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monte nero 287


Avvolto in un pallido sudario di brume, il volto della montagna si levava avanti a noi diafano, inverosimile, terribile, mentre per le vallette della Slavia italiana salivamo verso le alture di Colovrat, che fronteggiano il Monte Nero dalla riva opposta dell’Isonzo. Il monte, nei giri tortuosi del nostro cammino, ci era nascosto sovente dalle pendici vicine, e ci riappariva sempre un po’ più scomposto nel suo profilo umano; la visione svaniva, la magia cessava, l’aspra verità delle rocce distruggeva a poco a poco l’illusione plasmata dalla distanza.

La fronte napoleonica così diventava la cresta di Luznica; il gran mento rotondo diventava la cresta di Vrata; lo sporgere lieve di una ciocca su quella fronte immane diventava la cima di Maznik; e il naso non appariva più che come il pizzo maggiore del monte, una guglia a declivio precipitoso verso Maznik, a picco verso Vrata.

Da queste altezze ondulavano giù le pendici, con vette minori, con un digradare di cime, con quel risollevarsi brusco che hanno spesso i contorni delle montagne come se si pentissero di scendere alle valli e tentassero di tanto in tanto di tornare in su. Erano le pendici di Sleme, al sud, più vicine all’Isonzo, poi quelle di Mrzli, quasi sul fiume. Al nord i costoni discendenti dal Monte Nero si allontanavano dietro le creste del Polonnik, in una maestosa