Monte Nero

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Dove il combattimento non ha soste. Il passo di Montecroce La conquista della conca di Plezzo

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MONTE NERO.

21 settembre.

La parola slava krn — che si pronunzia kern — significa «roccioso», e somiglia alla parola zrn che significa «nero». La distrazione di un cartografo ha fatto del Monte Krn il Monte Nero; ha dato a questa vetta mi un nome falso ma indistruttibile, indimenticabile, insostituibile, un nome più noto ora al mondo di quello vero, un nome che è stato pronunziato più volle in tre mesi che l’altro in tre secoli, e che rimarrà, legittimato dalla Storia, battezzato dal sangue.

Il Monte Nero aveva una celebrità nelle guide per la somiglianza singolare del suo profilo a quello di un volto umano, un volto immenso, supino, con la fronte verso il sud, il mento verso il nord. Da lontano, dalla valle di Cividale, oltre i nostri monti si vede, azzurro e alto, quel prodigioso sembiante aquilino da divinità caduta, nel quale molti credono di ritrovare i lineamenti cesarei e solenni di Napoleone. L’apparenza di un viso è così evidente, che gli alpinisti, i frequentatori di vette, chiamano Naso la cima più alla di quella favolosa scultura. [p. 287 modifica]

Avvolto in un pallido sudario di brume, il volto della montagna si levava avanti a noi diafano, inverosimile, terribile, mentre per le vallette della Slavia italiana salivamo verso le alture di Colovrat, che fronteggiano il Monte Nero dalla riva opposta dell’Isonzo. Il monte, nei giri tortuosi del nostro cammino, ci era nascosto sovente dalle pendici vicine, e ci riappariva sempre un po’ più scomposto nel suo profilo umano; la visione svaniva, la magia cessava, l’aspra verità delle rocce distruggeva a poco a poco l’illusione plasmata dalla distanza.

La fronte napoleonica così diventava la cresta di Luznica; il gran mento rotondo diventava la cresta di Vrata; lo sporgere lieve di una ciocca su quella fronte immane diventava la cima di Maznik; e il naso non appariva più che come il pizzo maggiore del monte, una guglia a declivio precipitoso verso Maznik, a picco verso Vrata.

Da queste altezze ondulavano giù le pendici, con vette minori, con un digradare di cime, con quel risollevarsi brusco che hanno spesso i contorni delle montagne come se si pentissero di scendere alle valli e tentassero di tanto in tanto di tornare in su. Erano le pendici di Sleme, al sud, più vicine all’Isonzo, poi quelle di Mrzli, quasi sul fiume. Al nord i costoni discendenti dal Monte Nero si allontanavano dietro le creste del Polonnik, in una maestosa [p. 288 modifica] confusione di dorsi seghettati, di punte nude, che andavano sfumando fino a lontananze incorporee, un oceano di cime rosee e spettrali nella luce mattutina, fra le quali s’indovinavano profonde spaccature di valloni.

Il Monte Nero è la vetta culminante e centrale di una lunga catena quasi parallela all’Isonzo. Attraversato il fiume a Caporetto, che fu occupato il primo giorno della guerra, la nostra azione offensiva si trovò di fronte quella gigantesca barriera, che non ha valichi. Di colpo l’attacco scalò i contrafforti, salì per balze senza sentieri, si portò sotto le vette maggiori, a duemila metri.

Il ponte di Caporetto era stato distrutto dal nemico in ritirata. Le nostre truppe varcarono l’Isonzo su passarelle costruite dal Genio. Quattro giorni dopo, dei temporali violenti gonfiarono le acque; la piena travolse le passarelle. I piccoli reparti che operavano già sulla riva sinistra rimasero isolati. Ma andarono avanti. Il parroco austriaco di Dresniza — paesotto che si adagia tutto bianco sulle falde del Monte Nero — vedendo passare quelle prime magre schiere, senza rincalzi, senza approvvigionamenti, tagliate fuori dall’inondazione, le salutò ironicamente: «Andate pure, non tornerete indietro!». Sapeva che sulle creste dei monti il nemico trincerato aspettava in forze.

L’interruzione del transito sul fiume durò due giorni. La sera del 30 maggio un ponte [p. 289 modifica] di fortuna era già ricostruito sul torbido, largo e vorticoso corso della piena. Passarono le munizioni, passarono i rincalzi. L’occupazione era già quasi ai piedi del picco più alto. Il primo di giugno la punta era conquistata.


Non fu un colpo di sorpresa, questa volta; fu un colpo di manovra. La compagnia austriaca che difendeva l’estrema cima quasi inaccessibile, il naso della montagna, vigilava e combattè. Bisognava appunto che si battesse, per la riuscita del nostro piano. È stata questa una delle battaglie più belle e più singolari della guerra.

Fu in una notte oscura e nuvolosa. Non si poteva sperare di scalare la vetta senza svegliare l’allarme. Si profittò allora dell’allarme. Due spedizioni partirono da una specie di tormentato pianoro roccioso sul quale eravamo trincerati, seicento metri più in basso della cresta. Un piccolo reparto, composto dei più abili scalatori, munito di corde, si diresse verso il fianco settentrionale del picco, cioè, per esser chiari, verso la narice del naso mostruoso, dove la parete precipita quasi a piombo. Un reparto più numeroso si diresse dalla parte meridionale, per ascendere il pendìo più accessibile, il dorso del naso. Era questo il lato meglio difeso e più vegliato dal nemico.

È un lungo piano inclinato, eguale ma scosceso, coperto in parte di erbette tenaci che ora [p. 290 modifica] intristiscono nell’autunno, disseminato di pietre che vi mettono come una sparsa punteggiatura grigia da pittura divisionista. Bisogna inerpicarvisi con l’aiuto delle mani. Chi scivola difficilmente si riprende; non trova dove afferrarsi, rotola nel precipizio, è perduto. L’attacco che saliva per questo declivio vertiginoso non doveva sferrarsi contemporaneamente all’altro, che ascendeva per le balze rocciose e dirupate del versante opposto. Gli scalatori della muraglia avevano il compito arduo e terribile di attirare per i primi l’attenzione e il fuoco degli austriaci, mentre sul pendìo meridionale la vera azione risolutiva si sarebbe preparata silenziosamente.

Per confondere i rumori inevitabili dell’avanzata, fu dato l’ordine alle truppe rimaste sul pianoro inferiore di lavorare a gran colpi di piccone. I soldati picchiavano sodo, a caso, come volessero spezzare la montagna. Un tempestare di picconate echeggiava nelle tenebre fra strisciamenti metallici di pale. Gli austriaci, che ascoltavano dall’alto, sparavano di tanto in tanto qualche fucilata contro quel furore d’operosità, immaginando grandiosi lavori di trinceramento. Dovevano sentirsi rassicurati da tanta febbre di difesa. Improvvisamente i colpi di fucile si fecero più serrati, poi il fuoco si allargò, scrosciò con furore, senza pause, violento, rabbioso, mescolato ad un confuso e lontano gridìo. Giù, nel buio, i soldati che [p. 291 modifica] lavoravano si fermarono, sudati e ansimanti, ed ascoltarono immobili, appoggiati ai picconi, studiando lo scintillamento delle vampe sulla vetta in tumulto.

Il piano si svolgeva con una esattezza meravigliosa. La scalata della balza dirupata era stata scoperta dal nemico quando essa toccava già gli ultimi gradini. Il piccolo reparto assalitore, snodatosi subito fra sporgenze della roccia, si moltiplicò, rispose al fuoco degli austriaci con una fucileria precipitosa, riuscì a dare l’illusione di una massa. Tutta la difesa si portò contro di lui. Quando lo strepito della battaglia parve più alto e intenso, l’oscuro pendìo sassoso del versante meridionale si animò.

Un nero formicolìo vi saliva veloce, una moltitudine d’ombre rampava verso l’estremo lembo di quello spalto immane. Il vero assalto arrivava. Le vedette nemiche lo scorsero, ma era troppo tardi. Il loro grido d’allarme fu coperto dall’urlo trionfale dei nostri, che mettevano piede sulla vetta e si rizzavano per precipitarsi subito avanti, la baionetta bassa. La cima del Monte Nero era presa.


La osservavamo percorrendo la cresta del Colovrat. Non si riusciva a comprendere come su quella aguzza guglia potessero aggramparsi e vivere delle truppe. Qualche nuvoletta rossastra di shrapnell sfumava lungo le sue pareti. Dalla vetta la nostra occupazione, [p. 292 modifica] indicata da sottili e quasi invisibili sgranamenti di rocce prodotti dai lavori di trinceramento, e da qualche minuscola baracca di rifugio rannicchiata al coperto dietro a delle anfrattuosità, prosegue al sud, scende in quell’avvallamento che da lontano formava l’incavo del ciglio sul profilo del gran volto, e s’inoltra sulla fronte, cioè sulla cresta di Luznica, che i soldati chiamano Monte Rosso per il suo fulvo colore.

A metà della cresta essa ridiscende un poco. Gli austriaci tentarono più volte di scacciarci dalla punta conquistata; lasciarono sul terreno centinaia di morti, disseminati in ogni balza. Non riuscendo a riprendere la cima, si rafforzarono intorno, per barrarci ogni strada.

La montagna si prestava alla difesa, le offriva poderosi baluardi naturali. Il dorso del Monte Nero, dal lato austriaco, è inoltre solcato da strade militari che salgono dal nord, da Plezzo, le quali hanno facilitato un vasto spostamento di truppe e di artiglierie. Al di là del crestone principale, un’altra catena di rudi vette si solleva, vette chiare, strane, che sembrano sfarinarsi in una sabbia grigia di cui i valloni si colmano: sono dette dai soldati le Cime Bianche a causa della loro apparenza. Formano una vera seconda muraglia, vicinissima, sulla quale numerose batterie nemiche si appostano.

Fra lo schieramento delle Cime Bianche e il costone del Monte Nero, in fondo ad un valloncello arido, angusto e selvaggio, è il [p. 293 modifica] passo di Luznica, diventato una via di arrocco per le truppe nemiche lungo l’allineamento delle vette da difendere. Enormi lavori hanno trasformato ogni sentiero in comodi passaggi. Vi si lavora anche adesso, e sui sabbioni cinerei delle Cime Bianche si vede come un formicaio oscuro d’uomini all’opera sulle volute serpeggianti e rosate di nuove strade.

La nostra offensiva lungo le propaggini del Monte Nero urtava contro difficoltà formidabili. I trinceramenti nemici non soltanto si allungavano sulle creste, ma le tagliavano, le attraversavano, a cavallo da un versante all’altro. Non era più possibile manovrare, e bisognava salire all’attacco frontalmente dai declivî, e scendere dalla vetta conquistata lungo la dorsale, da punta a punta, prendendo una dopo l’altra le trincee trasversali, sulle quali poi era difficile mantenersi presi d’infilata dalle Cime Bianche. Ma andammo avanti.


Andammo avanti lentamente, con metodo, contrattaccati furiosamente dopo ogni lieve progresso. Il mese di giugno fu tutta una battaglia lassù. I bollettini ufficiali riflettevano sobriamente questo accanimento. Ogni giorno ci dicevano: «Fiera lotta sul Monte Nero....», «lotta tenace....», «resistenza furibonda....». Il nemico tentava di aggirare le nostre posizioni più alte e più avanzate; non risparmiava sforzi per togliersi dal fianco quel cuneo profondo; [p. 294 modifica] tendeva ad isolare la vetta del monte. Vi impegnava il massimo degli effettivi che la guerra di montagna consenta.

Tentò azioni di sorpresa, ora con due, ora con tre battaglioni. Il 10 giugno lanciò più di sei battaglioni con una ventina di mitragliatrici, per un vallone che sale da Plezzo verso il declivio occidentale del Monte Nero, il vallone dello Slatenik. Alpini e bersaglieri fecero miracoli, con reparti piccoli e risoluti scesero a sbarrare il passo all’avanzata austriaca. La lotta fu lunga, ma l’aggiramento fu sventato. Per consolidare le nostre posizioni fu necessaria la conquista di nuovi punti d’appoggio verso il nord. Da quel momento l’azione nostra comincia risolutamente ad avere Plezzo come obbiettivo.

Plezzo, posto in una conca alla confluenza di valli, ad un nodo di strade, centro di comunicazioni, ci minacciava. Da Plezzo salivano gli attacchi del nemico. Stazione di rifornimenti, base di operazioni, Plezzo riceveva per la via del Predil, al nord, e per la via dell’alto Isonzo, a levante, le truppe e i cannoni che ridistribuiva poi per i valloni risalenti verso le coste del Monte Nero. Prendere Plezzo voleva dire bloccare agli austriaci le più importanti vie di approccio di quel settore, chiuder loro delle porte. La nostra offensiva, che aveva cominciato col dirigersi quasi esclusivamente al sud, per cooperare alle operazioni [p. 295 modifica] che si svolgevano su tutto il corso inferiore dell’Isonzo, si volse allora anche al nord.

Si volse al nord con impeto subitaneo, inaspettatamente. Nella notte del 15 giugno dei reparti alpini scalarono arditamente le difficili balze che si appoggiano da settentrione alla vetta principale. Si avanzava per le cime. All’alba mossero all’attacco della cresta di Vrata. Fu un assalto impetuoso e breve. Un battaglione austriaco, sorpreso, fu sgominato. Alle otto del mattino si erano già fatti trecentoquindici prigionieri, di cui quattordici ufficiali. Alla sera i prigionieri erano seicento, ed avevamo raccolto un largo bottino di fucili, di munizioni, di mitragliatrici. Perduta la posizione, gli austriaci vi concentrarono un intenso bombardamento. I nostri resisterono.


Il giorno dopo si svolse il famoso episodio del battaglione ungherese.

Supponendo forse che il bombardamento avesse sufficientemente preparato un contrattacco, il nemico lanciò alla riscossa le sue migliori truppe. Un battaglione magiaro, fresco e sicuro di sè, tentò una manovra di aggiramento. Partito da un punto detto Planina Polju, a levante del Monte Nero, non lontano dal Passo di Luznica, si diresse nella notte verso il nord, nel vallone, andò a cercare un varco oltre Vrata, attraversò la cresta quasi sotto alla punta di Vrsic, un chilometro e [p. 296 modifica] mezzo circa oltre la nostra estrema posizione, discese sul versante occidentale del monte, e volse al sud per compiere il suo avvolgimento. La manovra avviluppante era per due terzi eseguita. Non v’era che un piccolo ostacolo da superare per condurla alla fine. Una magra compagnia italiana sbarrava la strada a Za Kraju, fra il massiccio del Monte Nero e quello del Polonnix.

Era trincerata sopra ad un’altura, senza reticolati, senza blindature, con dei bassi parapetti tirati su in fretta e furia. La mattina era già inoltrata quando il battaglione ungherese incominciò l’attacco.

Avanzava con ordine e risoluzione, in varî ranghi aperti e regolari. Nessun colpo di fucile lo accolse. Fu presto a mille metri dai nostri: il silenzio continuava. La posizione pareva deserta. Rinfrancati, i nemici salivano come in manovra. Forse essi immaginavano gl’italiani già fuggiti. Una quiete profonda e terribile.

La distanza diminuiva. Ottocento metri: silenzio. Seicento metri: silenzio. A mano a mano che si avvicinavano, salendo da una base verso una vetta, le schiere nemiche andavano forzatamente serrandosi. Gli spazî sparivano; le linee di assalto, dapprima distese in catena, restringevano gl’intervalli, cominciavano a formare massa. Cinquecento metri: silenzio. Si levò il vocìo degli assalitori, che coprivano [p. 297 modifica] ormai tutta la costa del loro affollamento. Quattrocento metri: silenzio....

Nelle feritoie delle trincee italiane tutti i fucili erano spianati.

Con voce pacata il capitano ripeteva i suoi ordini; «Tutto l’alzo abbattuto! — Attenti a mirare basso! — Siate pronti!». Immobili, impetrati, i soldati puntavano, la testa inclinata, sul calcio del fucile. La terra, intorno, era cosparsa di pezzi di cartone, avanzi delle grige scatole di munizioni aperte e vuotate. Ognuno aveva preparato presso a sè un mucchio di caricatori. Inginocchiati vicino alle mitragliatrici i serventi aspettavano pronti con le cinghie di ricambio, e il puntatore, le dita attanagliate alle maniglie, sfiorava con il pollice la molla di scatto. «Pareva — racconta un ufficiale — un museo di statue».

Trascorse ancora quasi un minuto, una eternità. Si distinguevano già le facce accese dei nemici con le bocche aperte, in un balenìo di baionette. Il capitano non aveva più bisogno del binocolo per guardare; fissava l’assalto con occhio grave, freddo, calcolatore. Poi con una parola scatenò la morte: Fuoco! L’assalto era arrivato a meno di trecento metri.

Una scrosciante bufera di piombo rasentò i declivî. Parve che una falce immensa e invisibile passasse e ripassasse su quel mobile e tumultuoso campo azzurrastro d’uniformi. Le prime file caddero, si abbatterono di colpo. [p. 298 modifica]

L’avanzata oscillò, rallentò, il grido del nemico divenne un urlo di furore, alto, feroce. L’assalto era così vicino che, dopo un istante di incertezza, i nemici intuirono l’impossibilità di ritirarsi sotto a quel fuoco lungo la costa prativa e scoperta. Si buttarono di nuovo avanti, impetuosamente. Pochi passi ancora, e la schiera più avanzata non esisteva più. L’attacco si fermò definitivamente in una tragica e disperata confusione.

Il piombo mieteva sempre. L’erba si costellava di corpi. Anche i vivi, gl’incolumi, si gettarono a terra scavandosi in fretta dei ripari, e cominciarono a rispondere al fuoco, disordinatamente.

Allora un grido formidabile echeggiò sulle trincee: i nostri scavalcavano i parapetti. Era il contrattacco. Precipitarono giù alla baionetta. Ogni resistenza cessò. I nemici che avevano ancora un po’ di forza sollevarono le mani. Del battaglione non rimanevano che poche centinaia di uomini inebetiti dal disastro. Non uno potè fuggire.

Il colonnello che comandava la colonna, un fiero magiaro dai baffi brizzolati, fatto prigioniero, si muoveva come un automa, dignitoso e pallido, con una stupefazione negli occhi; ma ogni tanto si fermava, si accasciava e piangeva. Quando entrarono nelle zone abitate, giù nella valle, i soldati che lo scortavano si munirono di una poltrona e se la portavano [p. 299 modifica] dietro per porgerla al prigioniero nei momenti di sosta, quando la crisi di dolore lo fermava, trasognato e lagrimante. Con quel nobile rispetto verso i vinti che hanno i nostri soldati, intorno all’ufficiale nemico sconvolto dalla sconfitta si faceva un cerchio di silenzio generoso.


Nei giorni successivi noi proseguimmo le operazioni per dominare le strade provenienti da Plezzo. Furono giorni di nebbie, di temporali, di alluvioni. Si battagliava fra le nubi. Il 20 giugno, l’occupazione si consolidava oltre la punta Vrata. Dopo ogni nostro passo avanti, un contrattacco austriaco. Il 21, per ricacciarci dalle vette comparvero sul campo per la prima volta forze rilevanti di cacciatori tirolesi, gli alpini del nemico, con i petti pieni di medaglie guadagnate sui Carpazi. I nostri non aspettarono l’urto, si gettarono avanti, attaccarono, respinsero i tirolesi infliggendo loro gravi perdite, ne catturarono alcuni.

Le avanzate più rapide nostre sono state quasi sempre favorite dagli attacchi nemici. È l’inseguimento che ci porta più in là. Finchè gli austriaci si difendono nelle loro trincee invulnerabili, protetti da numerose artiglierie nascoste, rannicchiati nei buchi dietro ai reticolati, la lotta è faticosa, dura, lenta. Ma se escono fuori, se si mostrano, se manovrano, l’azione scatta, si sposta, insinua più avanti dei tentacoli che si appigliano su posizioni [p. 300 modifica] nuove. Così l’attacco dei tirolesi ci portò ancora verso il nord. Il 23 giugno ci piantavamo definitivamente sulle pendici orientali dello Javorcek. Vedevamo finalmente Plezzo sotto di noi, a quattro o cinque chilometri. Quel giorno stesso la nostra artiglieria iniziò il tiro sulla conca di Plezzo.

Lo Javorcek, tutto coperto di boschi, è l’ultima montagna al nord del sistema del Monte Nero, e sovrasta Plezzo da sud-est. Risalendo l’Isonzo da Caporetto, avevamo fin dai primi giorni occupato senza troppa fatica le creste del Polonnik, che dominano Plezzo da sud-ovest, e intorno alle falde del quale l’Isonzo gira, fa un gomito brusco e rimonta ad angolo acuto verso levante, per attraversare la conca di Plezzo passando ai piedi dello Javorcek. L’occupazione della Sella Prevala, alla testata della Valle Raccolana, eseguita all’inizio delle ostilità, ci aveva portato ad affacciarci anche da occidente sugli altissimi bordi della conca di Plezzo. Alla fine di giugno il nostro investimento intorno a Plezzo si delineava dunque a semicerchio sull’anfiteatro delle alture. Qui le nostre operazioni sull’alto Isonzo davano la mano, per così dire, a quelle della Val Raccolana, e della Val Dogna, di cui abbiamo parlato in un precedente capitolo.

Gli austriaci, che avevano lasciato gran parte di questa zona ancora scoperta alla manovra, sperando di difenderla con azioni di [p. 301 modifica] movimento, si affrettarono a chiuderla da ogni parte con le loro opere di fortificazione. Scavarono, costruirono, portarono decine di migliaia di prigionieri russi al lavoro, fecero sorgere da ogni parte trinceramenti, ridotti, appostamenti. Eretta una prima linea di difesa, eressero una seconda, poi una terza, e tutti i declivî, tutte le vette, apparvero solcati dai sommovimenti del suolo. Non si fidavano più dell’appoggio dei forti costruiti allo sbocco della gola di Predil. Avevano visto crollare il forte Hensel a Malborghetto, e non avevano una maggiore confidenza nel forte Hermann e nelle batterie corazzate costruiti nella chiusa di Coritnica a difesa di Plezzo. Facevano intanto nuove strade, moltiplicavano gli approcci e le vie coperte.

Masse di soldati e di materiale affluivano a Plezzo. Il villaggio di Coritnica, nella conca, era tutto un magazzino. Le nostre granate riuscirono a incendiarlo il primo luglio. L’attività nemica intorno a Plezzo è successivamente annunziata da vari bollettini del nostro Stato Maggiore. L’interesse della lotta si sposta dalle vette del Monte Nero. Un’ultima battaglia si sferra lassù il 22 luglio.


In quel giorno la nostra offensiva riprese di colpo la via del sud, scendendo dalla vetta. Gli alpini avanzarono lungo l’aspra cresta di Luznica, rocciosa e nuda. Per [p. 302 modifica] ritornare ad una immagine che può dare una visione sommaria dei luoghi, ricordiamo che la cresta di Luznica appare da lontano la fronte nel profilo umano della montagna. La lotta fu ostinata, il progresso lento. Si combatteva delle ore per il possesso di un masso, di una sporgenza, di un incavo. L’artiglieria austriaca batteva sui nostri da levante. L’artiglieria italiana batteva sul nemico da ponente. La roccia fu così tempestata dalle granate che si coprì a macchie di un colore rossiccio di sfaldature, vivace e muovo. Per questo forse la cresta è riconosciuta ora dai soldati col nome di Monte Rosso.

La lotta continuò il 23 luglio. Conquistammo al nemico i punti più avanzati. Il 24 gli austriaci tentarono di riprenderli. Dopo un lungo e intenso bombardamento sferrarono tre assalti consecutivi. Furono respinti. Il 25 riprendemmo l’attacco. Il 26 tutte le vette erano nelle nubi; si combatteva in una nebbia folta e gelata, senza vedersi. L’assalto nostro arrivò al bordo di un gigantesco reticolato, di fronte ad una formidabile trincea. Gli alpini si radicarono lì.

L’artiglieria quel giorno era muta; quando il sole ricomparve i due avversari erano troppo vicini perchè il cannone osasse intervenire. Ed ora, alla metà del crestone, i trinceramenti si fronteggiano ancora, a pochi passi l’uno dall’altro, con un solo reticolato fra loro, un [p. 303 modifica] reticolato in comune che serve per tutti e due. Quando il tempo è limpido, si scorge anche da lontano, sul contorno cupo delle rocce, la selva minuta, regolare e folta dei paletti, in una impercettibile nebbia di fili, fra la rossastra confusione del pietrame scavato.

Ma qui la lotta ora sosta. Qualche cannonata solitaria, la nube di uno scoppio qua e là, di tanto in tanto, e lunghe ore di silenzio profondo. Di fronte al Monte Nero la vallata dell’Isonzo, tutta boscosa, variopinta da un primo ingiallire di foglie, cosparsa di villaggi minuti e chiari giù vicino al fiume, rigata da fili bianchi di strade deserte, è tutta piena della maestà d’un riposo. Dove sono le truppe? Non si vede nessuno. I villaggi sembrano solitari. E queste zone non furono mai abitate come ora, non contennero mai tanta moltitudine umana.

Dove noi sappiamo che gli eserciti si addensano, non si vedono che delle linee sottili di terriccio, che sembrano bordi di fossati, e confusioni strane di sterro. Se ne scoprono una dopo l’altra a centinaia di quelle rigature fulve, che ondeggiano in ogni senso, corrono le vette e i dorsi delle colline, solcano il verde dei prati, scendono i costoni, si moltiplicano, s’intrecciano, s’intersecano, si scostano, si ritrovano, e questo senza fine, ovunque lo sguardo frughi. Bisogna che degli ufficiali vi indichino quali sono le nostre trincee e quali le [p. 304 modifica] loro, tanto esse si avvicinano in certi punti e si confondono in uno sconvolgimento unico del suolo. È sulle vette, principalmente, che questo contatto incalzante si delinea. Nella immobilità dei solchi la lenta azione si disegna. Si scopre una eloquenza di tratteggi e di linee; vi sono argini rigidi che si difendono e argini ondulati che assaltano, arrampicandosi, serpeggiando, tendendo avanti con qualche cosa di duttile, di tortuoso, d’insistente.

Se non abbiamo le creste dei contrafforti meridionali del Monte Nero oltre il dorso di Luznica, ne siamo per tutto a pochi metri, là sotto, in posizioni il cui profilo dice una non so quale tenacia costante. Pare da lontano che le trincee stesse si allaccino in una lotta. La nostra linea preme contro la vetta verde dello Sleme, preme contro la vetta pianeggiante del Mrzli boscoso, giù verso Tolmino. Sulla cima del Mrzli le granate hanno sfrondato e potato il bosco; non si vedono più che dei tronchi neri che sembrano schiantati dalla folgore. Gli austriaci hanno allacciato a questi ceppi, che hanno nella distanza una parvenza umana, i fili di ferro dei loro reticolati. Appena al di qua, dove la boscaglia si rinfoltisce, sono i nostri, invisibili. Più in basso, fra delle rocce, qualche minuscolo rifugio si scopre, ma nessun uomo, nessun movimento. Ogni vita è sepolta.

Al rovescio delle alture della riva destra, [p. 305 modifica] si passa vicino alle tracce di vasti accampamenti; al posto di ogni tenda è rimasto sui prati un quadrato di terra smossa contornato dalle pietre che tenevano fermi i lembi della tela. I battaglioni innumerevoli che gremivano quelle vallette sono scomparsi alla vista, avanzando, come per un incantesimo. Arrivando in mezzo ad un esercito, nella zona delle battaglie, non troviamo più che i segni delle sue soste, i funebri allineamenti degli oscuri quadrati di terra smossa che fanno pensare a miriadi di tombe nelle solitudini di un paese abbandonato. Un po’ per tutto le granate hanno aperti slabbrati crateri.

Un rombo di cannonate veniva ad intervalli dal nord, ora intenso, ora stanco, con momenti di sosta e riprese furibonde. È a Plezzo che si combatte ora, e forse dalle alture di Saga, dove un altro giorno andremo, potremo spingere lo sguardo nella conca famosa che abbiamo fatto nostra.