Al fronte/Dai ghiacciai dell'Adamello agli uliveti del Garda

Dai ghiacciai dell' Adamello agli uliveti del Garda

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Dai ghiacciai dell' Adamello agli uliveti del Garda
Tra lo Stelvio e il Tonale Tra le balze dell'Adige

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DAI GHIACCIAI DELL’ADAMELLO AGLI ULIVETI DEL GARDA.

22 agosto.

Nella nostra prima escursione abbiamo avuto un’idea dell’estrema sinistra del nostro vastissimo fronte di battaglia, il quale si attacca allo Stelvio e scende al sud, lungo i ghiacciai dell’Ortler, del Cevedale e dell’Adamello, formanti come un immane, favoloso trinceramento bianco creato per una guerra di titani.

Più oltre, la tempesta delle vette abbassa il livello delle sue prodigiose onde di granito, e in essa, come un diritto e profondo solco, si apre da sud a nord la valle Giudicaria, la prima delle grandi vie di invasione che l’Austria, imponendoci la sua iniqua frontiera, si era riserbata. Fu sempre un’arteria di traffici e di guerre questa strada ampia, pianeggiante, capace, che dalle molli e ubertose vallate italiane, dopo aver contornato lo specchio del piccolo lago d’Idro tutto pieno del verde riflesso di montagne boscose, sale direttamente per la Giudicaria, e poi per la Rendena e per la Sarnthal, fino ad allacciarsi alle prime, ben lontane vallate della vera terra straniera, dove i nomi geografici cominciano a prendere un suono barbaro. [p. 107 modifica]

I bollettini ufficiali hanno parlato spesso della valle Giudicaria. La frontiera ci inchiodava in faccia a posizioni dominanti. Bisognava balzare avanti, irrompere nella valle dopo avere occupato le vette laterali, ed andare a stabilire il nostro fronte sopra una linea solida di difesa.

Per ben comprendere questa operazione, il cui teatro è stato la mèta della nostra seconda escursione, basta aver presente che la valle Giudicaria, diritta e mediana, ha i fianchi tagliati da valloni laterali che si distendono con quell’apparenza quasi regolare che hanno le nervature di una foglia. La Giudicaria è il nervo centrale. Inoltrandosi si ha a destra la valle di Ledro, che finisce al Garda; a sinistra la valle Daona che risale con una grande voluta fino ai ghiacciai dell’Adamello. Ebbene, l’occupazione nostra è arrivata ad affacciarci a questi valloni; il massiccio montuoso, aspro che li sovrasta costituisce la nostra fortezza: il torrente nel fondo delle gole è il nostro fossato. L’altro versante è nemico.

Al di sopra delle valli, a duemila metri di altezza, le vette di tanto in tanto si fulminano.

Si attraversa in riva al lago d’Idro l’antica fortezza di Anfo, massiccia, complicata, pittoresca, con le sue enormi muraglie che si sovrappongono fra le rocce fino alle costituzioni più alte sulle balze, con i suoi ponti [p. 108 modifica] levatoi, i suoi androni risuonanti di traffico, e gli spalti che si sporgono a immergere nell’acqua del lago le loro speronate robuste e grigie. Poco dopo si varca l’antica frontiera. «Regno d’Italia — Comune di Lodrone» si legge all’imboccatura del primo paesello riconquistato, al posto della scritta austriaca.

Del resto di austriaco non aveva che una scritta. Essa era indispensabile per avvertire che lì cominciava l’Austria. Null’altro lo dimostrava. Bianco, quieto, imbandierato, il paese ha l’aria ridente e soddisfatta di un villaggio brianzuolo. Più oltre, passato Darzo, s’imbocca la valle e la vita normale cessa. Non vive più che la guerra.

Un grande, prodigioso silenzio. Solo un mormorìo cupo ed eguale di acque echeggia sommesso fra le scoscese falde delle montagne: è il Chiese, veloce e limpido, nato dalle nevi eterne, tinto di un azzurro da aria liquida, come se sulle cime dell’Adamello, così vicine al cielo, si fosse imbevuto di serenità. Più ci si inoltra verso il fronte, e più la calma appare profonda.

I due eserciti si sono fissati sulle loro posizioni, e aspettano. Si osservano, si studiano, vigilano, lavorano. Le linee più solide delle reciproche difese sono lontane fra loro. Vi sono certamente delle trincee, ma non è una guerra di trincee. Fra un fronte e l’altro si stende una zona neutra, campo d’azione di [p. 109 modifica] pattuglie, di piccoli reparti, disseminato di vedette, percorso da esplorazioni, nel quale risuona improvvisamente lo scoppiettìo della scaramuccia.

È un territorio solcato da burroni, coperto spesso da oscure boscaglie che assaltano i declivi precipitosi e si fermano stanche sotto alle vette nude, è tutta una moltitudine di montagne che si affolla come in gara per sorpassarsi, irta di rocce dall’apparenza inaccessibile, che levano nel cielo, fin oltre i duemila metri, le sagome più bizzarre dell’architettura del mondo, i più inverosimili castelli della creazione.

L’avanzata è stata una corsa alle sommità. Per essere padroni della valle bisognava essere padroni dei monti. Quando il 24 maggio, con la contemporaneità e la coordinazione meravigliose che caratterizzano tutto lo sviluppo delle nostre operazioni, fu portato l’attacco sull’intero fronte, dallo Stelvio al mare, il bollettino ufficiale annunziò al paese anche l’occupazione di una parte della valle Giudicaria. Ma nessun soldato aveva ancora posto piede sulla strada maestra, la vera valle era deserta: però la tenevamo già. Era sotto ai nostri sguardi e ai nostri tiri. Gli avamposti italiani la contemplavano affacciandosi ai dirupi. [p. 110 modifica]

Per sentieri da camosci, le nostre pattuglie sbucavano su dai boschi, scalavano le cime e si mandavano l’una all’altra voci di segnale e di saluto attraverso la sonora purità delle altitudini. Quattro giorni dopo l’inizio delle ostilità occupavamo la Cima Spessa, che domina la gola laterale d’Ampola, così piena di ricordi garibaldini. Ancora tre giorni, e l’Ampola era passata, Storo era occupata, Condino era occupata: la conquista avanzava così anche nel fondo delle vallate nostre.

Intanto, valicando difficili passi, per le ripide e orride balze della valle Caffaro e della Valcamonica, reparti di alpini scendevano nella valle Daona, ad occidente della Giudicaria. Dopo un breve combattimento, le truppe che avevano occupato Condino, risaliti gli speroni sulla bassa valle Daona, si collegavano a quei reparti alpini, e si stabiliva una stupenda continuità di fronte, dal Tonale al Garda, dai ghiacciai dell’Adamello agli uliveti del lago. La grande, formidabile linea di posizioni sulle quali ora ci teniamo era tracciata.

Gli austriaci hanno tentato più volte di spezzare la catena dei posti avanzati italiani, di tornare in possesso di picchi e di valichi da cui sentivano più forte gravare la minaccia. I loro attacchi si sono diretti specialmente verso l’alta valle Daona, dove più radi erano i nuclei di occupazione, più facili le sorprese, e [p. 111 modifica] dove speravano forse di potersi aprire un varco verso la Valcamonica e disturbare nelle retrovie le nostre operazioni del Tonale.

I loro sforzi, inutili sempre, sono stati però coraggiosi e intensi. Respinti, tornavano cercando altri passi, altri approcci. Durante quasi tutto il mese di luglio sui bollettini dello Stato Maggiore il nome della valle Daona si ripete. Il 6 luglio gli austriaci attaccano il passo di Campo, fra i contrafforti dell’Adamello. Non riescono, e provano più in basso, più al sud. Tre giorni dopo attaccano il valico di Malga Leno. Vi è nella loro azione come la ricerca affannosa di una apertura, o di una debolezza. Contro Malga Leno operano in forze, con artiglierie da montagna, dopo aver tentato di distogliere la nostra attenzione con un attacco minore, un poco più al sud, contro la cima Boazzolo, una lunga cresta rocciosa che sovrasta torreggiando il corso del Chiese. Il giorno dopo i combattimenti riprendono, ma le nostre punte avanzate hanno la solidità dei dirupi ai quali si aggrampano. Niente le smuove.

Il 28 luglio ci spingiamo all’occupazione del Lavanech, che domina la bassa valle Daona. Dall’altra parte della vallata, dal versante austriaco, le artiglierie tempestano la cima conquistata, e nella notte, dopo una lunga preparazione di medi calibri, la fanteria austriaca appoggiata da numerose mitragliatrici tenta [p. 112 modifica] l’assalto. È respinta. Tutto il ciglio della valle è definitivamente nostro.

Da allora è cominciata questa tranquillità che ci sorprende. Il nemico ha rinunciato ad ogni iniziativa. Si rafforza e aspetta. Sembra persuaso della inutilità dei suoi attacchi e rassegnato ad un compito di vigilanza. Noi ci siamo incrollabilmente insediati sulle posizioni che ci eravamo scelte.

Ma anche nel periodo più attivo della lotta, la quiete alpestre della Giudicaria non doveva apparire troppo turbata. La montagna spezza l’azione in minuscole battaglie isolate, importanti per il risultato e infime per l’ampiezza, faticose, aspre, violente, brevi. La notte, improvvisamente, sopra una balza, la fucileria scintilla e scoppietta, e pochi chilometri più in là, al primo svolto della valle, non si sente nulla. La guerra ritorna lassù a proporzioni antiche ed a forme primitive. L’individuo diventa un’unità importante. Una pattuglia può costituire tutta l’ala di un fronte di combattimento. Il comando non arriva e l’iniziativa personale supplisce.

È risorto nei nostri soldati un istinto guerriero, fatto di scaltrezza e di ardimento; hanno ritrovato un’anima primordiale da cacciatori d’uomini: sono divenuti come se sempre fossero vissuti nella selvaggia solitudine dei boschi; hanno la sensibilità di percezione dell’indiano nella jungla; conoscono tutti i [p. 113 modifica] rumori, tutti i mormorii, tutti i fruscii, tutti gli echi delle valli; sentono la vicinanza del nemico con un orecchio selvaggio. La razza conservava insospettate armi di guerra, delle facoltà combattive discese a noi da remote e gagliarde generazioni conquistatrici. E con esse, la gioia naturale e piena di battersi e di battere.

Le pattuglie partono lietamente, contente; hanno sempre in serbo qualche cosa di nuovo per il nemico. Studiando le abitudini degli avversari, esse inventano tranelli, organizzano sorprese, con il buon umore col quale si prepara una burla. Ne sanno più loro della mentalità austriaca che non tutti i psicologi del mondo. La zona aspra che separa i due fronti è un terreno di agguati, di sorprese, nel quale i nostri soldati hanno scoperto tutta una viabilità invisibile.

Un giorno verso l’imboccatura della valle Daona, un tenente dei bersaglieri scoprì un posto d’osservazione austriaco: una baita che si affacciava alla boscaglia sopra un costone. Si mise alla posta, per vari giorni di seguito, e vide che la pattuglia austriaca nascosta lì dentro arrivava alla prima alba, lasciando una sentinella celata fra le piante, e ripartiva al tramonto. Una notte il nostro tenente prese dieci uomini con sè (fu una gara per seguirlo) e partì.

Prima del giorno i nostri circondavano la [p. 114 modifica] baita. Ecco l’alba, ed ecco la pattuglia austriaca che sbuca, guardinga, e rassicurata penetra tranquillamente nella capanna. Rimane all’esterno il capo, un grosso sergente tirolese, che si mette a passeggiare. Passeggiando non si accorge che qualcuno lo segue, ritmando l’andatura perchè il rumore dei due passi si confonda. È il tenente dei bersaglieri.

Era rischioso quel modo di sorprendere il nemico, ma era elegante. Era italiano. Noi facciamo anche la guerra da artisti. Sarebbe stato facile piombare sulla baita ad armi spianate, ma il tenente voleva vedere la faccia sbalordita e comica del grosso tirolese. Una soddisfazione che poteva costargli la vita, ma che importava?

Dunque l’ufficiale segue il sergente austriaco. Allunga il passo, lo raggiunge e lo tocca leggermente sulla spalla. Il tirolese si volta di scatto e fa un balzo indietro. Stupefatto, allibito, rimane immobile, pietrificato in un gesto di sperdimento, con gli occhi sbarrati, la bocca aperta. Il tenente sorride.

— Ma — balbetta l’austriaco con voce strozzata — ma.... voi siete un ufficiale italiano!

— Perfettamente! — fu la risposta — e questi sono soldati italiani.

Dai cespugli tutto intorno emergevano teste di bersaglieri e baionette. Un minuto dopo la pattuglia austriaca marciava via prigioniera. [p. 115 modifica]

Una spedizione assai più drammatica fu quella compita sul Ponale per interrompere l’impianto elettrico che fornisce energia a Riva, spedizione che fu annunziata con sei parole dal bollettino del 27 giugno.

Non fu per lasciare Riva al buio che venne compita quell’audacissima impresa, ma per estinguere i proiettori austriaci, che la forza elettrica del Ponale accendeva sul fronte fino a Rovereto, e per disarmare i reticolati fulminanti della loro micidiale possanza.

L’impianto elettrico aveva le sue prese idrauliche ad una chiusa del lago di Ledro, vicino a Molina, in fondo alla valle che le nostre posizioni avanzate ora sovrastano. L’acqua in pressione imboccava due enormi tubi accoppiati. Fra i nostri alpini si trovava un operaio che aveva lavorato all’impianto, e che si offrì per guidare la spedizione.

Partirono in cinque. I loro nomi erano stati tirati a sorte. Alla compagnia schierata il capitano aveva domandato cinque volontari, dopo avere spiegato i rischi dell’impresa; ma all’ordine di «chi vuole andare faccia un passo avanti» tutta la compagnia fece un passo avanti, con tanta regolarità di manovra che l’ufficiale credette di essere stato frainteso. «No, no — gridò — capitemi bene, quelli che si offrono escano dalle righe!» E la compagnia intera, [p. 116 modifica] per essere ben capita anche lei, fece due passi avanti. Così si ricorse alla sorte.

Si trattava di attraversare gli avamposti del nemico e di andare a lavorare fra i suoi accantonamenti. Per lunghi giorni i sentieri erano stati ricercati e studiati. Il piano dell’impresa era completo. Ognuno dei cinque aveva un compito preciso, stabilito prima. Alla partenza, l’ordine fu di non parlare fino al ritorno, di non aprire bocca qualunque cosa avvenisse.

I cinque muti lasciarono il campo in una notte di bufera, oscurissima. Discendevano per le forre del Martinel da sterpo in sterpo, quando si trovarono a qualche metro da una pattuglia austriaca. Aspettarono lungamente, immobili, coricati fra i rovi. La pattuglia austriaca passò.

Poco lontano dalle chiuse, i tubi dell’acqua facevano un gomito. Ogni soldato aveva sulle spalle dei sacchi di sabbia e un carico di gelatina esplosiva. Arrivati a quel punto, senza una parola, deposero tutto in terra. Quattro di loro si allontanarono in direzioni prestabilite e si sdraiarono vigilando. Rimase uno solo ad eseguire il lavoro di mina: l’operaio. La pioggia s’era calmata, e s’intravvedevano le nubi basse che fuggivano tumultuosamente verso il Garda. Una finestra illuminata, vicina, alle prime case di Molina, pareva spiare nella notte. [p. 117 modifica]

Sotto al gomito delle tubature, l’artiere alpino, attentamente, con una lentezza eroica, disponeva gli esplosivi, e con i sacchi di sabbia, messi tutto intorno, formava la camera di scoppio. Il tempo pareva eterno. Dal villaggio, occupato dagli austriaci, sono salite delle voci. Un cane ululava a cinquanta passi dai nostri, in una fattoria tutta buia. L’alpino minatore si muoveva senza rumore, studiosamente. Cinquanta minuti è durato il lavoro.

Riunitisi a qualche centinaio di metri dalla mina, i cinque soldati hanno aspettato immobili lo scoppio. L’esplosione è avvenuta senza fragore. È stato un tonfo sordo e profondo, seguito da uno scroscio violento di cateratta. La massa d’acqua irrompeva precipitosamente dalle tubature spezzate. Poco dopo essa arrivava con impeto al villaggio, inondandolo. Gli austriaci sono stati svegliati dalla piena negli accantonamenti e nelle tende, e un urlo immenso di terrore è salito dalla valle.

Senza una parola, sempre muti, gli alpini hanno ripreso la via del ritorno; hanno ripassato la linea degli avamposti austriaci in allarme; sono arrivati alla punta dell’alba all’accampamento, affranti di stanchezza e d’emozione.

L’ordine del silenzio era finito, ma uno di loro non parlava più. L’operaio, che aveva compiuto lo sforzo più grande di tensione e di volontà, aveva perduto la favella. Ed egli tace ancora, atono, stupefatto, quieto, avendo dato [p. 118 modifica] in un’ora tutte le energie di una vita, avendo speso in sè stesso, in un sublime dialogo fra la volontà e l’istinto, tutte le eloquenze della sua anima. La fatalità ha voluto suggellare sulle sue labbra il mistero del suo magnifico dramma.

La spedizione è stata ripetuta, ma con altri mezzi. Il danno fatto non era irreparabile, se gli austriaci possedevano tubi di ricambio. E dovevano certamente possederne a Riva. Infatti le nostre ricognizioni hanno potuto vedere un affaccendamento di lavoro intorno alle chiuse del Ledro. Si è pensato quindi a troncare rimpianto idraulico in modo definitivo. Non più pochi uomini, ma un battaglione. Se non si passava di sorpresa si sarebbe passati per forza. Gli zaini dei soldati erano pieni di gelatina esplosiva.

Fuori di ogni sentiero, per i boschi del Carone, la truppa, dopo aver sorpreso di notte i posti avanzati austriaci, ha raggiunto il ponte sul Ponale a Biacesa, un gran ponte in ferro che sosteneva con le sue travate le tubature dell’impianto elettrico. Tre piloni, tre mine. Uno scoppio immane, un lampo accecante, una eruzione di rottami, e il ponte era scomparso.

È una guerra di colpi di mano, nella quale il nemico, più tardo, dimostra una pesantezza e spesso una inumanità teutoniche. In un recente combattimento, piccolo ma accanito, che ha completato il nostro fronte sul Garda, gli [p. 119 modifica] austriaci, che tentavano di resistere all’attacco, mentre si combatteva a brevissima distanza, facevano fuoco sui feriti.

Di tanto in tanto, una volta o due al giorno, la bella quiete della valle Giudicaria è interrotta da un rimbombo di cannonate. Tre o quattro granate austriache arrivano intorno a Condino. Un po’ di fumo, un boato, ed è finito. È il forte di Por che abbaia, accucciato sopra un costone di fronte allo sbocco della valle Daona.

Vi è tutto un gruppetto di forti lì, a quel bivio di valli, ma soltanto quello di Por prende la parola, forse perchè è il più vicino, o forse perchè è il più moderno. Può anche darsi che gli altri forti siano stati disarmati per coronare con le loro artiglierie le posizioni lungo la Daona.

Il forte di Por si vede nettamente. L’erba non è ancora nata sui suoi spalti, che macchiano di una nudità rossastra il fianco del monte, come una frana. Però un muraglione di appoggio laterale delle opere, rimasto scoperto, è sagacemente tinto di verde, ma di un verde tenero inverosimile che non appartiene a nessuna vegetazione di questo mondo. Sulla spianata le cupole di acciaio si profilano basse, cinque calotte che sfiorano appena la superficie. Intorno, il prato e il bosco fanno largo, come arretrando davanti a questa fragorosa intrusione sulla selvaggia bellezza del monte. [p. 120 modifica]

Condino riceve le sue granate quotidiane con quell’aria desolata, esterrefatta e lugubre che hanno i paesi abbandonati nelle zone del fuoco dove, fra le case e per le piccole vie pittoresche la solitudine e il silenzio acquistano una pesantezza tragica. Da ogni porta esala come un alito di angoscia, e pare di sentire nelle abitazioni vuote il senso di un’atroce attesa. Da lontano sembrano vivi questi villaggi. Condino, con le sue case bianche, appare pieno di una campestre gaiezza. Quando vi si entra, l’immobilità di ogni cosa produce una non so quale impressione di gelo, come se l’ombra dei muri raccogliesse un’atmosfera di morte.

Poco più oltre, Cimego; più lontano Castello. Abbandonati anche loro vedono strisciare lungo le case le pattuglie austriache. Questo silenzio, così sinistro nei paeselli, dove inconsciamente noi tendiamo l’orecchio alle voci, è dolce all’aperto. Nella mattinata limpida, sotto al gran sole, la valle è festosa.


Nelle acque del Chiese è un brulicare rosato di soldati che si bagnano e si levano dai loro gruppi canzoni e risate. Altrove si lavora. Si lavora con una letizia che mette in noi una serenità indicibile. Si fanno baraccamenti per l’inverno, si fanno strade, si fabbricano arnesi, si costruiscono persino slitte, che porteranno viveri e munizioni quando tutto questo verde sarà morto e i nevai saranno [p. 121 modifica] discesi fino alla valle. Falegnami, muratori, carpentieri, zappatori, lavorano al sole, cantando. Gli accampamenti che s’inerpicano con un disordine da armenti al pascolo sui prati e sulle boscaglie dei declivi, sono pieni di vita e di allegria. Direi quasi che scendono da essi delle buffate di giovinezza e di vigore.

Se il nemico contasse sulla nostra stanchezza, s’ingannerebbe molto. La guerra ci tempra. Pare che i nostri soldati ritrovino al campo una vita che conoscevano, che amavano e che avevano dimenticata.

Compiono opere meravigliose che la sola forza non può fare senza l’entusiasmo. Il dorso delle più aspre montagne è solcato dalle volute di strade che scalano l’inaccessibile e per le quali l’automobile ascende. Sono centinaia di chilometri. I più grossi cannoni italiani tuonano da vette sulle quali finora non s’era posata che l’aquila. Declivi e rocce, ad altezze vertiginose, sono tagliati dal varco aperto dalla sapienza, dalla volontà, dalla gagliardia dell’esercito, e le strade nuove, simili a venature sui monti, portano come vene un fiotto di vita nostra alle più eccelse altitudini.

Per interrompere la strada di Ampola, quella che va a Riva, gli austriaci hanno fatto crollare in un punto la montagna con tre tonnellate di dinamite. La strada che era incavata nella roccia è scomparsa, e con lei tutta una falda della roccia. Ebbene, si è fatto un ponte che [p. 122 modifica] raccorda i due mozziconi della strada interrotta, un ponte sull’abisso, un ponte di legno, che si aggrampa alla parete, che si appoggia alle sporgenze, che sale lungo la roccia, così grandioso, così solido, che pare un lavoro permanente, e che probabilmente per molti anni reggerà il grave traffico di questo nuovo e antico lembo d’Italia.

Nelle opere delle nostre truppe si rivela una visione monumentale delle cose. Pare che si faccia tutto col pensiero dei secoli. E per lunghi secoli infatti rimarranno su queste montagne le tracce profonde e gigantesche della nostra civiltà in lotta, che affacciandosi sulle sommità delle Alpi vi lascia come degli indelebili solchi di artiglio.