Vita di Giacomo Leopardi/Capitolo XIII
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Capitolo XIII.
A Bologna.
1825.
Sommario : Prime relazioni col Vieusseux. — Volgariaazamento delle Operette morali d'Isocrate. — Invito dello Stella di andare a Milano. — Il Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco. — Partenza per Bologna. — Accoglienze cordiali e nuovo amicizie, — Breve dimora a Milano. — Offerta di un
impiego a Roma. — Giacomo chiede il posto di segretario dell'Accademia di Belle Arti a Bologna. — Vita ed occupazioni di Giacomo a Bologna. — Lavori per lo Stella. — Traduzione del Manuale d'Epitteto. — Pratiche per il posto di segretario all'Accademia. — Risultato infelice.
In un giro che il Giordani fra l'estate e l'autunno del 1823 fece nella Liguria e nella Toscana, si fermò alcuni giorni a Firenze, attratto dalla bellezza della città e dalla cortesia degli abitanti. Strinse là relazione col Vieusseux e con la società di letterati e scienziati che facevano capo a lui ed alla Antologia, fra i quali il Niccolini, il Capponi e il Colletta, che ebbe poi specialmente cari, quando l'anno appresso, esiliato da Parma, andò a stabilirsi in quella città.
A Firenze, come dappertutto, con l'autorità che gli veniva dal nome, andò predicando meraviglie della dottrina e dell'ingegno dell'amico suo Leopardi, che poco conosciuto, a quel tempo, in Italia, era quasi sconosciuto in Toscana. Ne parlò con gran calore al Vieusseux, proponendoglielo come un prezioso collaboratore per la Antologia; e il 5 novembre, essendo sempre a Firenze, scrisse a Giacomo, invitandolo a mettersi in relazione col direttore di quella Rivista, del quale e della quale gli diceva un gran bene.
Il Leopardi scrisse al Vieusseux una prima lettera il 5 gennaio 1824, alla quale il Vieusseux rispose subito ringraziandolo della collaborazione offertagli, e proponendogli, fra le altre cose, di fare per lAntologia una specie di rivista trimestrale delle novità scientifiche e letterarie dello Stato pontificio.1 Il Leopardi replicò che era disposto a fare per lAntologia tutto ciò che poteva, ma che cotesto non poteva, perchè, diceva, chi vive a Recanati, cioè fuori del mondo, non può dare notizia di ciò che nel mondo succeda; e poiché allora stava scrivendo le Operette morali, si offrì di fare pel giornale qualche articolo di argomento filosofico. Il Vieusseux accettò, lasciando a Giacomo piena libertà, della scelta; ma, quale si fosse la ragione, egli né allora né più tardi, per quanto sollecitato, non scrisse niente. L'incarico della rivista trimestrale delle novità dello Stato pontificio fu poi assunto dal suo cugino Melchiorri.
Nel tempo che compose le Operette morali il Leopardi non ebbe agio di attendere ad altre opere. An-
che nello Zibaldone scrisse poco più che un centinaio di pagine, la maggior parte brevi note di lingua e di filologia. I pensieri morali sono appena una diecina, fra i quali notevole uno (scritto il 29 giugno, festa di san Pietro, giorno natalizio dell'autore) sugli effetti che l'infelicità abituale ed anche il solo essere privo di piaceri e di cose che lusinghino l'amor proprio produce
sopra lo anime più squisite, di renderle cioè a lungo andare insensibili e non curanti di tutto e di tutti. Il Leopardi rispondeva così senza saperlo all'accusa di egoismo che più tardi gli sarebbe stata fatta.
Le Operette morali furono, come sappiamo, finite di scrivere alla metà di novembre dei 1824. Un elenco, compilato da Giacomo il 25 febbraio del 1826, delle opere edite ed inedite da lui composto fino a tutto l'anno precedente, attribuisce agli anni 1824 e 1825 il volgarizzamento delle operette morali di Isocrate da pubblicarsi (è detto nell' elenco stesso) in Milano. Da una lettera di Giacomo allo zio Carlo Antici del 5 marzo 1825 rilevasi che cotesto operette sono le tre Parenesi, cioè gli Avvertimenti morali a Demonico, il Discorso del Principato, a Nicocle re di Salamina, e il discorso intitolato Nicocle; i quali, secondo che è detto nella lettera stessa, sarebbero stati tradotti allora allora, cioè nel precedente mese di febbraio : ma è probabile, quasi certo, che quelle traduzioni fossero state cominciate negli ultimi del 1824, subito dopo le Operette morali.
Il Leopardi, che aveva oramai esperimentato le sue facoltà come scrittore originale di prosa, volle
anche fare le sue prove nel tradurre in prosa dalle opere classiche, dove così infelicemente erano riusciti (quasi tutti gli scrittori italiani sin allora. Egli si era cimentato da giovanissimo a simile impresa coi volgarizzamenti da Frontone e da Dionigi; ma ora vi tornava con altre forze ; e queste sue traduzioni da Isocrate riuscirono un modello di semplicità e di eleganza.
Aveva intenzione, scrive allo zio, di tradurre in seguito il Gerone di Senofonte, il Gorgia di Platone, l'Orazione areopagitica dello stesso Isocrate, i Caratteri di Teofrasto, e forse qualcuno de' dialoghi d'Eschine Socratico. Voleva anche dare tradotta una scelta di Pensieri di Platone, sul genere di quella dei Pensieri di Cicerone dell' Olivet, ma più ampia. Di tutti questi lavori, che si era proposto di compiere in quell'inverno, non ne fece poi nessuno (eccettuata l' Orazione areopagitica, che tradusse più tardi), a cagione della salute molto malandata. < La mia salute, scrive con la citata lettera allo zio, è ridotta in grado tale, ch'io non posso fissare la mente in una menoma applicazione neppure per un istante, senza che lo stomaco
vada sossopra immediatamente, come mi accade appunto adesso, per la sola applicazione di scrivere questa lettera. >
Toccato il doloroso argomento della salute, sdrucciola nelle consuete lamentazioni sui danni prodotti ad essa dalla forzata residenza in Recanati. < Restando qui, scrive, io non posso altro che passare da cronicismo a cronicismo, come ho fatto per tutta la mia vita finora. Fuor di questo, io vivrei contentissimo, come Ella mi esorta, a Recanati, e anche nell'isola di Pasqua in mezzo all'Oceano Pacifico, poiché Ella sa bene che l'ambizione non è mai stato il mio vizio. > 2
Certo il Leopardi non era ambizioso, cioè una volgare ambizione non entrava nell'animo suo; ma egli
aveva pure un gran desiderio di sapere che cosa i letterati pensavano delle sue Canzoni (ne chiedeva anche allo zio);3 era smanioso di vedere che impressione avrebbero fatto le sue Operette morali; e finché stava rinchiuso in Recanati, questi suoi desiderii sentiva che non avrebbero potuto essere sodisfatti : voleva insomma vivere in un centro letterario; magari ci si sarebbe trovato male, e ne avrebbe poi detto malissimo; ma voleva viverci, perché aveva la coscienza che le suo prose e le sue poesie erano nella letteratura di quel tempo qualche cosa di nuovo e di forte, quale nessuno degli scrittori più famosi, compresi il Monti e il Giordani, aveva fatto o era capace di fare. Da qui le sue smanie d'uscire da Recanati.
In quei giorni gli ora spuntato un barlume di speranza, ma la paura di una nuova disillusione lo aveva trattenuto dal fermarvi la monte; tanto che il 6 maggio scrìveva al Giordani : < Io sono qui senza spcA BOLOGNA. 249
ranza di uscire. > L'editore Stella gli aveva scritto
il 5 marzo, chiedendogli il suo parere intorno alla pub-
blicazione che voleva imprendere di tutte le opere di
Cicerone nel testo latino, con traduzioni italiane di
varii, e pregandolo della sua cooperazione. Giacomo
rispose il 13, lodando in genere l'impresa, dando con-
sigli, e mostrandosi disposto a fare qualche tradu-
zione. La risposta di lui invogliò lo Stella a proporgli
di andare per qualche tempo a Milano per avviare
il lavoro. Il Leopardi, che non desiderava di meglio,
lasciò capire che sarebbe andato volentieri, se avesse
avuto il bisognevole pel viaggio e per la dimora. Que-
sta difficoltà fu rimossa dallo Stella, il quale offrì di
pensare alle spese. Giacomo, accettata l'offerta, di-
chiarò che sarebbe partito appena gli fosse giunto
il passaporto, che aveva già richiesto a Roma allo
zio Antici.
Sul punto di partire, richiese a un altro zio, il
conte Ettore Leopardi, una piccola somma, per non
mettersi in viaggio con le tasche assolutamente vuote;
la richiese per lettera, non avendo il coraggio di chie-
derla a voce ; e mandò la lettera per il curato, e Voi
sapete, scrisse allo zio, lo stato della nostra famiglia,
e conoscete bene la cagione per cui non ardisco d'im-
portunare i miei genitori con certe domande. >' Que-
sta cagione s' indovina facilmente : lo stato della fa-
miglia non poteva impedire ai genitori di dare al
figliuolo qualche denaro pel viaggio.
« ♦
Se il Leopardi non fece allora tutte le altre tra-
duzioni delle quali aveva scritto allo zio Antici, com-
pose però, e probabilmente lo finì prima di partire
Epistolario, voi. I, pag. 561. 250 CAPITOLO XIII.
da Recanati, il Frammento apocrifo di Stratone da
Lampsaco; che è, secondo me, il coronamento delle
Operette morali; ed è una delle prose migliori del li-
bro, nel suo genere perfetta.
Ricorrendo ad un artifizio che gli era caro, l' au-
tore finge di aver tradotta dal greco questa breve
scrittura, che tratta della origine e della fine del
mondo, e che egli attribuisce in parte a Stratone filo-
sofo peripatetico vissuto trecento anni avanti l' èra
cristiana, in parte a un dotto greco del secolo pas-
sato, che, avendo trovato in un codice il frammento
stratoniano, vi aggiunse in fine, suppone il Leopardi,
qualche cosa di suo; ciò a spiegare perchè, mentre
le idee intorno all'origine del mondo concordano a un
dipresso con quel poco che delle opinioni di Stratone
abbiamo negli scrittori, le idee sulla fine del mondo
sono fondate sopra dottrine assai più moderne.
Nelle Operette morali il Leopardi nega implicita-
mente, se non esplicitamente, che la vita dell'uomo
e dell'universo sia governata dalla provvida sapienza
di un ente supremo e sostituisce ad essa la natura,
cioè una forza cieca che opera fatalmente, producendo,
con perfetta indifferenza ed inscienza, quello che gli
uomini chiamano rispetto a loro bene e male; più
spesso il male che il bene. Col Frammento apocrifo
di Stratone egli fa apertamente l' ultimo e più ar-
dito passo verso le dottrine dei materialisti: am-
mette l'eternità della materia, e di una forza arcana
insita in lei, la quale dà moto e vita all' universo, e
produce e trasmuta perennemente le forme della ma-
teria. 1 mondi e lo cose tutte che in essi esistono,
animate ed inanimate, non sono altro che forme della
materia; perciò nascono, crescono, scemano e in fino
periscono. La materia, che non ha avuto principio,
che d sempro esistita, non cresce nò scema; nò si
perde di lei la menoma particella. Ai mondi e alle
cose, che periscono e periranno, succedono e succeA BOLOGNA. 251
deranno perpetuamente altri mondi e altre cose, cioè
altre forme della materia.
La breve scrittura finisce con una singolare ipo-
tesi sulla fine del mondo, la quale è piuttosto fan-
tastica che scientifica.
Il 6 maggio 1825 il Leopardi, scrivendo al Gior-
dani, gli diceva: < Io studio il dì e la notte fino a
tanto che la salute me lo comporta. Quando ella non
lo sostiene, io passeggio per la camera qualche mese ;
e poi torno agli studi : e così vivo. Quanto al genere
degli studi ch'io fo, come io sono mutato da quel
che io fui, così gli studi sono mutati. Ogni cosa che
tenga di afi"ettuoso e di eloquente mi annoia, mi sa
di scherzo e di fanciullaggine ridicola. Non cerco al-
tro più che il vero, che ho già tanto odiato e dete-
stato. Mi compiaccio di sempre meglio scoprire e
toccar con mano la miseria degli uomini e delle cose,
e d'inorridire freddamente, speculando questo arcano
infelice e terribile della vita dell'universo. >* In que-
ste parole, s'io non m'inganno, si sente l'uomo che
ha levato appena, o, forse, non ha levato ancora la
mano dalle Operette morali. Forse egli stava allora pen-
saitdo, o scrivendo, il Frammento apocrifo di Stratone.
Anche i pensieri filosofici scritti in quell'anno 1825
nello Zibaldone sono dello stesso genere delle Ope-
rette morali.
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Quando nel luglio venne il momento di partire per Bologna, il Leopardi era malato d'occhi ; ma an- che questa volta la partenza fu come una medicina al suo male. Il gran sole e il gran caldo patiti pel viaggio non lo fecero peggiorare; e appena arrivato a Bologna (la sera del 18 luglio), quasi per incanto
- Epistolario, voi. I, pag. 547. 252 CAPITOLO XIII.
si sentì meglio. Trovò ad aspettarlo il Giordani e il Brighenti, che gli fecero gran festa ; e poiché il Gior- dani aveva piena tutta Bologna delle sue lodi, trovò da per tutto le più lusinghiere accoglienze. Non è perciò da meravigliare se il 22 luglio scriveva al pa- dre che, per quanto il termometro fosse salito a 29 gradi, egli era talmente migliorato della salute, che nessuno strapazzo gli faceva più male, e mangiava come un lupo. Bologna lo allettò talmente, che si sa- rebbe volentieri risparmiato d'andare a Milano, e cer- cava scuse a sé stesso per indugiare la partenza. In quei primi giorni ebbe quasi sempre la compa- gnia del Giordani; fecero, si può dire, vita insieme. Avevano tante cose da dirsi, che dovè mancare il tempo, non la materia, ai loro discorsi. Il Giordani non gli aveva ancora parlato delle Canzoni, intorno alle quali aveva forse già cominciato a scrivere l'arti- colo, che poi rimase incottipiuto fra le sue carte.' Quello dovè certo essere uno degli argomenti, e non il meno interessante, dei loro colloqui. Anche avrà il Giordani domandato spiegazioni all'amico intorno al genere di studi del quale gli parlava con la sconsolata lettera del G maggio; e ciò sarà stato occasione a discorrerò fra loro dello Operette morali, che per il Giordani erano assolutamente una novità, e ch'egli dovè subito desiderare di conoscere. Giacomo diede probabilmente allora al Giordani il manoscritto del libro. Allo conversazioni do' due amici doverono più d'una volta assistere e prendere parto il Briglicnti, e i due nuovi amici che il Leopardi aveva acquistati venendo a Bologna, il conto Carlo Pepoli e il conte An- tonio Papadopoli; tutti e due giovani, tutti e duo amanti delle lettere, e pieni di uinmiraziono per il Leopardi, al quale si affezionarono subito, e si misero I I ' Fu poi pubtiliciito dui QuimaIU iioUo Optrt dol Qiordani; voi. IV dogli Scritti, p«g. 116 o oog. A BOLOGNA. 253 subito dattorno, per farlo restare a Bologna. Il Pa- padopoli in special modo metteva una specie di ambi- zione nell'averlo con sé, per guida e consiglio ai suoi studi: e il Leopardi lo ebbe subito c^ro, perchè tro- vava in esso una grande somiglianza di sentimenti e di pensieri col suo fratello Carlo. Probabilmente in uno di quei colloqui il Giordani, o il Brighenti, o tutt'e due, suggerirono al Leopardi di chiedere il posto di segretario generale dell'Acca- demia di Belle Arti di Bologna ; posto che aveva già tenuto il Giordani prima del 1815, e che essi consi- deravano come vacante, perchè occupato provvisoria- mente da un interino. L'idea dovè a tutti parer buona, e sorrise in special modo al nostro poeta. Egli si sen- tiva come rinato nella mutazione di Recanati con Bologna. Aveva finalmente trovato delle persone che lo intendevano, che lo apprezzavano, che si interes- savano per lui. Perciò gli dispiaceva il partire. Ma lo Stella lo aspettava con impazienza, e il corrispon- dente di lui lo sollecitava. Bisognò dunque rompere gì' indugi. Partì il 27 luglio, ed arrivato a Milano il 30, il giorno dipoi scrisse a Carlo che gli pareva impossi- bile di poter durare in quella città neppure una set- timana. Sospirava per Bologna, dove era stato quasi festeggiato, dove in nove giorni aveva contratto più ami- cisie che a JRoma in cinque mesi, < dove i forestieri, diceva, non trovano riposo per le gran carezze che ricevono, dove gli uomini d'ingegno sono invitati a pranzo nove giorni ogni settimana, dove Giordani mi assicura ch'io vivrò meglio che in qualunque altra città d'Italia, fuorché Firenze.... In Bologna nel ma- teriale e nel morale tutto è bello :... gli uomini sono vespe senza pungolo ; e credilo a me, che con mia in- finita meraviglia ho dovuto convenire con Giordani e con Brighenti (brav'uomo), che la bontà di cuore vi si trova effettivamente, anzi vi è comunissima, e 254 CAPITOLO XIII. che la razza umana vi è differente da quella di cui tu ed io avevamo idea. >' A Milano andò ad alloggiare in casa degli Stella, dai quali ricevè grandi cortesie; ma il tuono mercan- tile della casa, la quale gli parve a prima vista la peggior locanda che gli fosse toccata nel viaggio^ gli diede da principio un po' d'imbarazzo; poi le prime impressioni si modificarono ; a poco a poco si assue- fece alle abitudini della famiglia e della città, e finì col trovarcisi abbastanza bene, nonostante che l'aria, i cibi e le bevande non gli si confacessero. Andò a visitare il Monti, che lo accolse molto benignamente e Io pregò a tornare spesso da lui ; ma non ci tornò, perchè la prima volta dovè sputar sangue per parlajr- gli in modo da poter essere inteso; e poi il Monti di lì a poco andò a Como.* Lo Stella usava al Leopardi ogni maniera di cor- tesie per trattenerlo a Milano; ma la ripugnanza al lavoro faticoso e noioso del Cicerone, e il desiderio di tornare a Bologna gli diedero la forza di resistere alle insistenze dell'editore ; e fu stabilito che, appena avviata l'impresa, se ne tornerebbe a Bologna, di dove seguiterebbe ad esercitare sopra di essa una lontana sopraintendenza. Lo Stella gli assegnò, per i lavori (aiti e da farsi, dieci scudi al mese, come un acconto, Senna pregiudizio di quél più che potessero meritare le sue fatiche letterarie dentro l'amio." La corrispondenza epistolare di Giacomo coi suoi in questa sua lontananza da casa era frequente e molto nutrita; quella con Carlo e Paolina affettuosa ed espansiva; quella col padro rispettosa o paziente. Monaldo, benché il cognato Antici avesse cercato di rassicurarlo dicendogli che Milano ora una città meno pericolosa delle altre, perchò aveva una polizia vi-
- EpMo!aHo, rol. II, pAg. 7.
- Idem, pAg. 14, 24.
- Idem, pAg. 26. A BOLOGNA. 255
gilante e severa, era molto inquieto di sapere là suo figlio, e non ebbe pace finché non lo seppe tornato a Bologna: ' almeno qui era più vicino, era nello Stato. Se non potò dargli denari per provvedere al suo man- tenimento, si sentì in dovere di non fargli mancare i suoi consigli, che Giacomo accettava con deferenza, salvo poi fare a modo suo. Lo zio Antici aveva scritto a Giacomo a Bologna il 21 luglio di un'ofierta d'impiego a Roma fatta per lui al Bunsen dal Segretario di Stato ; e Giacomo, che si fidava poco delle promesse romane, rispondeva da Milano il 3 agosto, che ove il Governo non gli assi- curasse prima un buono e durevole stahilimetìto, non si sarebbe mosso ; intanto pregava lo zio di ringraziare il Bunsen e di interessarlo per il posto di segretario dell'Accademia di Belle Arti in Bologna, ch'egli avrebbe preferito ad un impiego qualunque in Roma. Lo zio rispose il 20 agosto che il Bunsen aveva già iniziato le pratiche per il posto di Bologna; e diede subito notizia della cosa a Monaldo, comunicandogli la let- tera con la quale il Segretario di Stato, ad istiga- zione del Bunsen, aveva raccomandato Giacomo al Cardinale Legato di Bologna per il posto dell'Acca- demia. La lettera conteneva lodi altissime di lui, di- ceva che la nomina di questo ottimo giovane era de- siderata dal Santo Padre cui erano noti i suoi meriti letferarii, e soggiungeva : < Non vorrà l'Accademia ri- nunciare alla gloria di avere un tale Segretario. >' Le lodi del figlio doverono naturalmente far piacere an- che a Monaldo, benché egli, come appare dalle sue lettere,' non desiderasse troppo vivamente in cuor suo che la cosa riuscisse ; ma Carlo ne fu a dirittura en-
- Vedi Lettere dei parenti, pag. 121.
- Vedi nell'articolo di Carlo Bandini, Il Leopardi alla ri-
cerca d'impiego, pubblicato nella Rassegna Nazionale {l& otto- bre 1902), la lettera del Cardinale della Somaglia, a pag. 664. ' Vedi Lettere dei parenti, pag. 121, 122. 256 CAPITOLO xm. tusiasta, e tanto la nomina di Giacomo gli parve si- cura, che scrivendogli cominciò la lettera con le pa- role : < Caro segretario. > Probabilmente anche Gia- como sperava nella buona riuscita di queste pratiche, benché ai suoi scrivesse il contrario.
- *
Giacomo si era trattenuto a Milano fino agli ultimi di settembre. Ne partì il 26, ed arrivò a Bologna la mattina del 29. A Bologna prese in affitto per un mese un appartamentino in casa di una famiglia Aliprandi, che abitava presso il Teatro del Corso in casa Badini, e che pensava a farlo servire e dargli da mangiare, perche egli non amava di profittare degli inviti a pranzo fuori di casa. Così scriveva al padre pochi giorni dopo il ritorno, ragguagliandolo dei patti conchiusi con lo Stella e degli altri guadagni coi quali sperava potersi mantenere convenientemente in Bologna. Oltre i dieci scudi mensili dell'assegno fattogli dall'editore, ne aveva altri otto per una lezione di latino ad un ricco signore greco. Per un'altra lezione di latino e di greco al suo amico Papadopoli non aveva fissato niente; ma son certo, scriveva al padre, che ciò non sarà con mio pre- giudizio. Monaldo, c'era da aspettarselo, non approvò con molto entusiasmo questo stabilimento del figliuolo. < Piuttosto che mettersi allo stipendio di uno stam- patore mercante, gli scrisse, avrei creduto meglio il pattuire che vi pagasse i vostri scritti un tanto al fo- glio ; così, piuttosto che ricevere otto scudi mensili dal greco, ne avrei accettato un dono non pattuito. Secondo lo nostro antiche idee, e forse pregi udizii, questi emolumenti mensili mi sembrano alquanto umi- lianti. >' Ma Giacomo, cho pur tenendo alla sua no- biltà non aveva quei pregiudizii, risposo da uomo < V«di IMUrt iti partntl, pag. 126. A BOLOGNA. 257 pratico che quelli assegni mensili gli tornavano co- modi, e che nelle idee di quella città non v'era nulla di vile annesso alla funzione di precettore.* Pochi giorni dopo, il 10 ottobre, scriveva al fratello, descrivendogli la sua vita in Bologna : < Io qui sono trattato da' miei ospiti molto bene e amorosamente, ed anche con gran ri{i:uardo, perchè mi stimano una gran cosa. Mi alzo alle 7, scendo subito al caffè a far colezione. Poi stu- dio. Alle 12 vado da Papadopoli, alle 2 dal Greco. Torno a casa alle 3, vado a pranzo alle 5, per lo più in casa, e se ho inviti mi seccano. La sera la passo come Dio vuole. Alle 11 vado a letto. Eccoti la mia vita. Quelle lezioni, che mi sventrano la giornata, mi annoiano orribilmente. Fuor di questo non avrei di che lagnarmi. Questi letterati che da principio, come mi è stato detto e ridetto, mi guardavano con invidia e con sospetto grande, perchè credevano di dovermi trovar superbo e disposto a soverchiarli, sono poi stati contentissimi della mia affabilità, e di vedere ch'io lascio luogo a tutti; dicono finora un gran bene di me, vengono a trovarmi, e sento che stimano un acquisto per Bologna la mia presenza. >* A Milano il Leopardi aveva dato allo Stella, da pubblicare nel Nuovo Bicogliiore, il frammento di tra- duzione da Senofonte, Della impresa di Giro ; gli aveva lasciato, da stamparsi in un volumetto a parte, il Mar- tirio dei Santi Padri; aveva messo insieme gli ele- menti e scritto i due manifesti latino e italiano per la edizione delle opere di Cicerone; aveva stabilito di fare una interpretazione delle rime del Petrarca, e di mettere a disposizione dell'editore tutte quelle opere, di qualunque genere fossero, che gli venisse fatto di comporre. Da Bologna gli scrisse il 21 ottobre domandando- gli se pensava di stampare il Martirio, e proponen- » Epistolario, voi. II, pag. 31, 82. « Idem, pag. 83, Chiarini, Leop. 17 258 CAPITOLO XIII. dogli una collezione di Operette morali di vari autori greci, volgarizzate, della quale aveva già in pronto il primo tometto, e nella quale avrebbero potuto aver luogo i Caratteri di Teofrasto, i Pensieri di M. Au- relio, e soprattutto i Pensieri di Platone. < Ciascuna operetta, diceva, si potrebbe stampare in modo che stesse anche da sé, e potesse vendersi separatamente. >' Lo Stella rispose che sperava di pubblicare il Mar- tirio entro l'anno, e che era ben contento eh' egli vo- lesse occuparsi della collezione di operette morali di autori greci, della quale lo pregava di mandargli il manifesto. Intanto andava ristampando nel Nuovo Pi- coglitore le Annotazioni alle Canzoni con innanzi Parti- coletto critico su le canzoni stesse scritto dal Leopardi, e si disponeva a pubblicarvi alcune poesie greche da lui tradotte e mandategli in quei giorni. Non so se fra queste poesie greche, delle quali lo Stella scriveva al poeta con lettera del 31 ottobre,' ci fosse anche la Satira di Simonide sopra le donne, la quale real- mente comparve nel Nuovo Ricoglitore (Anno I, 1825, pag. 829) ; ma le altre, qualunque si fosse la ragione, non vi comparvero. Credo che queste poesie fossero i frammenti di Archiloco, di Alessi Turio, di Anfide Ate- niese, di Eubulo Ateniese e di Eupoli comico, tratti da Stobeo, da Ateneo e dal Toup nelle note a Longino, che il Leopardi tradusse nel 1823 e nel 1824, e dei quali prese nota nell'elenco dei suoi scritti compilato nel 1826 con queste parole: < Volgarizzamenti di alcuni versi morali dal greco, da pubblicarsi nel Nuovo meo- glitore. > Quei frammenti rimasero sempre inediti, e si sono poi ritrovati fra lo carte leopardiane rimaste al Ranieri dopo la morte dell'autore. Il 16 novembre Giacomo tornava a parlare allo Stella della raccolta dei moralisti greci, nella quale
- Bpitiotario, voi. II, p«g. 88.
■ Idem, Tol. Ili, png. 810. A BOLOGNA. 259 aveva intenzione di mettere un volume di Pensieri morali tratti da libri perduti di antichi scrittori ffreci, opera che sarebbe tratta da Stobeo, e gli ripeteva di aver già in pronto la materia del primo volumetto della raccolta, il quale conterrebbe i Bagionamenti morali d'Isocrate, soggiungendo che li aveva fatti leg- gere, insieme col frammento di Senofonte pubblicato nel liicoglitore, al Giordani (il quale agli ultimi di ottobre era ripassato da Bologna), e che tanto lui quanto altri lo avevano assicurato che erano modelli di perfezione in fatto di volgarizzamenti. Questi giudizi incoraggiarono il Leopardi a segui- tare il lavoro per la raccolta dei moralisti greci, e subito dopo pose mano alla traduzione del Manuale di Epitteto, alla quale era consigliato anche da altre ragioni. Fin da quando, sperimentata l'inutilità di contrastare al suo destino, passò dalla disperazione alla rassegnazione, gli parve di trovare nelle dottrine d' Epitteto gì' insegnamenti pratici più adatti alle mi- sere condizioni della sua vita; e fin d'allora ebbe forse l'idea di tradurre il Manuale. Ma mentre at- tendeva a tradurlo, una lettera dello Stella figlio gli rammentò il Petrarca, dicendogli che suo padre, prima di por mano all'impresa dei moralisti, inten- deva pubblicare il Canzoniere.* Il Leopardi, che non sospettava ciò, chiese licenza di terminare Y Epitteto, dicendo che poi avrebbe ripreso il Petrarca e non avrebbe pensato ad altro. Intanto (s'era alla fine di novembre) il Papado- poli era partito da Bologna per un viaggio a Firenze, a Roma e a Napoli, e il Greco pare non avesse più voglia di studiare il latino. Ciò dimezzava i guadagni del Leopardi, e metteva in pericolo la sua dimora in Bologna. Scrivendo il 30 novembre al Papadopoli, ed accennando alla lezione del Greco perduta, diceva:
- Vedi Epistolario, voi. Ili, pag. 317. 260 CAPITOLO XIII.
< Questa ancora è una delle mie fortune. > Ma la for- tuna, se gli mancava da una parte, lo soccorreva dal- l'altra. Lo Stella, il quale desiderava che il Leopardi lavorasse unicamente per lui, gli propose, proprio al- lora, di lasciare le lezioni e di dare tutto il suo tempo alla revisione del Cicerone, al Petrarca e ai moralisti greci, dicendogli: < Già s'intende che i dieci scudi al mese ch'Ella ritrae dalle lezioni (allo Stella il Leo- pardi aveva scritto che il Greco gli dava sei scudi e il Papadopoli quattro) verrebbero suppliti da me. > ' 11 Leopardi accettò con riconoscenza; e fu convenuto che, a cominciare dal gennaio 1826, egli riceverebbe dallo Stella pe' suoi lavori l'assegno di venti scudi al mese, che gli assicurava la permanenza fuori di casa. ♦
- *
Mentre Giacomo attendeva ai suoi lavori per lo Stella, non dimenticava il posto di segretario dell'Ac- cademia. Eran passati dei mesi, e né lui nò il Bunsen non sapevano il resultato della lettera del Segretario di Stato al Cardinale Legato; benché questi avesse mandato la sua risposta fino dal 24 agosto. La sostanza della risposta era: che l'ufficio non poteva ora conferirsi stabilmente, e non poteva con- siderarsi vacante, essendo tenuto da un interino, certo Francesco Tognetti, al quale sarebbe stato ingiusto preferire un altro. Il Segretario di Stato capì che non c'era niente da fare; ma non ebbe coraggio di comunicare l'esito negativo delle sue pratiche al Bun- sen. Invece gli scrisso offrendo al Leopardi la catte- dra di eloquenza greca o latina nella Università di Roma. Il Bunsen comunicò immediatamente l'offerta al liCopardi, invitandolo a partire subito por la ca- pitale. Ma Giacomo, cui dispiaceva lasciare Bologna,
- MjpMolarto, rol. ITI, pag. 820. A BOLOGNA. 261
pur dichiarandosi grato dell'offerta, si mostrò restio ad accettarla e mise innanzi alcune difficoltà. Insi- stendo però il Bunsen, si lasciò vincere alle solleci- tazioni di lui, e il 28 d'ottobre gli scrisse ch'era di- sposto di recarsi subito a Roma al primo cenno del Governo; se non che lo pregava di fargli sommini- strare i mezzi pel viaggio, ai quali non aveva modo di provvedere da sé. A ciò il Bunsen provvide egli stesso, mettendo a disposizione del Leopardi una somma in Bologna.* Ma anche prima d'aver notizia dell'atto liberale del suo protettore, il Leopardi, già pentito dell'accettazione, gli riscrisse in data 16 no- vembre, scusandosi di non potere assolutamente an- dare, perchè alle sue disgrazie si era aggiunta una ostinata malattia intestinale^ che gli rendeva insoppor- tabile il moto, massimamente della carrozza; e lo pre- gava a far nuove premure presso il Governo ponti- ficio per il posto di segretario dell'Accademia, o per qualche altro piccolo emolumento in Bologna piuttosto che altrove. Il Bunsen tornò allora ad insistere per il segre- tariato dell'Accademia. E dietro le insistenze di lui il Segretario di Stato il 4 novembre scrisse diret- tamente al Cardinale Camerlengo da cui dipendeva la nomina, suggerendo il modo di provvedere al To- gnetti, e dicendo che la nomina del Leopardi era de- siderata da Sua Santità, da parecchi de' più distinti soggetti del Corpo diplomatico, e per ultimo da lui, che si professava ammiratore sincero de' talenti del suo rac- comandato.' Il Cardinale Camerlengo rispose subito una let- tera molto cortese ed untuosa, dicendo che fra qual- che giorno si sarebbe recato a Roma, e che uno degli
- Vedi Epistolario, voi. II, pag. 62.
- Vedi nel citato articolo di Carlo Bandini, nella Baasegna
Nazionale del 16 ottobre 1902, la lettera del Segretario di Stato al Cardinale Camerlengo, a pag. 669. 262 CAPITOLO XIII. oggetti di cui prima d'ogni altro si sarebbe occupato^ sarebbe stata la nomina del suo raccomandato. La cortese risposta dovette parere al Segretario di Stato una promessa bella e buona; e come tale la spese col Bunsen; il quale si affrettò a comunicarla al Leo- pardi, dicendogli che oramai la sua nomina gli pa- reva sicura.' Il Camerlengo si recò infatti a Roma, e si occupò subito della cosa; ma ecco in qual modo. Nella udienza del 21 novembre presentò a Sua Santità una Belatone, con la quale, premesso non essere conveniente fare nessuna nomina mentre pen- deva ancora la riforma dell'Accademia, diceva che informatosi dell'indole e della condotta del Leopardi, era venuto a conoscere essere egli in vero dotato di molta dottrina, massime nelle lettere greche ed italiane^ e d!un ingegno veramente grande e straordinario, ma esservi al tempo stesso motivo di dubitare della retti- tudine delle sue massime, sapendosi essere egli molto amico ed intrinseco di persone già note per il loro non savio pensare e avendo, benché con molta astuzia, fatti trapelare i suoi sentimenti assai favorevoli alle nuove opinioni morali e politiche in odi italiane da lui stam- pate l'anno trascorso in Bologna. Dopo di che la re- lazione concliiudeva, non essere prudente impiegare il Leopardi in Bologna lontano alquanto dagli occhi del Governo che puh sopravvegliarlo ; ma che essendo egli di età ancor fresca e capace di rimettersi sul buon sentiero, se mai ne avesse traviato, si riteneva oppor- tuno clie fosse occupato in lioma nella Vaticana, come scrittore o in altro modo dove potesse sviluppare me- glio i suoi talenti e insieme tenuto con ritegno e ve- gliato nella sua morale e politica condotta. l'or quanto buono fossero le disposizioni del Pon- tefice verso il Leopardi, che altro poteva egli fare, « Veli //'./'./■/«, voi. II, png. 61. A BOLOGNA. 263 davanti ad una relazione come questa, se non appro- vare le proposte del Cardinale Camerlengo ? E le ap- provò. Della ragione vera per la quale Giacomo non ebbe il posto dell'Accademia, nò egli, né i suoi parenti, né gli amici, nò il Bunsen, non trapelarono mai niente : la verità è venuta à galla soltanto due anni fa, per le ricerche di uno studioso, il signor Carlo Bandini ; il quale, narrati e documentati i fatti, che io ho bre- vemente esposti, osserva: < Se l'eco dei discorsi tenuti in quella udienza pontificia si potesse ridestare, noi per certo sentiremmo risuonare, nella dorata sala, con la voce del Galeffi (il Cardinale Camerlengo) un nome — quello di Pietro Giordani, il temuto demone da cui si doveva tener lontano il più possibile G. Leo- pardi. >' Povero Giordani! Chi glie lo avesse detto! Egli che adorava il suo Leopardi, che avrebbe messo sossopra il mondo pur di vederlo contento! Ma egli odiava ferocemente i preti cattivi, e i preti cattivi lo ripagavano di eguale moneta. Il Bunsen il 27 gennaio 1826 scrisse al Leopardi ragguagliandolo dell' infelice resultato delle sue pra- tiche per il posto dell'Accademia, e proponendogli una cattedra a Berlino o in Roma. E Giacomo, ri- spondendogli il V febbraio, giudicava la condotta del Governo così : < Il mio affare.... è una nuova prova del quanto poco, anzi nulla, ci possiamo noi confi- dare in questo nostro Governo gotico, le cui promesse più solenni vagliono meno che quelle di un amante ubbriaco. > ' Bandini, articolo citato, pag. 676.