È tutto bene quel che a ben riesce/Atto secondo

Atto secondo

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ATTO SECONDO


SCENA I.

Parigi. - Una stanza nel palazzo del Re.

Entra il Re con due giovani signori venuti a prendere da lui licenza d’andare alla guerra fiorentina; Beltramo, Parolles e seguito.

Re. Addio, giovine nobile; non obbliate mai questi sentimenti guerrieri. — Addio voi pure, signore. Valetevi del mio consiglio entrambi, perocchè tale egli è che ad entrambi può estendersi.

Signore. Noi speriamo, sire, che dopo che ci saremo formati al mestiere della guerra, ritorneremo alla vostra Corte, e vi troveremo la salute di Vostra Maestà assai rimessa.

Re. No, no; ciò è impossibile, e nondimeno il mio cuore non vuol lasciarsi abbattere dalla malattia incurabile che mi fa guerra. Addio, giovani, ch’io viva, o ch’io muoia mostratevi veri figli di questa bellicosa Francia. L’Italia riconosca, con suo rossore, quanto valenti siete, e la fama pubblichi per tutto i vostri nomi. Anche una volta addio, e siate felici.

Signore. La salute dipende dai cenni di vostra Altezza!

Re. E siate cauti contro le fanciulle d’Italia: si dice che i nostri Francesi non sappiano come schermirsene; guardatevi dall’esser prigionieri prima d’esser soldati.

Entrambi i signori. I vostri saggi consigli sono scolpiti nei nostri cuori.

Re. Addio. — Assistetemi. (si ritira dietro a certe cortine per coricarsi)

Signore. Oh mio caro Beltramo! dovremo lasciarvi dietro noi?

Par. Non è sua colpa.

Signore. Questa è nondimeno una gran guerra.

Par. Ammirabile: di tali ne ho vedute.

Bel. Ebbi comando di restar qui, mi fu detto che ero troppo forte, e che andrò l’anno prossimo.

Par. Se ciò vi sta tanto a cuore, partite senza congedo.

Bel. Ebbi comando di restar qui per combattere da celia fino [p. 290 modifica]a che tutti gli allori siano mietuti da quel campo a cui agogno? Per l’anima mia! fuggirò.

Signore. Onorata sarebbe tal fuga.

Par. Effettuatela, conte.

Signore. Vengo con voi; e quindi addio.

Bel. Io vi amo, e tale separazione è dolorosa.

Signore. Addio, capitano.

Signore. Addio, messer Parolles.

Par. Nobili eroi, la mia spada e le vostre sono parenti. Prodi signori, una parola. Voi troverete nel reggimento de’ Spinii certo capitano Spurio con una cicatrice sulla sinistra gota, marchio di guerra che la mia spada gli stampò: ditegli ch’io vivo, e attendete a quello ch’ei vi dirà di me.

Signore. Così faremo, nobile capitano.

Par. Marte vi protegga come suoi discepoli! (i signori escono) Ora che volete voi fare?

Bel. Tacete; il re..... (vedendolo sorgere)

Par. Protraete di più le vostre cerimonie con quei signori; la formola del vostro addio è stata troppo laconica. Siate più aperto con essi, perocchè e’ sono i corifei della moda, e rivelano al mondo il bel linguaggio e il bel portamento, e posseggono tutte le grazie del giorno. Correte a raggiungerli, e salutatela con più calore.

Bel. Così voglio fare.

Par. Degni garzoni, che diverranno ottimi spadaccini. (escono; entra Lafeu)

Laf. Perdono, signore, (inginocchiandosi) per me e per le mie novelle.

Re. Te l’accorderò se ti alzi.

Laf. Voi vedete dunque qui un uomo che ha ottenuto il suo perdono. Vorrei, sire, che foste in ginocchio chiedente la grazia mia, e poteste ad un mio cenno, con me, rialzarvi.

Re. Io pure lo vorrei: così ti romperei la testa e te ne chiederei poscia perdono.

Laf. In verità sarebbe stato ben male a proposito. — Mio caro sovrano, ecco quello che volevo dirvi: volete esser guarito delle vostre infermità?

Re. No.

Laf. Oh! non volete mangiare uva, mia regia volpe? Ha a ciò ben vi deciderete. Ho veduto un medico che è capace di infonder vita ad una pietra, ad uno scoglio, non che ad un infermo. Il suo solo tatto varrebbe a risuscitare il re Pipino, o a [p. 291 modifica]far prendere al gran Carlomagno la penna per iscriverle una lettera d’amore.

Re. Scriverle?

Laf. Sì, perchè è una medichessa: ell’è qui venuta, se volete vederla. Sull’onor mio, quando da sì pazzo esordio proceder si possa a discorso grave, vi dirò che ho avuto un colloquio con un individuo che pel suo sesso, per la sua giovinezza, per la dichiarazione del motivo del suo viaggio, pe’ suoi savi ragionamenti, e per la costanza della sua risoluzione, ha risvegliata in me più meraviglia ch’io non ardirei confessarne per tema di non venir riputato goffo. — Volete vederla, sire, (che ciò ella chiede con ardore) e sapere cosa domanda? poscia schernitemi a vostro senno.

Re. Via, Lafeu, introduci questa tua nona meraviglia, onde possiamo dividere la tua ammirazione, o guarirtene, screditando ]a tua demenza.

Laf. Oh! fra breve penserete come me. (esce)

Re. Così i suoi lunghi prologhi riescono sempre a nulla. (rientra Lafeu con Elena)

Laf. Entrate, entrate.

Re. Non andrebbe più celere quando avesse l’ali.

Laf. Entrate. Ecco Sua Maestà; dichiarate le vostre intenzioni; voi avete un bel volto, ma Sua Maestà non teme tale specie di traditori. Io sono eguale a Pandaro, lasciandovi insieme. Addio. (esce)

Re. Ebbene, vaga fanciulla, è con me che volete parlare?

El. Sì, mio buon signore; e Gerardo di Narbona fu mio padre, ben conosciuto per l’arte ch’ei professò.

Re. Io pure lo conobbi.

El. Posso dunque astenermi dal farvene l’elogio, perchè basta che l’abbiate conosciuto. Ora al punto di morte egli mi diede molte ricette, ed una fra le altre, frutto delle sue lunghe elucubrazioni, che mi comandò di custodire come un terzo occhio. Io la serbo infatti colla maggior cura, ed avendo inteso che Vostra Maestà era tocca dalla fatal malattia cui solo il rimedio di mio padre poteva guarire, son venuta ad offrirvelo col mio soccorso nell’umiltà del mio affetto profondo.

Re. Vi ringraziamo, giovine bellezza, ma non possiamo esser sì creduli in fatto di guarigioni quando tutti i nostri più dotti medici ci abbandonano, e l’intero collegio ha deciso che i mille sforzi dell’arte riescirebbero inutili contro questo nostro incurabile languore. Dico che non dobbiamo disonorare il nostro [p. 292 modifica]giudizio, nè lasciarci sedurre da una pazza speranza, tanto da prostituire a stolti empirici la nostra infermità giudicata incurevole: un re non deve oscurare con una debolezza la sua fama fidando in un soccorso insensato, quando è convinto che non debbe più pensare ad alcun soccorso.

El. Il mio zelo mi risarcirà delle mie fatiche. Di più non vi infesterò per farvi accettare i miei ufficii, e chieggo umilmente a Vostra Maestà una lieve parte della sua stima, accomiatandomi.

Re. Non posso darvi di meno volendo essere giudicato riconoscente. Voi aveste la volontà di soccorrermi, ed io vi fo quei ringraziamenti che un uomo in punto di morte esprime a coloro che intercedono per la sua vita. Ma voi non avete alcuna cognizione di quello ch’io so benissimo; io conosco tutto il mio pericolo, e voi non potete aver per esso alcun rimedio.

El. Ve n’offro uno che non è affatto pericoloso, poichè avete riposta la vostra quiete nell’opinione che sia incurabile il vostro male. Quegli che compie i maggiori prodigi, li compie spesso colla mano del più debole ministro: così la Sacra Scrittura ne addita oracoli di saviezza usciti dalla bocca dell’infanzia, e in casi in cui canuti giudici non erano essi medesimi che fanciulli. Mentre i più savi dei mortali negavano i miracoli, si videro grandi correnti escire da poveri rigagnoli, e vasti mari inaridirsi. Spesso l’aspettativa vien meno quando par più ragionevole; e spesso ha effetto allorchè ogni speranza è morta.

Re. Non debbo ascoltarvi. Addio, graziosa fanciulla. Le vostre fatiche non essendo computate, toccherà a voi il pagarvene. Offerte che non si accettano, non han per mercede che un ringraziamento.

El. Così un servigio ispirato dal Cielo vien rifiutato! Presunzione è il riguardare un soccorso del Cielo come opera umana. Re, secondate il mìo zelo, e fate esperimento del Cielo, e non di me. Io non sono un impostore che bandisca una cosa ch’io stessa non creda: io credo e so, ch’è sicuro che la mia arte è efficace, e che voi potrete ricuperare la salute.

Re. Parlate con tanta fiducia? e in quanto tempo pensata guarirmi?

El. Se l’autor supremo delle grazie mi seconda, prima che i cavalli del sole abbian fatto percorrere al suo carro infiammato due volte lo spazio d’un dì; prima che l’umido espero abbia per due volte estinta la sua lampada nei foschi vapori d’occidente; prima che l’orologio a polvere del piloto abbia segnato ventiquattro volte il rapido trascorrere dei minuti, ciò che v’ha [p. 293 modifica]di male in voi sarà disperso, e la vostra salute riprenderà il suo libero vigore.

Re. Qual pegno mi date di ciò?

El. Il disonore dell’impudenza, ch’è proprio solo delle prostitute; così venga diffamato il mio nome s’io mento; e il mio corpo, coperto d’ignominia, sia cruciato colle più crudeli torture.

Re. Mi sembra udire uno spirito celeste che parli per vostra bocca. Ciò che parrebbe impossibile alla ragione, possibile e ragionevole somiglia a quelli che v’ascoltano. La vostra vita è d’un gran prezzo; perocchè tutto ciò che la vita ha di caro, tutto ciò che la fa amare, voi lo possedete, giovinezza, beltà, virtù, coraggio, senno; quanto la felicità, o la primavera della esistenza possono dare, voi l’arrischiate, ed è per parte vostra un indizio evidente o d’una scienza infinita, o della maggior disperazione. Amabile medichessa, vuo’ esperimentare il vostro rimedio, che s’io muoio, vi dà morte.

El. Se non adempio la mia promessa nel tempo prescritto, o se ad essa manco, fatemi uccidere senza pietà, e la mia morte sarà ben meritata. S’io non vi risano, ne vada di mezzo la mia vita; ma se ciò fo, qual ricompensa mi accorderete?

Re. Domandate.

El. Accorderete poi?

Re. Lo giuro pel mio scettro, e per tutte le speranze che ho del Cielo.

El. Ebbene, colla vostra mano reale voi mi farete dono dello sposo ch’io vi chiederò, e che sarà in poter vostro di darmi. Io non avrò la stolta presunzione di sceglierlo del sangue reale, e di voler perpetuare l’oscuro mio nome con un rampollo, con un’immagine della vostra augusta famiglia; ma avrò la libertà di chiedere, e voi quella d’accordarmi uno dei vostri vassalli ch’io ben conosco.

Re. Ecco la mia mano: adempite le vostre promesse, il voler vostro avrà effetto; onde fermate a grado vostro il termine, perocchè io malato vostro, mi fido interamente di voi. Dovrei interrogarvi di più... sebbene, quand’anche di più sapessi, non potrei confidare in voi maggiormente;... dovrei domandarvi di dove venite, e chi v’a condotta alla mia Corte; ma siate la ben giunta, senz’altre inchieste, e abbiate un ottimo accoglimento privo d’ogni sospetto. — Datemi qualche refrigerio. — Oh! se i vostri successi s’adeguano alle promesse, la mia ricompensa eguaglierà il benefizio che mi fate.

(squillo di trombe; escono)

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SCENA II.

Rossiglione — Una stanza nel palazzo delia Contessa.

Entrano la Contessa e il Villico.

Cont. Vien qua, amico; vuo’ vedere fin dove s’estenda la tua scienza del ben vivere?

Vil. Vi farò vedere che sono assai ben nutrito, e molto male allevato; io so che i miei affari son solo alla Corte.

Cont. Solo alla Corte! E qual altro luogo v’ha di maggiore importanza?

Vil. In verità, signora, se Iddio concede a un uomo buoni costumi, ei può facilmente disfarsene quando va in Corte. Quegli che non sa fare una riverenza, cavarsi il cappello, baciar la mano, e dir nulla, non ha nè gambe, nè mani, nè bocca, nè testa, e in fede mia tal uomo non è fatto per la Corte, ma per me ho una risposta di cui ognuno potrebbe far uso.

Cont. Risposta egregia dev’essere quella che si conforma ad ogni interrogazione.

Vil. È come la sedia d’un barbiere adatta a quanti frequentano la bottega.

Cont. E la tua risposta sarà buona per ogni domanda?

Vil. Così buona, come lo sono dieci monete d’argento per la mano d’un procuratore, com’è una corona francese per una fanciulla vestita di taffetà, come lo è l’anello di giunco di Tib per l’indice di Tom, una buona vivanda pel martedì grasso, una danza mora pel giorno di maggio, la caviglia pel carro, il becco per le sue corna, una donna cattiva per un manto bisbetico, le labbra d’una suora per quelle d’un monaco, come lo è infine il pudding1 per la pelle che lo avvolge.

Cont. E tu hai una risposta che s’adatta a tutte le domande?

Vil. Sì, da quella che può far il duca, fino a quella che far può l’infimo degli uomini.

Cont. Sarà una risposta prodigiosa.

Vil. Una cosa da nulla, se i dotti volessero apprezzarla al suo giusto valore: eccovela con tutte le sue dipendenze. Chiedetemi se son cortigiano, e male non vi farà l’apprenderlo.

Cont. Torniamo giovani se possiamo. Farò la pazza, [p. 295 modifica]interrogandoti, nella speranza che la tua risposta mi renda più saggia. Dimmi dunque sei tu cortigiano?

Vil. Oh Dio Signore... ecco un mezzo sicuro per congedare gl’interroganti. Fatemi altre cento dimande.

Cont. Signore, io sono un’amica vostra, che di cuore vi ama.

Vil. Oh Dio Signore... andate, andate.

Cont. Credo bene, signore, che voi non possiate mangiare di sì rozze vivande.

Vil. Oh Dio Signore... cruciatemi pure a vostro senno.

Cont. Voi foste non ha molto frustato, credo.

Vil. Oh Dio Signore... procedete, procedete.

Cont. Gridate voi, oh Dio Signore e procedete, allorchè sentite la frusta? Infatti il vostro: oh Dio Signore, sta bene in quelle circostanze: alle frustate rispondereste a dovere se foste obbligato a farlo.

Vil. Non ho mai avuta tanta disgrazia in vita mia, nel mio oh Dio Signore. Veggo che le cose possono servire lungamente ma non sempre.

Cont. Affè ch’io impiego bene il mio tempo, sperdendolo così con un pazzo.

Vil. Oh Dio Signore... ecco che la risposta qui va bene.

Cont. Finitela, messere, e andate alle vostre occupazioni. Recate ad Elena questa lettera, e pregatela di una subita risposta. Salutate i miei parenti e mio figlio, e siate sollecito.

Vil. Verrò prima delle mie gambe.

Cont. Affrettatevi. (escono da diverse parti)

SCENA III.

Parigi. — Una stanza nel palazzo del Re.

Entrano Beltramo, Lafeu e Parolles.

Laf. E dicono che i miracoli son passati: e noi abbiamo i nostri filosofi per renderne famigliare tutto quello ch’essi non intendono. Da ciò avviene che ci facciamo beffe dei maggiori prodigi, appagandoci di una scienza illusoria allorchè dovremmo inginocchiarci compresi di terrore.

Par. Si, e questa fu una delle più rare meraviglie che si vedesse nei nostri tempi.

Bel. Certamente.

Laf. Essere abbandonato dai medici...

Par. Dai Galeni e dai Paracelsi... [p. 296 modifica] Laf. Da tatti i più dotti e rìconosciuti campioni...

Par. È strano, è strano.

Laf. E lo dicevano incurabile.

Par. È vero, per loro disonore.

Laf. Impossibile ad esser soccorso...

Par. Come un uomo che fosse sicuro...

Laf. Di incerta vita, e di certissima morte.

Par. È vero.

Laf. Posso dirvi che è un fenomeno del tutto nuovo nel mondo.

Par. Così è, così è: e se volete vederlo in rappresentazione, potrete leggere... come si chiama quello scritto?

Laf. Apparizione di un effetto celeste in un attore della terra2.

Par. Appunto.

Laf. Il delfino veramente non è nè più sano, nè più alacre. Io parlo con rispetto, ma...

Par. È stranissimo, stranissimo, e bisogna avere uno spirito ben perverso per non vedere in ciò...

Laf. La mano del Cielo.

Par. Sì, così dico.

Laf. Col mezzo del più debole...

Par. Ministro, si è operata la guarigione più meravigliosa del re, che riscossa ha una...

Laf. Generale riconoscenza. (entrano il Re, Elena e seguito)

Par. Io pure l’avrei detto: parlate a meraviglia. Ecco Sua Maestà.

Laf. Fresco e vegeto come un nuotatore. Amerò le fanciulle di più per tal fatto, finchè mi resterà un dente in bocca. Egli è ora in istato di danzare con lei.

Par. Mort du vinaigre! Non è quella Elena?

Laf. Dinanzi a Dio è essa.

Re. Ite, fate qui venire tutti i signori della mia Corte. (esce uno del seguito) Assidetevi, mia salvatrice, accanto al vostro malato, e da questa mano ringiovinita, in cui avete riposte le forze, ricevete una seconda conferma della mia promessa: io sono pronto a farvi il dono che desiderate, e non aspetto per ciò che la vostra dichiarazione. (entrano molti signori) Vaga fanciulla, girate intorno i vostri occhi, e mirate una schiera di [p. 297 modifica]egregi giovani su di cui posso esercitare l’impero di un sovrano. Scegliete liberamente; voi avete la facoltà di eleggere, ed essi non hanno quella di rigettarvi.

El. La sorte conceda a ognuno di voi una bella e virtuosa amante, quando ciò piacerà all’amore, a ognuno di voi, un solo eccettuato.

Laf. Darei il mio cavallo baio con tutti i suoi arnesi, perchè la mia bocca fosse così ben fornita di denti come è quella di questi giovani, e perchè fosse corta del pari la mia barba.

Re. (a El.) Guardateli bene tutti; non ve n’ha un solo fra loro, che non proceda da nobilissimo stipite.

El. Nobili giovani, il Cielo ha col mezzo mio resa la salute al re.

Tutti. Lo vediamo, e ne ringraziamo il Cielo per voi.

El. Non sono che una fanciulla ingenua, e in ciò sta la mia maggiore ricchezza; ma se tale è il piacere di Sua Maestà, io farò tosto la mia scelta. Il colore che si dipinge sulle mie gote sembra dirmi in segreto: «arrossisco che tu faccia una scelta che ti attirerà un rifiuto, e ti ammonisco che il pallore che a me succederà sarà quello della morte, perocchè io non verrò mai più a tingerti».

Re. Scegli, e ti giuro che quegli che rifiuterà il tuo amore perderà il mio.

El. Ebbene, Diana, fin da ora io diserto i tuoi altari, e i sospiri miei non s’innalzeranno più che verso il supremo amore. — Signore, volete udire la mia inchiesta?

Signore. Ed anche accordarvela.

El. Ve ne ringrazio, e non ho nulla da aggiungere.

Laf. Quanto pagherei per essere nel numero degli eleggendi.

El. La nobiltà che scintilla nei vostri occhi mi risponde minacciosa prima anche che io parli. Possa l’amore mandarvi una fortuna venti volte al disopra del merito è dell’umile tenerezza di quella che vi indirizza tal voto.

Signore. Nulla di meglio io desidererei.

El. L’amore vi conceda quanto bramate. Così mi accomiato da voi.

Laf. Forsechè essi la rifiutano tutti? Se fossero miei figli vorrei farli flagellare, o li manderei tutti al Gran Turco perchè li rendesse eunuchi.

El. (a un altro signore) Non temiate ch’io voglia prendere la vostra mano; non vi darò mai alcun dolore. Il Cielo vi benedica, e se avviene che vi ammogliate, possiate voi trovare una sposa più bella nel vostro letto nuziale! [p. 298 modifica]

Laf. Quei giovani son di ghiaccio: alcuno non l’accetta: e son bastardi Inglesi che non mai ebbero padri di Francia.

El. Voi siete troppo giovine, troppo felice e troppo nobile per ingenerare un figlio del sangue mio.

Signore. Codesto io non credo, mia bella.

Laf. Rimane ancora un buon grappolo cui certo ella vorrà spremere.

El. (a Beltramo) Io non oso dire che vi prendo, perchè son io che tutta intera mi do a voi, e che mi sottometto a servirvi per tutta la mia vita — Questa è la mia scelta.

Re. Ebbene, giovine Beltramo, dàlle la mano, ell’è tua moglie.

Bel. Mia moglie, signore? Oserei scongiurare Vostra Maestà di concedermi in così fatta scelta facoltà di lasciar giudici i mìei occhi.

Re. Non sai tu dunque, Beltramo, quello che ella ha fatto per me?

Bel. Sì, mio buon signore; ma ignoro perchè io debba sposarla.

Re. Ti è noto ch’ella mi ha ricompro da un letto di dolori?

Bel. E debbo perciò la mia ruina essere la conseguenza necessaria del vostro risanamento? Io la conosco benissimo: ella crebbe allevata da mio padre; nè la figlia di un povero medico potrà mai essere mia moglie. Un obbrobrio eterno caopra piuttosto il mio nome!

Re. Tu non isdegni in lei che il suo stato, ch’io posso a mio senno illustrare. Strano è assai che il nostro sangue che per la tinta, il peso e il calore non mostrerebbe alcuna distinzione, voglia nondimeno separarsi negli uomini con tante differenze. Se questa bella possiede ogni virtù, e tu non la sdegni se non perchè figlia di un povero medico, tu rifuggi dalla virtù per un vano nome. Non giudicar così, Beltramo. Allorchè la virtù scaturisce da una sorgente oscura, la sua oscurità viene alluminata dal medito di quegli che la possiede. Colui che privo di virtù va gonfio di vani titoli, non ha che un’ombra di onore. Ciò che per sè è buono, è buono senza titoli; e quel che è vile, vile resta sempre, malgrado ogni pompa. Il prezzo delle cose dipende dal loro merito, e non dal loro nome. Ella è giovine, savia, bella; ha ricevuto tale eredità in linea diretta dalla natura, e son queste qualità che fanno la gloria vera. Onore non ha colui che si chiama figlio dell’onore, e non somiglia al padre suo. I nostri onori fruttificano allorchè li facciam procedere dalle nostre opere, piuttostochè dai nostri avi. Quanto a quella parola onore, essa non è che un vil testimonio che sta sopra ogni sepolcro, un trofeo bugiardo che spesso non apparisce laddove giacciono onorate ceneri. Che posso [p. 299 modifica]io dire di più? Se puoi amar questa fanciulla, io la farò grande: ell’ha la sua virtù per dote: gli onori e le ricchezze le saranno concessi da me.

Bel. Non posso amarla, e a ciò mi sforzerei invano.

Re. Oltraggi te stesso con tali parole.

El. Sire, godo di vedervi ben rimesso; pel resto avvenga quello che la sorte vuole.

Re. Il mio onore è in pericolo, e perch’io lo salvi mi è forza usare del mio potere. Su via prendi la di lei mano, altero e disdegnoso giovane, che indegno sei di sì bel dono, tu che rigetti con un colpevole disprezzo e la mia amicizia e il suo merito; tu che non pensi, che ella ed io posti nella bilancia siam da te disdegnati; e fingi ignorare che da noi dipende il farti felice e grande. Rattieni i tuoi dispregi; obbedisci alll nostra volontà che si adopera pel bene tuo; non attendere al tuo vano orgoglio; rendine tosto, se vuoi conservare la tua fortuna, l’omaggio di obbedienza che il tuo dovere ci debbe, e che la nostra autorità esige, io ti cancellerò per sempre dalla mia memoria, e ti abbandonerò alla rovinosa temerità della gioventù e dell’ignoranza, spiegando verso di te il mio odio e la mia vendetta. Siccome ne avrò cagione, così sarò senza pietà. Parla; rispondi?

Bel. Perdono, mio grazioso sovrano; io sottometto il mio amore alla scelta dei vostri occhi. Allorchè penso qual ricca creazione di grandezza, e quale immenso cumulo d’onori vanno dove voi comandate, mi avveggo che questa fanciulla, che troppo umile sembrava all’alterigia de’ miei pensieri, lodata dal re è come se ora escisse dalla più illustre culla.

Re. Prendi la sua mano, e dille ch’ell’è tua sposa; ti prometto una dote che eguagli le tue ricchezze, se non sarà maggiore.

Bel. Ricevo la sua mano.

Re. Il favore del re sorrida a tali nozze! Tutte le cerimonie necessarie per esse si compiranno questa sera. Beltramo, se tu l’ami, il tuo amore è un omaggio sacro reso al tuo re. (esce con Bel., El., i signori e il seguito)

Laf. Udiste, signore? Una parola ora, di grazia.

Par. Che cosa desiderate?

Laf. Il vostro padrone fece bene a disdirsi.

Par. A disdirsi? il mio padrone?

Laf. Sì, forsechè non mi spiego?

Par. Male vi spiegate, male assai. Il mio padrone?

Laf. Siete voi dunque compagno del conte di Rossiglione?

Par. Di ogni conte, di tutti i conti; di chiunque è uomo. [p. 300 modifica]

Laf. Di chiunque è uomo d’un conte.

Par. Siete troppo vecchio: ciò tì basti, siete troppo vecchio.

Laf. Bisogna ch’io vi dica, signore, che sono un uomo; e quest’è un titolo al quale l’età non farà che voi giugniate mai.

Par. Quel che oserei non lo voglio.

Laf. Vi ho creduto un uomo dì senno durante due pranzi; faceste tanti racconti dei vostri viaggi, che mi allucinaste tal poco; ma le ciarpe e le fettuccie di cui siete guernito mi han fatto accorto, che non appartenete a un ricco carico. — Ora vi ho trovato, e voglio farvi andare in collera.

Par. Se il privilegio dell’età non vi difendesse...

Laf. Dio abbia pietà di voi, codardo! — Io veggo bene nel vostro interno, senza che mi occorra farvi un pertugio colla spada. Datemi la vostra mano.

Par. Signore, voi adoprate indegnamente.

Laf. Sì, con tutto il cuore; e ciò meritate.

Par. Signore, io nol consento.

Laf. L’avete pienamente meritato, e vuo’ pagarvi sino all’ultimo soldo.

Par. Bene, sarò più savio.

Laf. Sì, quando potrete; perchè ora ciò vi è impossibile. Se verrete punito, saprete cosa voglia dire collegare insieme superbia e viltà. Ma io vuo’ conoscerti a fondo, o piuttosto stadiartì a fondo, per poter dire all’uopo quello che è un uomo che conosco.

Par. Signore, mi cruciate in modo intollerabile.

Laf. Vorrei farti provare i tormenti dell’inferno, e che la mia lena per ciò fosse eterna; ma ogni mio vigore è passato, e nondimeno me ne resta tanto da far giustizia di te, comunque mi piaccia. (esce)

Par. Tu hai un figlio che sconterà quest’oltraggio, vecchio deforme e schifoso. Bisogna che io mi freni, quantunque ciò mi sia assai difficile. Lo punirò, sull’anima mia, se me ne verrà il destro, foss’egli due volte più ricco. Non proverò più pietà della sua vecchiaia, ch’io non ne provi di... Lo batterò se avviene che m’incontri di nuovo in lui. (rientra Lafeu)

Laf. Mariuolo, il vostro signore e padrone è ammogliato; queste son novelle per voi. Ora avete anche una padrona.

Par. Convien ch’io supplichi Vostra Signoria di astenersi dall’insultarmi. Non è mio padrone che quegli che è al disopra di tutti noi.

Laf. Chi? Dio?

Par. Sì. [p. 301 modifica]

Laf. Il diavolo è il tuo padrone. Perchè incrocicchi così le braccia? È ella cotesta un’usanza dei servitori? sull’onor mio, se fossi più giovane solo di due ore ti bastonerei. Farmi che tu offenda tutti, e che tutti abbiamo diritto di castigarti.

Par. Tal trattamento io non merito, signore.

Laf. Vattene, mariuolo, e non onesto viaggiatore: sei più impertinente colle persone cospicue, che gli stemmi della tua nascita non ti permettano. Se meritassi una parola ancora, oltre quelle che ti ho detto, ti chiamerei ribaldo. Ma ti lascio così. (esce)

Par. Sta, sta, a meraviglia. — Nascondiamo ciò per ora. (entra Beltramo)

Bel. Perduto, perduto per sempre!

Par. Cbe avete, mio caro?

Bel. Sebbene abbia giurato solennemente dinanzi al sacerdote, io non mi giacerò mai con lei.

Par. Ma che fu?

Bel. Oh mio Parolles, mi hanno ammogliato! Ma andrò alle guerre di Toscana, e non la riceverò nel mio letto.

Par. La Francia è un vero canile, indegna di esser tocca dai piedi di un uomo onesto. Alla guerra!

Bel. Ecco lettere di mia madre, di cui ignoro ancora il tenore.

Par. Gioverebbe saperlo. — Alla guerra, giovine, alla guerra! Sperde il suo onore colui che rimane nei domestici lari assorto in vili mollezze, sfogando così quel vigor virile che dovrebbe essere impiegato nel reprimere l’ardore di un cavallo bollente. Alla guerra, alla guerra! La Francia è una stalla, e noi, che vi restiamo, siamo vere bestie da soma. Alla guerra!

Bel. Sì, v’andrò. — Costei manderò nel mio castello, istruendo mia madre della mia avversione per lei, e della cagione della mia partenza; scriverò al re quello che non ho osato ancor dirgli: il dono che egli mi ha fatto, mi servirà al mio viaggio d’Italia, paese dove i prodi combattono. Il campo della guerra è un luogo di pace, in paragone di una trista casa e di una sposa abbonita.

Par. Tal fantasia durerà in voi? ne siete sicuro?

Bel. Vieni con me nella mia camera, e aiutami coi tuoi consigli. Tosto la congederò, e dimani partiremo entrambi, io per la guerra, ella per la sua malinconica solitudine.

Par. Oh come le palle ruggiscono! Quale strepito fanno. — Dura cosa ell’è: da così poco ammogliato; ma ammogliato val rovinato. Partite dunque e lasciatela da forte; il re vi ha fatto l’oltraggio; a questo nondimeno non pensate. (escono) [p. 302 modifica]

SCENA IV.

La stessa. — Un’altra camera.

Entrano Elena e il Villico.

El. Mia madre si rallegra meco teneramente. Sta ella bene?

Vil. Ella non sta bene, ma però sta sana: è molto allegra, ma bene non sta; grazie al Cielo sta a dovere, e non ha bisogno dì nulla al mondo; ma pure la sua sorte non è invidiabile.

El. Se è sana, che cosa le manca per star bene?

Vil. Starebbe bene, ma le mancano due cose.

El. Quali sono?

Vil. Una, quella di non essere in Cielo, dove Dio voglia mandarla presto; l’altra, di essere sulla terra, da cui Dio voglia presto congedarla. (entra Parolles)

Par. Salute, fortunata signora.

El. Spero, signore, che i vostri desiderii si conformeranno alla mia sorte.

Par. Voi avete tutte le mie preghiere per essa, e perchè vi duri eternamente. — Oh mariuolo, come sta la mia vecchia signora?

Vil. Vorrei che voi ne aveste le grinze, ed io il denaro, e fosse quale la dite.

Par. Io non dirò nulla.

Vil. Voi siete il più saggio degli uomini; perocchè spesso la lingua d’un uomo è la rovina del suo padrone: e non dir nulla, non far nulla, non saper nulla, e non aver nulla, fanno una gran parte dei vostri titoli, che son presso a poco l’equivalente di nulla.

Par. Via, tu sei un furfante.

Vil. Avreste dovuto dire, signore, dinanzi a un furfante sei un furfante; ossia dinanzi a me sei un furfante: e il vero avreste detto.

Par. Va, va; sei un astuto malandrino, ben ti ho riconosciuto.

Vil. Mi riconosceste in voi, signore? Ovvero mi riconosceste in altri? La vostra indagine vi sarà stata delle più proficue, e avrete trovato in voi molta follia per diletto del mondo, e per accrescimento delle sue risa.

Par. Un buon mariuolo in verità, ed assai ben nutrito. — Signora, il signor mio partirà questa sera: egli conosce tutti i grandi privilegi, e tutti i diritti dell’amore che le circostanze reclamano per voi, ma è costretto da assai grave bisogna a rimettere ad altro tempo il soddisfarli. Codesta privazione e questo differimento [p. 303 modifica]saranno compensati dalle dolcezze, che poi gusterete, e che vi inonderanno il cuore di una vera gioia.

El. Quali sono le altre sue intenzioni?

Par. Che voi prendiate tosto congedo dal re, e che adduciate di sì precipitosa partenza il motivo del vantaggio vostro, appoggiato a tutti gli argomenti che potrete imaginare per rendere simile necessità verosimile.

El. Mi comanda altro?

Par. Vorrebbe che dopo aver ottenuto il commiato vi conformaste agli altri suoi desiderii.

El. Io gli sono in tutto sottomessa.

Par. Questo gli dirò.

El. Ve ne sarò grata. — Tu, vieni meco. (al Vil. — escono)

SCENA V.

Un’altra stanza.

Entrano Lafeu e Beltramo.

Laf. Ma io spero che Vostra Signoria nol crederà un soldato.

Bel. Sì, signore, e di eccellente tempra.

Laf. Egli ve l’ha detto?

Bel. Ed altri me l’hanno confermato.

Laf. Allora m’ingannai, sbagliando un lodola in un passero.

Bel. Vi assicuro, signore, che ha molte cognizioni, e molto coraggio.

Laf. Peccai dunque contro la sua esperienza, e prevaricai contro il suo valore, onde mi trovo nello stato più pericoloso, dappoichè non sento nel mio cuore alcun rimorso di ciò. Egli qui viene; ve ne prego, riconciliateci, ch’io vuo’ ritornargli amico. (entra Parolles)

Par. (a Bel.) Ogni cosa sarà fatta, signore.

Laf. Di grazia, chi è il suo sarto?

Par. Messere.

Laf. Oh! ben lo conosco. Sì, sì, è un buon lavoratore, un ottimo artefice.

Bel. (a parte a Par.) È ella andata dal re?

Par. Sì.

Bel. Partirà questa notte?

Par. Partirà.

Bel. Ho scritte le mie lettere, ho raccolto il denaro, e dati [p. 304 modifica]gli ordini pei nostri cavalli; e questa notte, allorchè dovrei prendere possesso della mia sposa....

Laf. Un buon viaggiatore è interessante alla fine di un pranzo; ma un uomo che spaccia tre menzogne, e dice una verità conosciuta da tutti, affinchè gli si credano mille bugie, merita di essere ascoltato una volta, e bastonato tre. — Dio vi salvi, capitano.

Bel. Vi sarebbe qualche litigio fra questo signore e voi?

Par. Non so d’aver demeritato da Sua Signoria.

Laf. Avete fatto lo scaltro per demeritare, e fate ora l’astratto perchè non ve ne venga chiesta ragione.

Bel. Potrebbe essere che vi foste ingannato sul suo conto, signore.

Laf. E sempre m’ingannerò sul suo conto, quand’anche lo sorprendessi nelle sue orazioni. — Addio, signore, credete a quello ch’io vi dico, che nocciuolo non v’è dentro a quella lieve scorza: tutta l’anima di quell’uomo è diffusa sopra i suoi abiti; non vi fidate di lui in nessuna cosa importante; ho domati parecchi di sì fatti animali, e ne conosco la tempera. — Addio, messere. (a Par.) Ho parlato di voi meglio che non meritiate, sopratutto da me: ma giova rendere bene per male. (esce)

Par. Stolto cianciatore, ve ne assicuro.

Bel. Io pure lo reputo tale.

Par. Forsechè nol conoscete?

Bel. Sì, ben lo conosco, e so che volgarmente vien detto uomo di merito. — Ma ecco la mia catena. (entra Elena)

El. Secondo il vostro ordine, signore, ho parlato col re, ed ho ottenuto il suo permesso per partir tosto; egli desidera soltanto un colloquio con voi.

Bel. I suoi desiderii mi sono leggi: non dovete meravigliarvi. Elena, del mio modo di procedere, che non sembra conformarsi alle circostanze; ma io non ero apparecchiato a questi avvenimenti, ed ecco perchè la mia condotta è sì strana. Vi prego di partir tosto per le mie terre, e di rimanere nel vostro stupore prima che chiedermi il motivo di tal preghiera; le mie ragioni essendo migliori assai che non sembrano, e gli affari miei di necessità più incalzante che veder non potessero i vostri occhi. — Questa lettera è per mia madre: (le dà una lettera) scorreranno due giorni prima ch’io vi rivegga. Addio, vi lascio alla vostra saviezza.

El. Signore, io non posso altro dirvi se non che sono la vostra ancella obbediente. [p. 305 modifica]

Bel. Via, via, non più di ciò.

El. E che cercherò sempre con tutti gli sforzi miei di riparare quel fallo che la stella della mia nascita ha lasciato in me.

Bel. Finiamo; ho molta fretta. Addio, partite.

El. Ve ne prego, signore, permettete...

Bel. Che volete dire?

El. Non son degna del tesoro che possiedo, e non oso dire che è mio: nondimeno mio è; come un ladro sagace però io vorrei soltanto impossessarmi di quello che la legge mi concede.

Bel. Che cosa vorreste?

El. Qualche cosa... nulla... non vorrei dirvi quello che voglio, eppure quando gli amici si separano sogliono abbracciarsi.

Bel. Ve ne prego, non indugiate, e andate tosto a cavallo.

El. Non infrangerò i vostri ordini, mio buon signore.

Bel. Dove sono gli altri miei uomini? — Addio. (a El. che esce) Va nella mia casa dove io mai non verrò, finchè saprò trattare una spada, o udire i suoni di un tamburo. — Su dunque, parliamo, e pensiamo alla nostra fuga.

Par. Sta bene; coraggio!

(escono)





Note

  1. Pietanza inglese.
  2. Dramma di quei tempi.