Vita e morte del Re Riccardo II/Atto quinto
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Traduzione dall'inglese di Carlo Rusconi (1858)
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ATTO QUINTO
SCENA I.
Londra. — Una strada che conduce alla Torre.
Entrano la Regina e le sue Signore.
Reg. È per questa via che passerà il re: ecco il cammino che conduce a quella Torre, che Giulio Cesare eresse per mia sventura. È nel suo seno di pietra che il mio sposo condannato è mandato prigioniero dall’orgoglioso Bolingbroke. — Riposiamoci qui, se questa terra ribelle ha ancora un macigno su cui possa adagiarsi la sua vera regina! (entra il re Riccardo colle guardie) Ma taciamo; chi che io vegga.... o piuttosto no.... nondimeno guardiamo. — Miralo, sposa sfortunata, onde la pietà ti compenetri tutta, e inondare tu il possa colle lagrime di un tenero e fido amore. Oh tu, imagine dell’antica Troia, tu, mappa di onore, tomba del re Riccardo e non Riccardo, tu, splendida dimora, perchè debbe la sventura dall’acuto artiglio albergarsi in te, quando il trionfo è divenuto l’ospite di una vile casipola?
Ricc. Non aggiungere altro dolore, bella donna, a quello che mi preme, se non vuoi vedermi morire di subito. Impara, amica mia, a non più considerare nella nostra antica fortuna che un sogno gradevole, di cui non ci resta al risvegliarci che lo stato in cui siamo. Ho giurato, mia vezzosa, di essere l’amante dell’infame necessità; e fra lei e me è corso un patto di vivere in pace fino all’ultim’ora. — Ritirati in Francia e va a racchiuderti in qualche asilo religioso. Convien che una vita pia e santa ci faccia ottenere in un altro mondo quella corona che l’abuso dei nostri dì ci fece perdere in questo.
Reg. Oh! l’anima del mio diletto Riccardo si è ella dunque affralita come la sua persona e il suo viso? Bolingbroke t’ha egli rapita anche la ragione? Ti ha egli usurpato col trono il cuore? Il leone moribondo si agita tuttavia e col suo piede strazia, in difetto del suo nemico, il seno della terra, furioso di vedersi domato. E tu, subirai tu la tua pena senza resistenza? Come fanciullo che si punisce, baderai la verga che ti percuote? Lambirai con vile umiliazione la mano furiosa che ti opprime, tu, che un leone sei e unico re della foresta?
Ricc. Re della foresta, invero, altrimenti regnerei felice ancora, se invece di feroci animali, avessi avuto uomini per sudditi. — Amica mia, regina un tempo, apparecchiati a partire per Francia: imagina ch’io sia morto, e che qui, in questo istante, ricevi da me, come dal mio letto funebre, l’ultimo addio. — Nelle lunghe notti d’inverno, assisa accanto al fuoco, con qualche buon vecchio, fatti narrare le istorie dei tempi trascorsi, delle età dolorose che da lungo scomparvero; e prima di dipartirtene, ricambiali narrando loro la lagrimevole serie de’ miei mali, e rimandali molli di pianto ai loro letti. Perocchè anche i tizzi insensibili saranno commossi dai mesti accenti della tua voce, e per pietà estingueranno i loro fuochi; altri annerirannosi in sembianze di lutto, deplorando alla caduta di un legittimo re. (entra Northumberland col seguito)
North. Signore, le intenzioni di Bolingbroke sono mutate: è a Pomfret e non alla Torre, che dovete andare. — Per voi anche, madonna, ebbi ordini. A voi è ingiunto di partire senza dimore e di ritirarvi su quello di Francia.
Ricc. Northumberland, tu scala colla quale l’ambizioso Bolingbroke è salito sul mio trono, non passerà lungo tempo prima che il delitto che oggi fiorisce, non maturi e non produca la sua vendetta. Tu penserai un giorno, che quand’anche Bolingbroke dividesse il suo regno e te ne desse la metà, non pagherebbe il servigio di averglielo procacciato intero: ed egli penserà che tu, che conosci i mezzi di fare i re illegittimi, conoscerai anche al più lieve cruccio quelli di precipitarli dal mal usurpato soglio. L’amicizia dei malvagi muta a diffidenza, la diffidenza ad odio, e l’odio a morte.
Nort. Sia; e ricada sul mio capo il mio delitto. Fatevi i vostri addii e separatevi; perocchè dovete partir tosto.
Ricc. Doppio è il divorzio, che mi convien subire! Uomini crudeli, voi violate in pari tempo due sacri contratti; il primo fra la mia corona e me, il secondo fra me e la sposa che avevo eletta. — Oh! un bacio dunque annulli la fede che ci eravamo giurata. (abbracciando la regina) Oimè! E nondimeno fu un bacio che fra di noi la suggellò. — Dividici, crudo Northumberland: io per andare verso il nord, contristato dai ghiacci e dalle infermità; la mia sposa per rimpatriare in Francia. Di là essa venne colla pompa più fulgida, adorna come un bel dì di primavera; e là ritornerà trista e sconfidata come il più fosco giorno di dicembre.
Reg. E dovremo essere divisi? Separarci così?
Ricc. Sì, la mano dalla mano, mio amore, e il cuore dal cuore.
Reg. Banditeci entrambi e mandate il re con me.
Nort. L’amore potrebbe desiderarlo, ma la politica lo vieta.
Reg. Ch’io vada dunque dove ei va.
Ricc. Così entrambi, piangendo insieme, non comporremmo che un dolor solo. Piangi tu per me in Francia, io piangerò qui per te. Meglio lontani che vicini, per non mai vederci. Va, misura la tua via coi respiri: io la mia coi gemiti.
Reg. Così la più lunga strada vedrà spargere più lagrime.
Ricc. Due ne verserò ad ogni passo, e se il mio cammino è più breve, la mia profonda tristezza ne allungherà lo spazio. Partiamo, dividiamoci, siamo brevi nelle sponsalizie dei nostri dolori, avvegnachè il loro matrimonio debba durare sì lungo tempo. Un bacio chiuderà le nostre bocche e ci farà lasciarci muti; con questo bacio, io ti do il cuore e prendo il tuo.
Reg. Rendimi il mio; a me non converrebbe il prendere il tuo cuore per farlo morire. (si baciano di nuovo) Così, ora io ho il mio cuore; addio. Ah, vorrei ch’ei scoppiasse con un sospiro!
Ricc. Noi inaspriamo i nostri mali con questi indugi dell’amore: una volta ancora, addio; il resto lo dica l’ambascia. (escono)
SCENA II.
La stessa. — Una stanza nel palazzo del duca di York.
Entrano York e la Duchessa.
Duch. Milord, mi avevate promesso di finire il racconto dell’entrata dei nostri due cugini in Londra, allorchè l’effusione delle vostre lagrime vi interruppe.
York. Dove rimasi?
Duch. A quel fatal momento, signore, in cui mani feroci e sacrileghe gettavano dall’alto dei veroni polvere e fango sul capo di Riccardo.
York. In quel punto, come vi dissi, il duca, il gran Bolingbroke, cavalcato a un indomito corsiero, che sembrava sentir d’orgoglio ambizioso del suo signore, si avvanzò a passi lenti e maestosi, mentre tutti gridavano: Iddio ti salvi, Bolingbroke. Avreste creduto che i veroni parlassero, tanto vi era accalcata ad ogni ordine la folla dei volti di tutte le età, che vibravano i loro avidi sguardi sul volto del duca; e che tutte le muraglie, come tela piena di personaggi parlanti, esclamassero in pari tempo: benedica Iddio Bolingbroke! Egli, col capo scoperto e umiliato fino al collo del suo superbo cavallo, non cessava di ripetere: Grazie ve ne siano, miei compatrioti; e così adoprando proseguiva la sua via.
Duch. Oimè, povero Riccardo! Dove era egli allora?
York. Come in un teatro, quando un attore diletto al pubblico lascia la scena, gli occhi degli spettatori si volgono con negligenza sopra quello che gli succede, credendosi che la sua inutile parte non recherà che noia e fastidio; così e con più disprezzo ancora gli occhi del popolo si arrestavano di mala voglia sopra Riccardo. Non un solo ha gridato: Iddio lo salvi. Non una voce consolatrice lo ha salutato, ma la polvere cadeva unicamente in larga copia sulla sua testa sacra, intantochè egli tranquillo la scuoteva da sè con dolce rassegnazione. I suoi pianti e il suo sorriso si mescolavano sopra il suo volto, e attestavano in pari tempo il suo dolore e la sua pazienza; spettacolo tanto commovente, che se Iddio per qualche gran fine non avesse mutato in ferro i cuori del popolo, essi sarebbero stati costretti d’intenerirsi; che la barbarie medesima avrebbe di lui sentito pietà. Ma la mano del Cielo è visibile in questi avvenimenti, e noi sommettiamo alla sua volontà suprema i nostri cuori rassegnati e soddisfatti. La nostra fede di sudditi è ora giurata a Bolingbroke, ed io mi consacro per sempre a difendere il suo onore e la sua gloria. (entra Aumerle)
Duch. Viene mio figlio Aumerle.
York. Ei fu Aumerle un tempo, ma ha perduto questo titolo per essere amico di Riccardo, e conviene oramai, signora, che lo chiamate Rutland. Son guarante dinanzi al Parlamento della sua fedeltà e della sua intangibile affezione al nuovo re.
Duch. Sii il benvenuto, mio figlio. Quali son le boccie che fioriscono e si innalzano sul seno verdeggiante di questa vaga primavera?
Aum. Madonna, lo ignoro e non le curo. Dio sa, che amerei meglio non esserne, che esserne una.
York. Bene sta: però comportatevi sempre con prudenza in questa nuova stagione, per tema di essere mietuto prima del fiore de’ vostri anni. Quali novelle di Oxford? Le giostre e i torncamenti continuano ancora?
Aum. Sì, milord, per quanto almeno ne so.
York. Là andrete voi pure, io credo?
Aum. Se Dio non vi si oppone, tale è il mio disegno.
York. Che foglio è quello che veggo sul vostro seno? Perchè impallidite? Lasciatemi vedere quel foglio.
Aum. Milord, è un nulla.
York. In tal caso che vale ch’io lo vegga? Vuo’ essere soddisfatto. Veggiamo.
Aum. Supplico Vostra Grazia di scusarmi. È uno scritto di qualche importanza, che ho buone ragioni per tener nascosto.
York. Ed io pure, giovine, ho buone ragioni per volerlo vedere; temo, temo...
Duch. Che temereste? È senza dubbio qualche debito che ha contratto pel suo abbigliamento nel dì dell’incoronazione.
York. Un debito con se stesso? Qual obbligo può esser quello di cui si è portatore? Donna, tu vaneggi. — Aumerle, lasciami vedere quel foglio.
Aum. Ve ne supplico, perdonatemi; io non posso mostrarlo.
York. Vuo’ essere soddisfatto; lasciatemi vedere, dico. (glielo strappa e legge) Tradimento! Infame tradimento! — Scellerato! Traditore! Miserabile!
Duch. Che fu, milord?
York. Olà! V’è alcuno? (entra un domestico) Si selli il mio cavallo. Iddio ne protegga! Quale trama scopersi!
Duch. Quale, milord?
York. I miei speroni, dico; sellate il mio cavallo: ora, pel mio onore, per la mia fede, io denunzierò lo scellerato! (il dom. esce)
Duch. Ma che fu?
York. Tacete, donna insensata.
Duch. Non tacerò. — Che vuol dir questo, mio figlio?
Aum. Buona madre, calmatevi; non vi è nulla, di cui la mia povera vita non possa rispondere.
Duch. La tua vita rispondere! (rientra il domestico con stivali e speroni)
York. Studia il passo, vuo’ correre dal re.
Duch. Aumerle, impedisciglielo. — Povero fanciullo, sei tristo. — Via di qui, miserabile (al dom.); non ricomparirmi più innanzi.
York. I miei speroni, dico.
Duch. Perchè, York? Che vorreste voi fare? Oh! non vorrete voi nascondere il fallo di vostro figlio? Abbiam noi forse altri figli? Possiam sperarne altri? Il tempo non ha esaurita la fecondità del mio seno? E voi volete rapire alla mia vecchiaia il mio unico figlio, e spogliarmi del caro nome di madre? Non vi rassomiglia egli? Non è figlio vostro?
York. Femmina insensata, vuoi tu dunque celare una nera cospirazione? Dodici traditori han giurato e vergato colla loro mano un foglio per assassinare il re a Oxford!
Duc. Ei non sarà fra quelli. Noi lo custodiremo qui: e allora che vale siffatta cospirazione?
York. Lasciami, donna inconsiderata! Fosse egli venti volte mio figlio, lo denuncerei egualmente.
Duch. Ah, se costato ti fosse i dolori che costò a me, saresti più pietoso. Ma leggo ora nella tua anima; tu sospetti che io possa essere stata infedele al tuo letto, dubiti della legittimità del figlio tuo. Oh dolce York, dolce consorte, scaccia tal dubbio: ei ti rassomiglia quanto uomo può: non ha alcuno dei miei lineamenti o di quelli della mia famiglia; e nondimeno io lo amo.
York. Sgombrami il passo, donna impudente. (esce)
Duch. Corrigli dietro, Aumerle, sali sul tuo cavallo; spronalo, giungi prima di tuo padre innanzi al re, e implora la grazia tua, anzi che ei t’accusi. Non tarderò a seguirti. Malgrado la mia età, non dubito di non raggiunger York; e prostrata al suolo, non me ne rialzerò, se non quando Bolingbroke ti avrà perdonato. Via, via; partiamo. (escono)
SCENA III.
Windsor. — Una stanza nel castello.
Entrano Bolingbroke colle insegne regie: Percy ed altri lordi.
Boling. Alcuno non sa darmi novelle di mio figlio? Son trascorsi tre mesi da che non l’ho veduto. Se vi è qualche flagello di cui il Cielo mi minacci, tal flagello è appunto quel giovine. Vorrei per tutto il mondo, cari lôrdi, che si potesse discoprirlo. Fate ricerche in Londra; visitate le taverne: perocchè si dice le frequenti, con compagni dissoluti e rotti ad ogni libidine; aggiungesi ancora che ei si nascondano nelle anguste vie, e vi battano le nostre guardie, e vi derubino i passeggieri! Quel giovine insensato, trasportato dalla foga dell’età e delle passioni, si gloria nell’alimentare una frotta di sciagurati.
Percy. Signore, non son due giorni che ho veduto il principe, e gli ho parlato dei torneamenti che si fanno ad Oxford.
Boling. E che rispose l’imbelle?
Percy. La sua risposta fu ch’ei vorrebbe esser nell’arena per strapparvi un guanto alla più vil cortigiana, e con tal pegno di favore toglier d’arcione il più valente aggressore.
Boling. Dissoluto e distemperato: pur fra i suoi vizi scerno qualche lume di virtù che età più matura può sviluppare. Ma chi viene? (entra Aumerle correndo)
Aum. Dov’è il re?
Boling. Che vuol nostro cugino? Che annunzia tal commozione dipinta sui suoi occhi arrovellati?
Aum. Iddio salvi Vostra Grazia. Supplico per avere un momento di conferenza solo con voi.
Boling. Ritiratevi tutti. (escono Percy e i lordi) Ebbene, amato cugino?
Aum. (inginocchiandosi) Le mie ginocchia rimangono attaccate alla terra, e la mia lingua al mio palato, se voi non mi perdonate prima ch’io mi rialzi o parli.
Boling. Il fallo è egli commesso, o è solo nell’intenzione? Se non è consumato, per quanto odioso sia, per guadagnare la tua amicizia nell’avvenire, io ti perdono.
Aum. Permettetemi di chiuder le porte, onde alcuno non entri prima ch’io vi abbia detto tutto.
Boling. Sia fatto il tuo desiderio. (Aum. chiude la porta)
York. (dal di dentro) Mio sovrano, sii cauto; difendi te stesso, perocchè ti sta dinanzi un traditore.
Boling. (sguainando la spada) Scellerato, mi assicurerò di te.
Aum. Rattieni la tua mano vendicatrice; non hai motivo alcuno di temere.
York. (dal di dentro) Apri la porta, sii cauto, re temerario: non potrò io per amore dite rivelarti un tradimento infame? Apri la porta, o io l’atterrerò. (Boling. apre la porta; entra York)
Boling. Che vi è, zio? Parla; riprendi lena; dinne quanto sia vicino il pericolo, perchè ci possiamo apprestar ad affrontarlo.
York. Leggi questo scritto, e conoscerai quello che la stanchezza mi impedisce di dirti.
Aum. Ricordati, leggendo, della tua promessa: io mi pento; non veder dunque il mio nome costà; il mio cuore non è confederato colla mia mano.
York. Lo era, scellerato, anzichè la tua mano avesse segnato il foglio. — Re, io strappai quello scritto dal seno del traditore; è la paura, non l’amore che ingenera il suo pentimento: non commiserarlo, per tema che la tua pietà non alimenti un serpe che ti trafiggerà il petto.
Boling. Oh odioso atto, oh audace cospirazione! Oh leal padre di un figlio traditore! Sorgente pura da cui sgorgò questo ruscello che si è da se stesso contaminato nel suo corso! York, le tue virtù degenerarono in lui; ma il tuo raro merito fa assolvere l’enorme fallo del tuo figliuolo traviato.
York. Così la mia virtù sarà prostituita ai suoi vizi? egli spenderà il mio onore a riparare la sua vergogna, come quei figli prodighi che gettano l’oro laboriosamente accumulato dai loro padri? No, il mio onore non può vivere che per la morte di un figlio che mi fa arrossire; senza di ciò i miei giorni scorrerebbero infami. Facendo grazia al figlio, voi uccidete il padre: lasciate in vita il traditore, e immolate il suddito fedele.
Duch. (al di dentro) In mercè, mio sovrano, in nome del Cielo, lasciateci entrare.
Boling. Quale stridula voce è codesta, che manda tali grida?
Duch. Una donna, una zia vostra, gran re. Sono io; piacciavi di udirmi: abbiate pietà di me; degnatevi aprirmi le porte. Ti chieggo una grazia, io, che non ve ne chiesi mai.
Boling. La nostra scena è mutata; di grave, com’era fatta, diventa la storia della mendica e del re. Mio pericoloso cugino, fate entrar vostra madre: so ch’ella viene a intercedere pel vostro indegno peccato.
York. Se tu gli perdoni, se cedi alle preghiere di chi si sia, la tua clemenza potrà incoraggire e moltiplicare i delitti. Taglia un membro corrotto se vuoi che il corpo rimanga sano; se nol fai, ei t’infraciderà tutti gli altri. (entra la duchessa)
Duch. O re, non credere a quest’uomo spietato: l’uomo che non ama se stesso, non può amare alcuno.
York. Donna pazza che venisti a far qui? Vorrà il tuo seno appassito alimentare un altro traditore?
Duch. Gentile York, calmatevi; uditemi buon sovrano. (si inginocchia)
Boling. Alzatevi, onesta zia.
Duch. No, non ancora te ne supplico. Resterò prostrata sulle mie ginocchia, e non mai rivedrò giorni felici se tu non m’hai resa la gioia e la felicità perdonando a Rutland, al mio colpevole figlio.
Aum. Alle preghiere di mia madre genufletto io pure. (s’inginocchia)
York. Ed io pure lo fo, ma per pregare contro di essi. Tu avrai a pentirtene se concedi grazia.
Duch. Ah! credete voi ch’ei parli da senno? Mirate il suo volto. I suoi occhi non versano una lagrima; la sua preghiera non è che un giuoco; le sue parole non sono che vani suoni della bocca: le nostre procedono dal cuore. Ei non vi prega che debolmente, e desidera di non ottenere; ma noi, noi vi supplichiamo con tutto il fervore della nostra anima, e delle nostre forze. Le sue ginocchia stanche si rialzeranno con gioia; ma le nostre resteranno in quest’umile positura fino a che s’impietriscano nella terra. Le sue suppliche non sono che menzogna e ipocrisia: le nostre sono ardenti e vere. Esse la vincano dunque sopra le sue, e ottengano quella grazia che meritano preci ferventi e sincere.
Boling. Buona zia, alzatevi.
Duch. Non dirmi di rialzarmi; perdona prima, e poscia m’alzerò. Ah! s’io fossi stata nudrice di un re, le prime parole che gli avrei insegnato a pronunziare sarebbero state: io perdono. Non mai tanto quant’oggi desiderai di udire tali paroli. Re, di’: io perdono. La pietà ponga queste parole sulle tue labbra; non ve n’ha alcuna che meglio s’addica alla bocca dei re: brevi sono, ma celestialmente dolci.
York. Pronunziatele in francese, re, dite, pardonnez-moi1.
Duch. Vuoi tu insegnare al perdono di distruggere il perdono? Sposo crudele, spietato uomo, tu armi le parole contro le parole! — Pronunzia il perdono, o re, con quel senso che vi si collega nel nostro paese; noi non intendiamo alcun subdolo idioma. I tuoi occhi cominciano a parlare, fa che la tua lingua finisca: o nel pietoso tuo cuore poni le tue orecchie, talchè udendo l’effusione delle nostre preghiere la pietà ti commuova e ti induca a perdonare.
Boling. Buona zia, alzatevi.
Duch. La grazia che vi chieggo non è di alzarmi, ma di perdonare.
Boling. Io gli perdono, come desidero che Iddio perdoni a me.
Duch. O fortunata vittoria di una prece sincera! E nondimeno io temo ancora: parla di nuovo; dicendo due volte perdono, non perdoni due volte, ma afforzi un sol perdono.
Boling. Con tutto il cuore gli perdono.
Duch. Tu sei un Dio in terra.
Boling. Ma pel nostro leal cognato, per l’abate di Westminster, e per tutto il resto dei cospiratori non suonerà questa parola. — Buon zio, pensate a mandar soldatesche in Oxford, o in quell’altro luogo qualunque in cui saranno i traditori: essi non godranno molto tempo l’aria di questo mondo, se ci è dato di sapere il luogo in cui si nascondono. — Addio, zio, e tu pure, cugino, addio: vostra madre pregò a dovere; diventate leale.
Duch. Vieni, mio colpevole figlio; supplico Iddio che ti muti il cuore. (escono)
SCENA IV.
Entrano Exton e un domestico.
Ex. Non badasti che il re disse: perchè non ho io un amico che mi sollevi dall’inquietudine di saperlo vivo? Non disse così?
Dom. Furono le sue parole.
Ex. Non ho io un amico? Lo disse, e lo ripetè due volte, e sempre con espressione concitata. Non è vero?
Dom. È.
Ex. E dicendo ciò mi figgeva gli occhi in volto come se avesse voluto significare: vorrei che tu fossi l’uomo che liberasse la mia anima dal timore, intendendo con questo sicuramente di alludere al re che sta a Pomfret. — Vieni, andiamo colà; sono amico del re e vuo’ liberarlo dal suo nemico. (escono)
SCENA V.
Pomfret. — Le carceri del castello.
Entra il re Riccardo.
Ricc. Ho studiato lungo tempo in qual modo potrei paragonare questa prigione, in cui vivo, al mondo; ma poichè il mondo è pieno d’uomini, e qui non vi son che io di creature viventi, così non posso a ciò riescire. — Nullameno vuo’ provarmi ancora. La mia imaginativa feconderà il mio pensiero, e ne deriverà una generazione di idee che si riprodurranno da sè e popoleranno questo piccolo universo, che sarà bizzarro e fantastico come gli abitatori della terra: avvegnachè non vi sia alcun pensiero che di se medesimo vada pago. Le imaginazioni ambiziose versano su disegni difficili; sarebbe come se volessi che la punta di questo debole chiodo s’aprisse una via fra i fianchi pietrosi di questa prigione; e siccome esse non possono giungere al loro scopo, muoiono vittime del loro orgoglio. L’uomo, i di cui pensieri cercano la felicità, adula se stesso tanto da credere ch’ei non è il primo servo della fortuna, e non ne sarà l’ultimo; simile a quei mendichi insensati che, seduti sulle pietre, si nascondono il loro obbrobrio, certi che altri prima di loro vi si sono assisi, e che altri ancora vi si assideranno dopo. Con tal pensiero e’ trovano una specie di refrigerio, rigettando le loro vergogne sul dosso di quelli che hanno subìto, prima di loro, la medesima sorte. Così è che nella solitudine della mia prigione io mi moltiplico e rappresento con me solo un intero popolo, ogni individuo del quale non è contento del proprio stato. Qualche volta son re, e allora il tradimento mi fa desiderare di essere mendico, e mi fa mendico: ma la dolorosa indigenza mi persuade poscia, che meno infelice ero essendo re, onde risalgo sul trono. A tale venato rimembro che fui deposto da Bolingbroke e che perciò nulla sono: ma qualunque io mi sia, nè io nè alcun uomo, se più che uomo non è, non sarà mai soddisfatto di nulla fino a che non si consolato di ogni male cessando di esistere. — Or che è quello che io odo?..... Di dove vengono questi suoni armoniosi?..... Conservate il tempo. — La musica più melodiosa riesce disaggradevole da che il tempo non è serbato e i concenti non han misura. Lo stesso accade nell’armonia della vita umana. Io, di cui l’orecchio è sì delicato da sentire le mende di questo istrumento, non ebbi senso bastante per rilevare i disordini che turbavano i miei Stati e la mia vita, sicchè perdei il tempo, ed ora il tempo m’infastidisce. Ma invano segno colle lagrime e i gemiti le ore e i minuti che scorrono nella gioia per l’orgoglioso Bolingbroke, e con gl’istanti del mio dolore misuro invano quelli della sua prosperità. Questa musica mi rende furioso; ch’ella cessi tosto. Se qualche volta richiamò gl’insensati alla ragione, a me sembra che dovesse operare il contrario. Nondimeno scenda la benedizione del Cielo sopra colui che me ne è largo! Cotesto è un tributo di amicizia; e l’amicizia per Riccardo è un tesoro ben raro in questo mondo, in cui sono universalmente odiato. (entra un Groom)
Groom. Salute, real principe.
Ricc. Grazie, nobile pari; il migliore di noi non vale dieci scellini. Chi sei tu? E come vieni qui? Qui dove alcun uomo non entra, tranne l’infausto carceriere che mi reca un po’ di cibo, onde prolungare questa vita di dolore?
Groom. Ero un povero servo delle tue scuderie, o re, allorchè tu regnavi. Viaggiando verso York, ho, dopo molte fatiche, ottenuto il permesso di rimirare il volto del mio antico signore. Oh, come il mio cuore fu straziato, quando scorsi per le vie di Londra, nel giorno dell’incoronazione, Bolingbroke, montato sul famoso ginnetto di cui voi stesso solevate servirvi, e ch’io alimentavo ogni giorno con tanta cura!
Ricc. Egli montava il mio ginnetto? Dimmi, amico, come comportavasi sotto di lui quel corridore?
Groom. Con tanta fierezza, che pareva sdegnar la terra.
Ricc. Oh, ei va sì superbo di portar Bolingbroke! E quell’ingrato animale mangiava il pane dalla mia regia mano, e inorgoglivasi delle mie carezze! Non doveva egli inciampare e rovesciare (perocchè l’orgoglio deve presto o tardi essere precipitato) l’altero che aveva usurpato su di lui il posto del suo signore? — Perdonami, povera bestia; follemente accagiono te che sei stato creato per essere sottomesso all’uomo, e che nascesti per portarlo. Io, che ero di più nobile specie, io sostengo il fardello come uno stupido giumento, e mi lascio immergere gli speroni nei fianchi, sotto i movimenti ambiziosi del superbo Bolingbroke. (entra il carceriere con un piatto)
Carc. Amico, (al Groom) sgombra; non v’è più da indugiare.
Ricc. Se mi ami, è tempo che te ne vada.
Groom. Ciò che la mia lingua non osa, ve lo dica il mio cuore. (esce)
Carc. Signore, volete mangiare?
Ricc. Assaggia tu prima, secondo il costume.
Carc. Signore, non ardisco; sir Exton, mandato qui dal re, mi ha imposto il contrario.
Ricc. Al diavolo tu e Enrico di Lancastro! La pazienza non regge e sono stanco di usarne. (batte il carceriere)
Carc. Aiuto! (entrano Exton e alcuni domestici armati)
Ricc. Che vuol dir ciò? Si intende ad uccidermi con questo vile assalto? Scellerato, (strappando un’arma a uno dei domestici ed uccidendolo) la tua mano stessa mi dà l’istrumento della tua morte. Vanne tu pure, (uccidendone un altro) e riempi un’altra stanza d’inferno. (Exton lo atterra con un colpo) Questa mano che mi trafìgge brucierà fra fiamme che non si estingueranno più. — Exton, la tua barbara mano ha contaminata questa terra col sangue del suo re! Ascendi, ascendi, mia anima! Il tuo seggio è ne’ cieli; intantochè il mio corpo materiale cade per morir qui. (muore)
Ex. Egli era pieno di valore e di sangue regio: fiaccai l’uno e sparsi l’altro. — Volesse Iddio che quest’opera fosse innocente! Il demone che m’induceva a compierla mi ammonisce ora che essa è notata negli annali di sotterra. — Questo re morto, recherò al re vivente: (troncandogli la testa) prendete gli altri suoi avanzi e sepelliteli qui. (escono)
SCENA VI.
Windsor. — Una stanza nel castello.
Entrano Bolingbroke e York con lôrdi e seguito.
Boling. Gentile zio York, le ultime novelle che udimmo ci arrecano che i ribelli arsero la città di Cicester: ma se fossero presi o uccisi, è ciò che ignoriamo. (entra Northumberland) Ben venuto, milord; quali novelle?
Nort. Dopo i miei voti per la prosperità del tuo regno, le novelle più recenti son queste: ho mandato a Londra la testa di Salisbury, di Spencer, di Blunt e di Kent: troverete in questo scritto (dandogli una carta) tutti i particolari che li fecero condannare.
Boling. Noi ti ringraziamo, gentil Percy, de’ tuoi servigi, e sapremo riconoscerli con eque e degne ricompense. (Entra Fitzwater)
Fitz. Milord, ho mandato da Oxford a Londra i capi di Brocas e di sir Bennet Seely: due de’ più pericolosi traditori della cospirazione, che intendeva ad assassinarvi in Oxford.
Boling. Le tue pene, Fitzwater, non saranno dimenticate: grande è il tuo merito, lo conosco. (entra Percy col Vescovo di Carlisle)
Percy. Il capo della congiura, l’abate di Westminster, oppresso dai rimorsi e divorato dall’angoscia del suo delitto, è sceso nel sepolcro: ma ecco Carlìsle in vita per subire la tua condanna regia, adeguata alla sua superbia.
Boling. Carlisle, ecco quello ch’io per te decreto: scegli qualche asilo più solitario, più romito di quello in cui dimori, e vivi in pace, innocente e libero. Tu fosti sempre mio nemico; ma io discersi in te talvolta qualche lucida scintilla di onore. (Entra Exton, con seguito portante una cassetta)
Ex. Gran re, colà dentro, (additando la cassetta) sta sepolto ogni tuo timore. Colà dentro, privo di vita, giace il maggiore dei tuoi nemici, Riccardo di Bourdeaux, qui da me recato.
Boling. Exton, non ti ringrazio, perocchè tu hai commessa un’opera di cui l’obbrobrio ricadrà sul mio capo e oscurerà tutto il mio regno.
Ex. Dalle vostre stesse parole, signore, fui indotto a questo atto.
Boling. Quelli che abbisognano di veleno, non amano però il veleno: e sebbene desiderassi lui morto, te non amo; chè amando il cadavere, aborro il suo carnefice. Abbi per tua mercede i rimorsi della coscienza, a non sperare da me nè accoglienze, nè favori. Va, come Caino, ad errare fra le ombra della notte; e non mostrar mai alla luce del dì il tuo volto odioso. Lôrdi, io dichiaro, che la mia anima è piena di ambascia, veggendomi così costretto ad annaffiar di sangue la mia corona per farla fiorire. Venite a gemere con me sulla sventura che deploro, e un duolo generale sia l’adornamento della nostra corte. — Farò un viaggio in Palestina per detergere la mia mano colpevole di questo sangue. Seguitemi sconsolati e mesti; e onorate il mio duolo, compiangendo la morte precoce di un infelice monarca. (escono)
fine del dramma.
Note
- ↑ Formola con cui, usando questo idioma, s’intende ad una negativa.