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ATTO SECONDO | 295 |
gandoti, nella speranza che la tua risposta mi renda più saggia. Dimmi dunque sei tu cortigiano?
Vil. Oh Dio Signore... ecco un mezzo sicuro per congedare gl’interroganti. Fatemi altre cento dimande.
Cont. Signore, io sono un’amica vostra, che di cuore vi ama.
Vil. Oh Dio Signore... andate, andate.
Cont. Credo bene, signore, che voi non possiate mangiare di sì rozze vivande.
Vil. Oh Dio Signore... cruciatemi pure a vostro senno.
Cont. Voi foste non ha molto frustato, credo.
Vil. Oh Dio Signore... procedete, procedete.
Cont. Gridate voi, oh Dio Signore e procedete, allorchè sentite la frusta? Infatti il vostro: oh Dio Signore, sta bene in quelle circostanze: alle frustate rispondereste a dovere se foste obbligato a farlo.
Vil. Non ho mai avuta tanta disgrazia in vita mia, nel mio oh Dio Signore. Veggo che le cose possono servire lungamente ma non sempre.
Cont. Affè ch’io impiego bene il mio tempo, sperdendolo così con un pazzo.
Vil. Oh Dio Signore... ecco che la risposta qui va bene.
Cont. Finitela, messere, e andate alle vostre occupazioni. Recate ad Elena questa lettera, e pregatela di una subita risposta. Salutate i miei parenti e mio figlio, e siate sollecito.
Vil. Verrò prima delle mie gambe.
Cont. Affrettatevi. (escono da diverse parti)
SCENA III.
Parigi. — Una stanza nel palazzo del Re.
Entrano Beltramo, Lafeu e Parolles.
Laf. E dicono che i miracoli son passati: e noi abbiamo i nostri filosofi per renderne famigliare tutto quello ch’essi non intendono. Da ciò avviene che ci facciamo beffe dei maggiori prodigi, appagandoci di una scienza illusoria allorchè dovremmo inginocchiarci compresi di terrore.
Par. Si, e questa fu una delle più rare meraviglie che si vedesse nei nostri tempi.
Bel. Certamente.
Laf. Essere abbandonato dai medici...
Par. Dai Galeni e dai Paracelsi...