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136 | vita e morte del re riccardo ii |
di sapere il luogo in cui si nascondono. — Addio, zio, e tu pure, cugino, addio: vostra madre pregò a dovere; diventate leale.
Duch. Vieni, mio colpevole figlio; supplico Iddio che ti muti il cuore. (escono)
SCENA IV.
Entrano Exton e un domestico.
Ex. Non badasti che il re disse: perchè non ho io un amico che mi sollevi dall’inquietudine di saperlo vivo? Non disse così?
Dom. Furono le sue parole.
Ex. Non ho io un amico? Lo disse, e lo ripetè due volte, e sempre con espressione concitata. Non è vero?
Dom. È.
Ex. E dicendo ciò mi figgeva gli occhi in volto come se avesse voluto significare: vorrei che tu fossi l’uomo che liberasse la mia anima dal timore, intendendo con questo sicuramente di alludere al re che sta a Pomfret. — Vieni, andiamo colà; sono amico del re e vuo’ liberarlo dal suo nemico. (escono)
SCENA V.
Pomfret. — Le carceri del castello.
Entra il re Riccardo.
Ricc. Ho studiato lungo tempo in qual modo potrei paragonare questa prigione, in cui vivo, al mondo; ma poichè il mondo è pieno d’uomini, e qui non vi son che io di creature viventi, così non posso a ciò riescire. — Nullameno vuo’ provarmi ancora. La mia imaginativa feconderà il mio pensiero, e ne deriverà una generazione di idee che si riprodurranno da sè e popoleranno questo piccolo universo, che sarà bizzarro e fantastico come gli abitatori della terra: avvegnachè non vi sia alcun pensiero che di se medesimo vada pago. Le imaginazioni ambiziose versano su disegni difficili; sarebbe come se volessi che la punta di questo debole chiodo s’aprisse una via fra i fianchi pietrosi di questa prigione; e siccome esse non possono giungere al loro scopo, muoiono vittime del loro orgoglio. L’uomo, i di cui pensieri cercano la felicità, adula se stesso tanto da credere ch’ei non è il primo servo della fortuna, e non ne sarà l’ultimo; simile a quei mendichi insensati che, seduti sulle pietre, si nascondono