Al fronte/Tra lo Stelvio e il Tonale

Tra lo Stelvio e il Tonale

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In un ospedale Dai ghiacciai dell'Adamello agli uliveti del Garda

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TRA LO STELVIO E IL TONALE.

18 agosto.

L’immenso saliente austriaco del Trentino che entra così dolorosamente nella terra italiana e s’incunea nelle nostre valli fino al lago di Garda, ha a nord-ovest un limite di vette smisurate. La frontiera, che s’innesta allo Stelvio, scende al sud serpeggiando sopra un candore di ghiacciai, finchè da sommità a sommità raggiunge i contrafforti e finisce fra il Garda e l’Idro a divorare le verdi pendici della Valle Toscolana, coperte di vigneti, dalle quali si domina la pianura bresciana.

Le vie di penetrazione, le vie dell’invasione capaci di un ampio movimento di masse corrono da nord a sud, lungo la Valle Giudicaria, lungo la valle del Garda, lungo la valle dell’Adige, ma il fianco occidentale è chiuso da un’immane barriera di alte cime che lasciano pochi e difficili varchi. Il nostro fronte comincia quindi, a ponente, sopra una tumultuosa distesa di creste, di ghiacciai, di nevai, in una maestosa tempesta di rocce. Sono le vette dell’Ortler, le vette del Cevedale, le vette dell’Adamello. Le zone di operazione si [p. 91 modifica] distendono talvolta oltre i tremila metri di altitudine. La guerra che romba sulla marina nel golfo di Trieste, fra le ardenti scogliere delle giogaie carsiche, si svolge all’estremo fianco sinistro nel perenne e rigido inverno delle nevi alpine.

È lassù una guerra di sentinelle. In quel labirinto fantastico di vallette anguste, di gole profonde, di burroni, di precipizî tenebrosi, due sole strade di qualche valore strategico riescono a inerpicarsi, serpeggiando faticosamente sulle gigantesche pareti dei monti, e a valicare la frontiera. La strada dello Stelvio, che tocca l’estremo limite del confine, e che le nevi bloccano durante otto mesi dell’anno, e più a sud la strada del Tonale. Non vi sono altri valichi se non dei paurosi sentieri da cacciatori di camosci, minuscoli passaggi mulattieri, viottoli che seguono il corso dei burroni, nell’ombra gelida delle gole, e che scalano le selle al bordo sinuoso dei ghiacciai. Pochi uomini vi si possono muovere. Da una parte e dall’altra, l’azione che si svolge in quelle fantastiche zone è più che altro di vigilanza.

Si fiancheggia l’azione più ampia che, salita dal sud, fronteggia ora i formidabili sbarramenti di fortezze che gli austriaci hanno creato in tutte le valli accessibili all’invasione italiana. Sui valichi dello Stelvio e del Tonale, all’estremità sinistra italiana, si sorveglia e si blocca. [p. 92 modifica]

Verso queste regioni, all’ultimo limite occidentale del nostro fronte, abbiamo iniziato la nostra visita al fronte.

Si vigila e si blocca, ma non si creda che questa guerra di sentinelle si svolga nell’immobilità. Per consolidare il possesso dei valichi bisogna occupare le posizioni dominanti. Si porta la lotta sempre più in alto. Sono scalale fantastiche verso il cielo, ascensioni notturne di creste turrite, sorprese, attacchi, e le fucilate echeggiano per i deserti glaciali delle vette. La guerra si assottiglia salendo: nelle pianure sono le grandi masse che operano, nelle vallate sono nuclei, nelle gole reparti, e sulle cime pattuglie. La battaglia diviene scaramuccia, e in alto in alto la guerra finisce in una caccia, fatta di sorprese e di agguati, al di sopra del mondo abitato, fra le nubi, sul bordo di abissi, entro un silenzio spaventoso.

Ogni sentiero, ogni passo, è il teatro di minuscole operazioni di guerra; ma sui due valichi principali, che permettono una maggiore concentrazione di forze, e il cui possesso ha un’importanza che pesa sullo svolgimento generale della guerra, l’azione si allarga. Sullo Stelvio e sul Tonale il combattimento di posizioni si è stabilito regolarmente, e sulle fanterie, trincerale fino ai nevai, passano i proiettili di artiglierie issate ad altezze favolose.

È avvicinandosi a Bormio che si ode la prima voce della guerra. Scende dallo Stelvio, [p. 93 modifica] echeggiando lungamente per le gole dirupate e nude, un rombo di cannoni.

Il paesaggio si è fatto a poco a poco di una maestà sinistra. La Valtellina, che si risale lungo il corso limpido e veloce dell’Adda, si è andata restringendo e oscurandosi fra balze ripide, che rovesciano di quando in quando fino alla strada lunghe frane di macigni attraverso le boscaglie di abeti. Sboccando sulla prateria in fondo alla quale Bormio si adagia, pare che non vi siano più vie di uscita. Il verde delle vegetazioni risale tutto intorno, poi cessa bruscamente, e la immane corona delle rocce nude si erge impetuosa, a picco, irrompendo vertiginosamente dalle terre viventi, nuda, sterile, grigia, fino alle diafanità azzurrastre di altitudini prodigiose, striata sulle vette da uno splendore di nevi. Le imboccature delle gole superiori non si scorgono a prima vista; la strada che sale allo Stelvio sembra perdersi in una fenditura inaccessibile del monte.

Da questa fenditura, prolungato da mille echi, scende il tuono delle artiglierie.

Non abbiamo potuto avvicinare le posizioni oltre Bormio, ma le notizie affluiscono nella piccola città montanara.

Allo Stelvio si appoggia la nostra estrema sinistra. La lotta ferve intorno al passo, il cui possesso si contende. La battaglia si svolge a tremila metri di altezza. Come quasi per tutto, gli austriaci posseggono posizioni [p. 94 modifica] dominanti, dalle quali dobbiamo scacciarli. Le loro trincee più avanzate sono su creste rocciose al di sopra della molle e immacolata distesa di un ghiacciaio. Essi tengono un ciglio del monte; i nostri alpini sono riusciti ad occupare e a consolidarsi sopra un altro ciglio, e avanzano.

Tutto in giro è un caos di nere vette precipitose, una moltitudine di picchi, un panorama fantastico di punte, di cuspidi, di pinnacoli, che emergono da chiazze di neve. Sono le aspre giogaie che coronano l’angusta gola del Bràulio, in fondo alla quale si snoda in mille volute la strada dello Stelvio. Le granate austriache piombano spesso nel baratro, che rugge alle esplosioni. La solitudine sembra assoluta. Truppe e cannoni sono invisibili. Pare che le rocce stesse si fulminino.

L’artiglieria austriaca è postata al valico, presso l’albergo Ferdinandshöhe. È salita per la strada rotabile, e si è fermata lì. Ma la nostra artiglieria non aveva strade, ed è comparsa come per magìa su vette all’apparenza inaccessibili. Dei pezzi sono in agguato fra le scogliere più eccelse. I loro colpi possono arrivare all’albergo, che serve di base al nemico, e del quale ora soltanto scopriamo il vero scopo. Questo hôtel Ferdinandshöhe non era che una caserma, e adesso si spiega perchè alla sua costruzione contribuisse largamente il Governo austriaco. [p. 95 modifica]

Una singolarità della lotta sullo Stelvio è la presenza degli svizzeri. Il valico segna il vertice delle tre frontiere, italiana, austriaca e svizzera. Fra i due belligeranti s’insinua il neutrale. Le truppe svizzere, accampate anche loro oltre i 2500 metri, vigilano sui loro valichi in difesa della neutralità. Quando le nostre batterie cominciano il fuoco, le creste della Forcola si coronano di svizzeri che corrono a vedere. I profili più accessibili della montagna si granulano di spettatori. La Svizzera è allo Stelvio come un padrino fra i duellanti.

Dalla parte italiana gli svizzeri controllano i colpi austriaci e dalla parte austriaca controllano i colpi italiani. Perchè se una palla toccasse le rocce svizzere la neutralità ne sarebbe offesa. Ma finora un solo colpo è stato accusato di aver sconfinato, di cento metri, causando molte dicerie e nessun danno.

Le forze austriache impiegate sullo Stelvio non superano forse il reggimento, ma la posizione loro è formidabile, come del resto è formidabile la nostra. La montagna contribuisce alla guerra con risorse incommensurabili. Essa moltiplica l’efficacia delle forze in lotta, fornisce delle difese che dànno talvolta ad un pugno d’uomini il valore di un esercito. Tre quarti della guerra in montagna è fatta dalla montagna; essa ha un’ostilità sua che gli avversarî [p. 96 modifica] sfruttano, sulle sue vie sta di guardia la morte. Il freddo, i crepacci, gli abissi, le tormente sono le sue armi terribili. La montagna si difende, si oppone, minaccia, ammazza per suo conto.

Il combattimento sullo Stelvio, che per la quantità di truppe impegnate avrebbe un valore di episodio, acquista un non so quale carattere di lotta titanica lassù, in quella sommità del mondo, dove le vette corrusche si ergono come combattenti, avendo i ghiacciai per spalto e le valli per fossato.

Dal giogo dello Stelvio fin verso il passo del Tonale è tutta una distesa di ghiacciai, un mare candido e sinuoso dalle onde immani ed immobili, che innalzano fino alle nubi lo splendore delle loro creste, un paesaggio polare levato nelle profondità del cielo sull’imponente e immane piedistallo dei dirupi. È il gruppo dell’Ortler e del Cevedale sul cui spartiacque la frontiera corre. Non vi sono valichi; bisogna attraversare i ghiacciai nelle insellature praticabili. Italiani e austriaci sono separati dall’ampia distesa del gelo. Qualche pattuglia s’inoltra alla notte sui ghiacci, esplora, attacca un piccolo posto, ritorna all’alba. Quando il giorno sorge non ce più nessuno sul candore delle nevi. I posti avanzati si annidano al bordo dei ghiacciai, sulle creste nude e grigie.

Risalendo da Bormio la Valfurva si può avere un’idea di questa zona meravigliosa e orrida. [p. 97 modifica] Si arriva al villaggio di Santa Caterina, tutto pieno di alberghi, chiuso in una conca verde di boschi, circondato da pendici che lontano, in alto, si culminano in un panorama di nevi. Fra le vette, la più alta, regolare come una piramide, tutta bianca, è quella del Palon della Mare, dai declivi molli, soffici, pieni di ombre azzurre, come fianchi di nubi. Fra questa vetta e la cima del Monte Vioz, più lontana, invisibile, oltre la frontiera, vi è un’avvallatura valicabile che conduce al ghiacciaio del Forno, più basso sul versante italiano, e da lì all’alta Valfurva. È la strada preferita dalle incursioni austriache, piccole incursioni che tentano delle sorprese.


L’ultima incursione è avvenuta una settimana fa, nella notte del 9. Una cinquantina di cacciatori tirolesi attraversarono i ghiacciai per attaccare l’Albergo del Forno. È un rude e grande albergo da villeggianti eretto sopra un verde pianoro in una regione di baite, di fronte al ghiacciaio del Forno — ma dal quale lo separa un profondo torrente. Nell’albergo era un nostro posto avanzato. L’attacco e la difesa costituiscono un infimo episodio di guerra, ma infinitamente pittoresco.

Gli austriaci hanno in queste regioni una facilità di movimenti favorita dall’esistenza di alberghi e di numerosi rifugi, ampî, costruiti da società pangermaniste, da una quantità di ' [p. 98 modifica] vereinen bavaresi e tirolesi. Quello che prendevamo per un furore sportivo era una preparazione di guerra. Ogni rifugio è eretto in posizione utile per facilitare un valico; esso è una vera stazione di tappa o un posto di vigilanza. Il pittoresco non ha niente a vedere con queste costruzioni disposte con criterî militari. Gli alberghi servono di base, i rifugi permettono l’avanzata. Negli ultimi anni, alberghi e rifugi sono stati frequentati da un numero incredibile di austriaci. Anche i registri degli alberghi italiani sono pieni di firme tedesche. I villaggi nostri della frontiera erano infestati da una quantità di tirolesi, e pastori, guide, operai, tagliaboschi tirolesi invadevano l’estate le nostre valli. Il risultato è che esistono sentieri che il nemico conosceva molto meglio di noi.

È per uno di questi sentieri che gli austriaci hanno potuto raggiungere l’Albergo del Forno da un lato quasi indifeso, verso il torrente. All’una di notte, le nostre sentinelle udirono un rumore di passi cauti fra le rocce, e ripiegarono sull’albergo dopo aver fatto fuoco. La notte era oscura. Gli austriaci si erano divisi in tre gruppi, che con abile tattica si presentarono uno per volta. Si rivelarono alle vampe dei colpi. Il primo attacco venne dal pianoro, il secondo da un pendìo che sovrasta l’albergo: ma una barriera di reticolati proteggeva i lati accessibili e il nemico, che certamente lo sapeva, non si avvicinava. Improvvisamente [p. 99 modifica] il terzo gruppo comparve dalla parte del burrone, fra delle scogliere vicinissime al caseggiato, quasi alla porta dell’albergo.

Molte, troppe cose gli austriaci sapevano. Conoscevano le posizioni della difesa, sapevano che quel giorno la massima parte della minuscola guarnigione era stata temporaneamente diminuita, conoscevano un passaggio, ignoto anche agli abitanti, per attraversare il burrone, e sapevano infine in quale ambiente i nostri, per aver più caldo, si riunivano alla notte. Infatti il terzo gruppo nemico piombò subito sopra una piccola cappelletta, una rustica chiesuola, vicinissima all’albergo, mentre tutt’intorno era un inferno di fucilate.

Gli alpini erano pochissimi. Contro l’attacco principale, due soli facevano fuoco. Per raggiungere la porta della chiesa gli austriaci dovevano inoltrare fra i due edifici e lo stretto passaggio era spazzato dalle pallottole dei nostri. Coricati a terra, i due difensori sparavano di sbieco per lo spiraglio d’un uscio appena dischiuso. Le canne dei loro fucili scottavano. Quando non potevano più toccare il caricatoio, stendevano la mano nel buio, dietro a loro, e afferravano un fucile fresco che un compagno porgeva.

Non una voce; nemmeno nel momento dell’allarme gli alpini hanno parlato. Al buio, senza fuoco, nelle tenebre fredde, non scorgendosi nemmeno l’uno con l’altro, essi si sono trovati [p. 100 modifica] d’accordo per intuizione, per istinto. Gli austriaci vociavano: Arrendetevi! — Rispondevano i colpi, il cui lampeggiamento illuminava i rozzi muri dell’andito. Aspettandosi l’assalto, i nostri avevano tacitamente inastato le baionette.

Un movimento di assalto si è iniziato; decisamente gli austriaci hanno imboccato l’angusto passaggio. Un atletico sergente è arrivato alla porta gridando: Arrendetevi o vi bruciamo vivi! Non aveva finito di pronunziare queste parole che una palla lo colpiva alla gola e lo rovesciava morto. Gli assalitori si sono fermati, hanno avuto un istante di esitazione, si sono visti i loro profili neri oscillare sullo sfondo stellato del cielo e poi scomparire. Fuggivano lasciando i loro caduti. Il rumore dei passi precipitosi svanì, e la pattuglia alpina si ritrovò sola nel deserto dell’alta montagna, di fronte al chiarore sidereo delle nevi.


È qui spesso una guerra di silenzi, di attesa, d’immobilità.

Impossibile scorgere sulle vette i nostri posti avanzati. Nessuno vi si muove. Nemmeno gli ufficiali riescono a vederli. Uomini e roccia pare che formino una cosa sola. Sdraiati nelle anfrattuosità, sull’orlo degli abissi, per intere giornate e per lunghe notti, gli alpini in vedetta rimangono fermi e desti, come cacciatori alla posta. [p. 101 modifica]

Taciturni e serî, partono in fila indiana dai loro attendamenti, e salgono, salgono, col loro passo eguale, lento, misurato da montanari, verso le cime, qualunque sia il tempo. Ogni ricognizione è una lotta contro gli elementi. Per bruciare un rifugio austriaco s’inerpicano tutta una notte, legati a cordate marciano sulle nevi con una temperatura di dieci, di quattordici gradi sotto zero, valicano crepacci tenebrosi, sfidano cento volte la morte, e tornano raggianti di una contentezza raccolta e silenziosa, carichi di bottino. L’austriaco è per loro il nemico meno temibile dopo aver vinto la montagna.

Quando lasciano in basso le ultime zone verdi, si fanno gravi. Risalgono spesso gole e passi che hanno una fama paurosa, come la valle Gavia disseminata di croci, che i soldati passando salutano. Ogni croce ricorda una vittima. Santa Caterina sembra l’ultimo limite del mondo abitabile. Al di là tutto si fa truce e smorto, non vi sono più colori, e la zona di operazione, il nostro fronte, è un caos bianco e grigio che sfuma in alto in un pallore d’irrealtà.

Verso il Tonale la favolosa barriera dei ghiacciai s’interrompe, la linea seghettata delle vette degrada, si abbassa, lascia un’insellatura, poi, più al sud, riprende, si risolleva, e si imbianca di nuovo delle nevi eterne dell’Adamello. Per l’insellatura la strada rotabile della Valcamonica balza tortuosa con lunghi giri, [p. 102 modifica] guizzando come una sterminata e sottile serpe bianca, con grovigli da nastro caduto, e passato il valico ridiscende a volute oltre la frontiera nella Val di Sole.

La via del Tonale è più libera e più facile della via dello Stelvio, perciò la lotta vi insiste con maggiore violenza. I bollettini ufficiali hanno parlato spesso delle operazioni sul Tonale, ed essi soli bastano ampiamente a dare un’idea dello svolgimento dell’azione. Si combatte non tanto per passare quanto per il possesso di una soglia.

Anche questo valico è dominato da vette, da creste, da picchi. Per conquistare in basso bisogna cominciare col salire in alto. Si tende al valico ma si combatte altrove, e vediamo nei resoconti dello Stato Maggiore come l’attacco nostro colpisca ora al nord e ora al sud, verso le altezze.

Il primo giorno stesso della guerra, il 24 maggio, passata la frontiera i nostri alpini prendono la Forcella di Montozzo, a 2625 metri, a nord del passo del Tonale. Gli austriaci si fortificano sul Monticello, al sud del passo, a 2550 metri di altezza. Si contendono le vette. Chi ha le vette ha le valli. Il 30 giugno l’artiglieria entra in azione; i nostri cannoni aprono il fuoco sulle posizioni del Monticello. Il nemico allora tenta un colpo sulle nostre retrovie, e il 15 luglio, dopo un’ardita traversata dei ghiacciai del Mandrone, al sud del [p. 103 modifica] passo del Tonale, attacca in forze il rifugio Garibaldi. È respinto e noi occupiamo il ghiacciaio stesso, nei punti traversabili, al di sopra dei 3000 metri. La battaglia sale ancora, le trincee sono ora nel ghiaccio. Il 30 luglio gli austriaci, nella notte, ritornano all’attacco. Si combatte nelle nevi. Il nemico è respinto dai posti avanzati.


Intanto noi, con migliore fortuna, facciamo al nord del Tonale quello che il nemico non è riuscito a fare al sud. Il 7 agosto, gli alpini risalgono ancora più al nord e più in alto della forcella Montozzo, e avanzando per una cresta rocciosa e difficile, sorprendono e disperdono gli austriaci trincerati presso la punta di Ercavallo. Pare che la lotta devii dalle località alle quali realmente tende, essa si allontana e s’innalza. Le artiglierie sono issate a tremila metri sulle rocce di Ercavallo e rendono intenibili al nemico le posizioni di Malga Palude. Piccole forze e battaglie di giganti.

Ora anche pezzi di medio e di grosso calibro tuonano intorno al valico. Alle fortificazioni permanenti si sono aggiunte fortificazioni campali, tutte le valli rimbombano di colpi, e alla notte il lampeggiare vivido delle vampe rivela immensi profili di balze dirupate.

È di notte che sono giunto alla vista di questo inverosimile, prodigioso campo di battaglia. Sono salito per una lunga via che è [p. 104 modifica] sorta come per incantesimo. I tedeschi vantano le loro nuove strade che seguono gli eserciti nelle pianure polacche, ma che cosa sono quelle facili arterie di fronte alla viabilità che le nostre truppe creano, con una energia e una possanza romane, sulle Alpi, tagliando le rocce, aprendo fino alle vette il varco al transito della guerra con una rapidità meravigliosa, come il pioniere si apre il sentiero nella boscaglia? Vi sono nevai ai quali ora l’automobile sale.

Sale per strade vertiginose che si attorcono su falde di monti, e corrono sul bordo di abissi. Da una parte la parete a picco, dall’altra la sterminata profondità della valle. L’automobile passa sopra una cornice, e va lentamente lanciando il suo lamentoso segnale di tromba. Non è senza un vago sgomento che lo sguardo piomba nella vallata, dove le città e i villaggi appaiono come visti dalla navicella di un pallone, sempre più lontani, una granulazione di tetti minuscoli presso un filo azzurro che è un torrente, e un filo bianco che è una strada. Si è a ottocento, poi mille, poi mille e cinquecento metri più in alto. Tutto appare schiacciato, annebbiato, immerso in un’ombra violastra, e nessun rumore sale da laggiù, se non uno scrosciare lontano ed eguale di acque.

Il passo del Tonale era quasi invisibile, ma sotto al cielo limpido e costellato s’indovinava la massa immane dei monti. Un chiarore vago, [p. 105 modifica] forse quello della luna sottile che stava per sorgere, si stemperava in un biancore di nubi e di nevi. Non si capiva bene quali erano le nubi e quali erano le nevi. Era un caos di vapori e di cime. Delle fascie di nebbia si distendevano sul nero delle pendici. Improvvisamente un getto candido di luce ha tagliato la notte: il proiettore di un forte.

Esso cercava lentamente intorno, e quella gran striscia illuminava di un confuso e lieve balenìo i punti che toccava. Poi, il raggio che si stendeva orizzontale ha cominciato a sollevarsi. Guardava in alto. Adagio adagio si è disposto quasi verticalmente, come se frugasse nel cielo. Le nubi e le nebbie si sono rischiarate, e prodigiosamente, al di sopra di tutto, dove a noi pareva che la terra fosse finita, dove credevamo di vedere uno scintillare velato di stelle, si è accesa la neve, e un minuscolo lembo di ghiacciaio è apparso come librato nel firmamento.

Poco dopo un baleno ha disegnato di vivida luce i contorni delle nubi: un colpo di cannone. Dopo molti secondi è arrivato il rombo, cupo e lungo.

Tutta la notte l’artiglieria ha tuonato, a larghi intervalli, come se un temporale lontano imperversasse sulle più alte regioni della guerra. Gelava, e nella oscurità la terra intorno a noi biancheggiava di brina.