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lavoravano si fermarono, sudati e ansimanti, ed ascoltarono immobili, appoggiati ai picconi, studiando lo scintillamento delle vampe sulla vetta in tumulto.

Il piano si svolgeva con una esattezza meravigliosa. La scalata della balza dirupata era stata scoperta dal nemico quando essa toccava già gli ultimi gradini. Il piccolo reparto assalitore, snodatosi subito fra sporgenze della roccia, si moltiplicò, rispose al fuoco degli austriaci con una fucileria precipitosa, riuscì a dare l’illusione di una massa. Tutta la difesa si portò contro di lui. Quando lo strepito della battaglia parve più alto e intenso, l’oscuro pendìo sassoso del versante meridionale si animò.

Un nero formicolìo vi saliva veloce, una moltitudine d’ombre rampava verso l’estremo lembo di quello spalto immane. Il vero assalto arrivava. Le vedette nemiche lo scorsero, ma era troppo tardi. Il loro grido d’allarme fu coperto dall’urlo trionfale dei nostri, che mettevano piede sulla vetta e si rizzavano per precipitarsi subito avanti, la baionetta bassa. La cima del Monte Nero era presa.


La osservavamo percorrendo la cresta del Colovrat. Non si riusciva a comprendere come su quella aguzza guglia potessero aggramparsi e vivere delle truppe. Qualche nuvoletta rossastra di shrapnell sfumava lungo le sue pareti. Dalla vetta la nostra occupazione, indi-