Al fronte/In un ospedale

In un ospedale

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Aspetti della lotta sull'Isonzo Tra lo Stelvio e il Tonale

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IN UN OSPEDALE.

5 agosto.

Sono arrivati improvvisamente. È stato un succedersi affannoso di camions d’ambulanza sulla ghiaia fine dei viali, all’ingresso dell’ospedale chiaro ed elegante come una grande villa; e a mano a mano che venivano discesi dai veicoli, in un affaccendamento pieno di delicatezza e di ordine i feriti erano accolti nel vestibolo, spogliati delle loro uniformi lacere e sporche di sangue disseccato, trasportati con cautela nei letti bianchi che si allineano nelle vaste sale luminose e fresche, dalle cui ampie finestre spalancate giunge appena, simile ad un lontano rombo di marea, il profondo respiro della città. Poi la quiete si è ricomposta nel nitido edificio, e sui volti dei nuovi ospiti si è diffusa a poco a poco una espressione di riposo e di beatitudine.

Il primo sentimento del soldato che arriva in un ospedale è una specie di dolce stupore per l’immobilità soffice e definitiva che lo accoglie. Assapora il benessere della immobilità con aria trasognata. Non parla. Gira intorno uno sguardo mobile, interrogatore, che studia, che cerca di rendersi conto delle cose nuove [p. 82 modifica] che lo circondano e nel quale brilla ancora di tanto in tanto l’esaltazione della lotta.

Il tumulto del combattimento, la foga ardente dell’assalto fulmineamente interrotta da una palla, l’attesa angosciata, inerte e solitaria sul campo, il trasporto all’ambulanza sotto il fuoco, la medicazione, il viaggio, tutto questo si è succeduto così rapidamente che si confonde nella sua mente febbricitante. Per qualche tempo egli stenta a districarsi dal passato. Quello che avviene è troppo poco in confronto a quello che è avvenuto. Il metallo non si raffredda subito appena tolto dalla fornace. L’anima del ferito è ancora incandescente. Un clamore di emozioni si prolunga in lui come un’eco e riempie il silenzio profondo della nuova quiete improvvisa.

Ma questa eco presto si spegne, la calma si fa anche nel pensiero, le impressioni si fissano, le idee si chiariscono, la curiosità incerta, vaga e atona dei feriti non cerca più intorno. Fra letto e letto si annodano dialoghi sommessi.


Nessuno parla della propria sofferenza o s’interessa a quella degli altri. Si parla della battaglia. «Di che reggimento sei? — Del tale fanteria, e tu? — Ah, eravate alla nostra destra. Io sono del tal altro. — Noi attaccavamo sopra San Martino. — Sì, sì, alla nostra destra. Io sono del San Michele». La battaglia li tiene tutti ancora. Il loro spirito rivive [p. 83 modifica] incessantemente i momenti supremi e inebbrianti della lotta, rifà il cammino dell’assalto con ostinazione, quasi cercando di poter proseguire oltre la ferita, oltre la caduta, di andare avanti con gli altri, con i sani, con gli arrivati, con la moltitudine esultante dei vittoriosi.

Spesso, a vederli e ad ascoltarli si dimentica quasi che sono feriti. Si varca la soglia dell’ospedale col cuore stretto, preparati ad uno spettacolo di dolore, e la pietà per i corpi martoriati si attutisce di fronte ad una gagliarda e piena salute delle anime, calda di entusiasmo.

Non somigliano ai feriti delle altre guerre. Ordinariamente, il soldato colpito durante l’azione conosce il duro sforzo della lotta, ma il risultato è per lui vago, impreciso o ignoto, si perde in una rossa nebbia. Il dolore riconduce il combattente nei limiti angusti della sua individualità. Per lui la battaglia si culmina in uno strazio. Rimane spezzata nella percezione del ferito; egli la ricorda come una fiamma spentasi improvvisamente nel sangue. Perciò, generalmente, il ferito è un pessimista. Ma i nostri no.

Non so, pare che non sappiano diventar malati, che si conservino combattenti nell’immobilità penosa delle loro membra, che considerino il colpo ricevuto come un incidente, come una corvée. Rimangono soldati, è in loro l’anima dell’esercito. Distesi nei loro letti, sovente sorridono e scherzano. Gli stessi uomini, se fossero [p. 84 modifica] rimasti feriti nella vita privata, se fossero atterrati così dalle disgrazie del lavoro, riempirebbero le corsìe di lamenti. Dimostrano una forza, uno stoicismo, una serenità, un buonumore, che non erano in tutti, che vengono dall’immensa fusione delle virtù nazionali fattasi nell’ardente crogiuolo della guerra. Sono trasfigurati dalla fierezza e dalla nobiltà d’uno spirito collettivo. Essi rimangono inconsapevolmente eroi di fronte alla tortura fisica come di fronte al nemico. Non si arrendono al male.

Interrogati, raccontano con semplicità rude le loro gesta senza vederne il valore. Pare che parlino di cose di tutti i giorni. Si sente dire: «Sono stato ferito mentre tagliavo un reticolato» nel tono di chi dicesse: «Mi sono fatto male scendendo le scale di casa». Chi si aspettasse delle narrazioni romanzesche rimarrebbe deluso.

L’assalto? Roba da niente. «Tutto sta ad arrivare a una cinquantina di metri dagli austriaci — mi ha raccontato un calabrese ferito alla gamba — perchè fino a cinquanta metri sparano. Poi, giù, Savoiaaa!, e quelli alzano le mani. Ed è finito».

«E che impressione si prova quando si è a cinquanta metri dal nemico? e gli si va addosso?» — gli ho chiesto. La sua faccia abbronzata si è aperta in un largo sorriso mentre egli dava questa risposta imprevedibile: «Eh,... si gode!». [p. 85 modifica]

Per tornare a simili godimenti egli è impaziente di guarire. La sua ferita è un conto personale aperto con gli austriaci, un conto da regolare al più presto. Quando i dottori lo medicano e gli passano i ferri nella piaga, egli nel dolore rugge invettive: «Brutto boia, aspetta, aspetta! Ci sarò anch’io quando t’acciufferemo! Aspetta, assassino, brigante...».

«Ma con chi l’hai? — gli chiesero i medici sorpresi, la prima volta. — «Con chi l’ho?... Con Cecco Beppe!...».


Uno dei feriti, fasciato alla testa, alle braccia, alle gambe, coperto di ecchimosi, è sfuggito miracolosamente dalle mani del nemico. Fu durante la conquista del ciglione sopra....

«Ho avuto paura — dice candidamente — ma una paura! Mica delle fucilate e delle cannonate — corregge subito. — Ah, no!... È andata così: era notte fatta, la mia compagnia stava alla prima linea, fra rocce, scogli, sassi, e buio pesto. Abbiamo sentito un rumore di gente che si avvicinava alla nostra destra. «Fermi ragazzi» — ci fa il capitano. La gente si avvicinava, e noi fermi. Poi tutto ad un botto, un fuoco d’inferno a dieci passi. Erano gli austriaci. Non si distingueva niente. La compagnia ripiegò subito per non essere presa, ma io cercavo gli occhiali. Sì, signore, sono miope, m’erano caduti gli occhiali e li cercavo. E mi sono trovato in mezzo a tre accidenti che mi [p. 86 modifica] acciuffavano urlando certe parole difficili. È allora che ho avuto paura. Che paura! Una paura che mi ha dato la forza d’un leone. Calci, pugni, morsi.... Ma fu un momento. Eravamo sull’orlo d’un precipizio, che io non vedevo. Per non essere trascinati giù, m’hanno lasciato andare. Così sono caduto fino in fondo, ma ero libero. E mi sono conciato così.»

— E poi? — gli hanno chiesto a questo punto.

«E poi, chi lo sa! Devo aver dormito. Quando mi sono svegliato era giorno. Non capivo niente, non sapevo dove ero. Cannonate, fucilate, e, ad un certo punto, su, in alto ho sentito urlare: Savoia! Savoia! Allora ho pensato che dovevo risalire per ritrovare i nostri, e via, piano piano, come una lumaca, tra le pietre. Ho girato così tutto il giorno. Alla fine una voce mi ha gridato: Eh! torna indietro! Dove vai? Da quella parte ci sono gli austriaci! — Ho riconosciuto il maggiore, che mi avvertiva. Allora, naturalmente, sono tornato indietro. Basta, per farla breve, alla mattina dopo ero arrivato sulla strada maestra di Ronchi. Un po’ mi fermavo a riposare e a mangiare l’uva acerba delle vigne, un po’ mi trascinavo. Passavano convogli di munizioni, passavano riserve. Verso le nove m’hanno raccolto..... Cosa? Se ho sofferto molto? No, ero così contento di essere scappato da quelle grinfie!»

Gli sfebbrati, i convalescenti, quelli che si [p. 87 modifica] possono già alzare, vestiti di pijama smisurati, qualcuno zoppicando, qualche altro col braccio al collo, passeggiano nelle corsìe, si aggruppano, conversano a bassa voce, educati, disciplinati, con un’aria da bravi collegiali. Basta un piccolo ordine di una dama infermiera, per vedere i soldati ubbidire con una docilità spontanea e gentile.

Alcuni feriti alle gambe in via di guarigione deambulano sostenuti alle ascelle da un apparecchio a ruote, e l’arto malato, informe nell’ingessatura, inizia così, rigidamente, i primi passi: «Largo, largo! — avverte il ferito sorridendo mentre sospinge la macchina col piede sano — largo che passa l’automobile!». L’apparecchio è anche chiamato velocipede. Lo scherzo fiorisce nella pena. La gaiezza spunta come il bucaneve nel biancore triste dell’ospedale. Una giovialità buona e composta è in tutti i discorsi, trova la sua espressione in ogni dialetto d’Italia. I figli delle più lontane regioni si uniscono qui nella più vera e sentita fratellanza del sangue. Hanno gli stessi entusiasmi, la stessa passione, la stessa speranza di tornare al fuoco.


Sono senza rancore verso la guerra che li ha colpiti. Il loro pensiero torna con compiacenza fra i compagni che si battono, anche nella febbre, anche nel delirio. Un rude alpino gravemente ferito, supino e immobile, ha [p. 88 modifica] voluto scrivere qualche cosa sul ventaglio che gli avevano messo in mano per rinfrescarsi il volto febbricitante. Faticosamente vi ha tracciato col lapis questa frase: «Sempre avanti i bravi alpini per la grandezza della patria!». E, soddisfatto e assorto, egli agita stancamente il ventaglio, come se ascoltasse nel soffio leggero della carta il grido che le ha confidato.

Il suo letto è in fondo ad una grande sala. Ora l’alpino migliora, e sulla lavagna fissata alla spalliera un numero indica che la febbre scema. Quando le sue condizioni erano più gravi ed egli pareva moribondo, arrivò dal suo paese, da Belluno, il padre chiamato di urgenza. Era un grosso montanaro vestito a festa, dall’aria di fattore, con una gran catena d’orologio attraverso il panciotto, la faccia colorita tagliata da un paio di baffoni neri. Commosso, incapace di parlare, le mascelle convulse, gli occhi pieni di lacrime, il padre si fermò ai piedi del letto. E fu il figlio che, sorridendo con le labbra bianche, gli fece coraggio: «Vieni avanti, animo, non temere, vedrai che non è niente, diamine!...».

Questo soldato ritornerà alla vita e alla salute grazie al successo di una difficile operazione che egli ha subìto. Come lui, innumerevoli sono i feriti salvati dalla scienza e dall’abnegazione di chi li cura.

Un risultato così straordinario è dovuto prima di tutto alla perfezione delle prime [p. 89 modifica] medicazioni, fatte spesso in difficili condizioni sul campo, poi alla rapidità del trasporto dei feriti dalle ambulanze agli ospedali — per la quale si sono potuti ricevere a Milano dei feriti caduti il giorno prima sull’altipiano del Carso — e infine alla perizia, all’amore, all’infaticabilità dei medici e degli infermieri ai quali è affidata la cura vera e definitiva.

Se è meraviglioso l’organismo che abbiamo saputo creare nei servizi sanitarî della guerra, più meraviglioso è lo spirito che li anima. Nella lotta ostinata contro la morte, il personale ospedaliero di dottori, di dame volontarie, di suore, non si concede riposo. Le esistenze in pericolo sono difese con un accanimento silenzioso fatto di sacrifici. Se il morale dei feriti è così alto, molto si deve all’atmosfera di protezione affettuosa che li circonda, alla vigilanza attiva e ininterrotta che ognuno sente intorno al proprio male. Il male appare già guarito per il fatto che è così curato. Non ci si pensa più tanto, e la mente vola alle speranze.

Perciò il ferito sorride.