vendetta! Adelchi pensa alla sorella, cerca di consolarla, di rianimarla. Vedete in mezzo a tempi di violenze barbariche sorgere un sentimento delicato: l’amore, la pietà verso la sorella.
Desiderio maturava grandi disegni, sentiva che fino a quando il papa fosse stato a Roma, egli avrebbe avuto i Franchi e Carlo sulle spalle. Voleva che il papa fosse «re delle preci, signor del sacrificio», ed occupare egli il soglio temporale. Notate da quanto tempo la idea storica (Desiderio è un personaggio storico) dell’unità d’Italia si è presentata allo spirito. E poi quante vie, quanti modi si dovettero tentare perché divenisse matura!
Il papa chiama Carlo che viene in Italia con un esercito, dopo aver ripudiato la moglie, figlia di Desiderio, appartenente a famiglia di scomunicati: i papi già avean cominciato a scomunicare.
Desiderio ed Adelchi, padre e figlio, stanno in presenza. Cosa vuol Desiderio? Ei non respira che vendetta per la figlia, vuol finirla con Roma, vuole consolidare il regno longobardo, estenderlo in tutta Italia: grandi progetti di re. Egli re, longobardo, ama la patria, la famiglia, tiene in mira fini politici e domestici, — tutte cose che costituiscono l’uomo.
Adelchi consiglia a Desiderio di restituire le terre usurpate al papa, di stringersi a lui in amicizia.
— Perire, Perir sul trono, o nella polve, in pria Che tanta onta soffrir... — |
Analizziamo questo tratto, perché le linee generali di un carattere devonsi rintracciare nei tratti speciali in cui il poeta lo ha rappresentato.
Desiderio sente la vergogna in un senso mondano: per lui l’aver occupato terre, e piantatavi la sua bandiera, e poi ritirarsi è vergogna: l’aver offeso il papa e poi chiedergli amicizia, è vergogna; — no, piuttosto morire!— . Adelchi ha il sentimento cristiano della vergogna: commetter torti, far violenze agl’inermi, occupare per forza le altrui terre, ecco dov’è la vergogna, non in ciò che al mondo sembra tale: si deve avere il coraggio di dire: — Ho mal fatto — . È questo un sentimento nuovo nel tipo eroico rispetto alla letteratura del secolo XVIII.
Avviene ciò che Adelchi aveva presentito. Carlomagno cerca passare le Alpi colle sue genti, il diacono Martino indica ai Franchi un passaggio nascosto e non difeso, traditori longobardi cospirano di consegnare Desiderio vivo nelle mani di Carlo. Questa tragedia politica, questo mondo si svolge innanzi ad Adelchi. Che farà egli? Egli non vuol guerra, vuole vendicare la sorella, ma da cavaliere di quei tempi, con un giudizio di Dio, con un duello a corpo a corpo, senza spargimento di sangue innocente. Innanzi a quel mondo della barbarie Adelchi diviene ciò che diviene un uomo il quale non vede il suo ideale realizzato, — elegiaco, contemplativo, pensoso, triste. E sfogasi con lamenti. Sentite lo sfogo che Adelchi fa con un amico intimo, perché son parole caratteristiche.— Il core, dice egli ad Anfrido,
... mi comanda Alte e nobili cose; e la fortuna Mi condanna ad inique; e strascinato Vo per la via ch’io non mi scelsi, oscura, Senza scopo: e il mio cor s’inaridisce, Come il germe caduto in rio terreno, E balzato dal vento — . |
Ecco dunque un uomo che ha l’istinto delle grandi cose, che ha l’istinto della generosità, della giustizia, della vera gloria, il quale si sdegna se vede combattere contro gl’imbelli, si adira della ferocia dei soldati contro donne e fanciulli — e che finisce rèveuv, come dicono i Francesi, chiuso in sé, e cerca sfogarsi con il suo amico.
Intanto i fati si affrettano: i Longobardi sono vinti, Pavia è presa. Desiderio fatto prigione, Adelchi si è chiuso in Verona, Verona stessa è dai traditori consegnata a Carlo; è il momento della catastrofe. Come finirà Adelchi?
Vedete Saul, che è il vero protagonista della tragedia di Alfieri, il piú interessante, segnacolo all’ira divina; egli, vedendosi sconfitto, perduto, esclama:
— Empia Filiste, Me troverai, ma almen da re, qui morto — . |
L’idea del suicidio s’impossessa di Adelchi, egli vuole uccidersi. E, notate! perché non si uccide? La ragione è di molta finezza, assai delicata, suppone una gran forza morale.— Tu vuoi ucciderti, dice a se stesso, perché non ti senti la forza di guardare in faccia al vincitore! E questa è falsa vergogna, è lo spirito mondano: ciò che sembra coraggio è viltà, il coraggio sta nel presentarsi vinto, incatenato, al nemico della tua famiglia, a colui che ha oltraggiato tua sorella — .
Questa è forza di un mondo morale più elevato. Quando si vede vinto, ferito e preso, che cosa domanda Adelchi? Domanda di essere presentato al vincitore, vuole aver la forza di rimaner calmo innanzi a lui, di sentirsi più alto, più felice di lui. Quella scena è di un grande effetto nella lettura. Vedete Adelchi ferito, trascinato nella sala dove è il vincitore freddo e rigido — il barbaro rappresentato in tutta la sua rozzezza — dove è anche il padre prigioniero, che veniva da Carlo a chieder grazia pel figlio, non sapendolo ferito a morte.
Adelchi edifica il suo piedistallo. Sapete che quando l’uomo muore, quando l’eroe della tragedia si avvicina alla morte, il modo come muore è il suo piedistallo. Adelchi, morendo, guarda ciò che gli sta intorno con gli occhi della morte: capisce sé, suo padre, il mondo. Egli gode di morire, perché non ha mai saputo che è venuto a fare in un mondo d’ingiustizie e di violenze, egli che ha un sentimento così alto della giustizia. Muore e dice al vincitore: — Tu, felice, tu pure devi morire — .
Si rallegra col padre perché non sia più re:
— Godi che re non sei; godi che chiusa All’oprar t’è ogni via: loco a gentile, Ad innocente opra non v’è — . |
— Essendo prigione, non potrai più operare — : la maledizione per Adelchi non è nell’operare male, ma nell’operare.
Non ci è nessun mezzo di far cosa gentile, consona al suo mondo ideale; e gli esce di bocca un ultimo stimmate contro quel secolo:
— ... non resta Che far torto, o patirlo. Una feroce Forza il mondo possiede, e fa nomarsi Dritto... — |
— Vengo alla pace tua: l’anima stanca Accogli... — |
Ecco, abbozzati nei tratti della tragedia, i lineamenti dell’eroe cristiano, presentatoci da Manzoni.
Che cosa è desso? È l’uomo cristiano che già abbiam veduto spuntare negl’Inni, il quale si realizza qui fra le lotte barbariche: egli sente che quell’opera che egli fa è iniquità, e la fa, la fa perché il padre gliel’impone; la fa, ma come un uomo che non compie un dovere per passione, che non ci si mette con tutta l’anima sua, senza un generoso scopo, ma per ubbidienza. Quest’uomo guarda senz’interesse i grandi avvenimenti che si svolgono intorno a lui e che dopo tanto tempo colpiscono ancora la nostra immaginazione di spavento. Ma non ha egli patria, non famiglia, non regno, non ha il sentimento di quella catastrofe storica? Tutto ciò è cosa secondaria per lui, non lo riscalda, non lo spinge ad operare: egli ha l’ideale di un mondo morale più elevato ed opera contrariamente al suo ideale per ubbidienza, in mezzo a un mondo di violenze da cui si sente trascinato come canna.
Ecco dunque il concetto di quell’ideale. E che cosa è questo? È un ideale mancato, un abbozzo, è la prima apparizione di un nuovo orizzonte poetico di contro al secolo XVIII; è, per dirlo con la frase di Dante, una concezione «in cui formazion falla»; concezione non giunta alla forma, all’uomo vivo. E perché? Adelchi opera, ma l’opra riman fuori di lui, opera per dovei e, senza che vi partecipi l’anima sua. Quando si tratta di qualche cosa in cui deve entrare parte di sé, egli predica, parla, diventa elegiaco. Perché? Perché non ha l’energia del suo ideale.
Supponete un uomo il quale in tempi di barbarie, di violenza, avesse le grandi aspirazioni di Adelchi, presentisse un mondo migliore, più civile, ed avesse tanta energia da esser capace di attuare il concetto morale ch’ei si ha formato del mondo: l’ideale non rimarrebbe nel cuore, non si esprimerebbe a parole, non si sfogherebbe in lamenti; egli cercherebbe realizzarlo, cadrebbe vittima, morrebbe, perché il destino degli uomini incompresi che sentono di trovarsi in un mondo alieno ad essi è quello di cadere vittime, martiri dell’avvenire, lasciando una pagina nella storia. Guardate un ideale che vuol realizzarsi nel Marchese di Posa di Schiller: ma qui pure il concetto non è pari all’ideale, e quel personaggio è rimasto un intrigante. L’Adelchi non ha l’energia di mettersi in faccia alla contraddizione, di opporsele, anche a costo di spezzarsi in quella: potrebbe ubbidire rendendo poetico, prezioso il suo sacrifizio, la rinunzia di se stesso in quello stato di lotta. Non è personaggio drammatico; potrebbe essere lirico se l’autore lo mettesse in ultimo in una situazione che gli strappasse un grande lamento contro la violenza de’ tempi.
Questo l’ha fatto qui, ma l’eroe non è Adelchi, è Ermengarda. Adelchi? Come volete prendere interesse per Adelchi, trovandovi innanzi a tanta catastrofe, alle figure colossali di Carlo, di Desiderio? Come potete interessarvi alle piccole gradazioni dell’anima delicata e sensitiva di Adelchi, e seguire nel suo sviluppo speciale quell’anima che si sfoga in parole? Adelchi dá il titolo alla tragedia, ma rimane essere secondario.
Manzoni stesso che ha sviluppato il senso critico, dice: — Nessun critico dirà dell’Adelchi tanto male quanto io ne penso — . Ma quando lo diceva? Quando Adelchi erasi compiuto innanzi alla sua immaginazione, quando l’ideale era calato nella vita, e Adelchi era diventato padre Cristoforo, Federigo Borrcmeo.
Se vogliamo acquistare il senso critico, studiando gli autori dobbiamo seguirli così in tutto lo sviluppo della forma del loro ideale, come il naturalista segue il germe in tutte le sue gradazioni nel diventare erba. Anche l’arte ha i suoi antecedenti, i primi tentativi di formazione. Così negl’Inni abbiam veduto i primi lineamenti dell’ideale del Manzoni, nell’Adelchi il primo abbozzo; ne seguiremo gli ulteriori sviluppi nelle seguenti lezioni.
[Ne La Libertà, 7-8 febbraio 1872].