Vecchie storie d'amore/III/Agnesina
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AGNESINA
Sec. xiii.
I.
Guglielmo Berlinghieri e Rinaldo Imberali erano accesi l’uno e l’altro, ma piú il secondo, d’una bella giovane che aveva nome Agnesina ed era figliola d’una ricca e savia donna di Firenze. Guglielmo, in cambio del suo amore riceveva sorrisi e lusinghe, e Rinaldo invece irrisioni e dispetti; e l’Agnesina che non amava niente Rinaldo s’innamorava senza misura di Berlingieri.
Ciò suole avvenire; ma Rinaldo Imberali si consumava per la ventura altrui e la propria infelicità, e per il pensiero della fanciulla, non meno trista che bella, smarriva i desideri e la fiducia dell’età sua e fino la voglia di vivere; e sembrava perdere anche la salute e la mente. Onde i suoi comprendendo che il figlio, quantunque piú smemorato nei dí che non vedeva la giovane, dal vederla traesse sempre esca nuova alla fiamma e nuova ferita alla piaga, pregarono un amico, a lui caro e fedele, di condurlo a un suo luogo vicino a Firenze. Colà Rinaldo mostrò di acquetarsi il giorno nelle caccie e nei diporti, ma la notte inforcava di nascosto il cavallo e per accostarsi al suo tormento vagava intorno la città. Ne scorgeva una porta aperta? Egli v’entrava ansioso e angoscioso a cercarvi la nota casa.
Avvenne frattanto che l’Agnesina si crucciò con la madre, la quale, scoperti i segni e le risposte di lei a Guglielmo e temendone, la teneva rinchiusa, e tanto s’infastidí del rigore materno che per mezzo della fantesca avvertí l’amante di voler fuggire con lui. E la fantesca aggiunse: — A notte fatta voi verrete a cavallo; ella sarà pronta su l’uscio e si getterà in groppa: è leggera e sa ben cavalcare.
Guglielmo rispose che di ciò era lieto; e su ’l far della notte due suoi amici andarono per lui alla porta della città affinché non la serrassero e affinché, se bisognasse, potessero dargli aiuto e accompagnarlo con i loro cavalli nella fuga; ed egli, al tempo che gli parve opportuno, passò dalla casa dell’Agnesina. Ma la fanciulla, impedita dalla madre che non dormiva, non era per anche discesa, e neppure quando il cavaliere tornò a passare; e il cavaliere credé aver troppa fretta e si dilungò per la via.
Allora allora l’Agnesina potè correre a basso; e indi a poco, palpitante e giuliva, udí accostarsi un cavallo. Non era Guglielmo Berlinghieri; era Rinaldo Imberali, il quale scorrendo come di solito presso a Firenze, veduta quella porta aperta, di null’altro in pensiero che del suo amore s’era incamminato per la buia contrada. L’Agnesina disse: — Son qui! —; e a Rinaldo nell’udire quel motto e nell’osservare quell’ombra bianca nell’oscurità, che gli faceva cenno della mano, sembrò di sognare: spinse il cavallo all’uscio della casa e colse in groppa, co ’l braccio, l’Agnesina.
Rinaldo punse il cavallo. Alla porta, i compagni di Guglielmo, aspettando che l’amico, secondo l’accordo, si fermasse a chiamarli, non guardarono a chi trascorreva cosí in fretta e in silenzio.
II.
Il cielo era stellato, ma la strada, lontano dalla città e da ogni casolare e campo, saliva ai monti e s’internava tra due falde boschive e dense come in una notte cupa.
Il cavallo, benché valido, accortosi del doppio peso, rallentava il galoppo e sbuffava; e tuttavia Rinaldo Imberali lo feriva degli sproni perché salvasse il suo amore: l’Agnesina, che impaurita chiudeva gli occhi e sentiva la frescura ventarle i capelli, con le braccia stringeva piú forte il petto del giovane; e il cuore di lui palpitava sotto la destra di lei. Egli, quando a quando, rivolgeva il viso e le susurrava su ’l capo: — Anima mia! — ed ella taceva rabbrividendo; ma a un punto l’Agnesina sospirò: — Guglielmo! —, e Rinaldo comprese d’improvviso e allibí. Tacque: non sarebbe stato da stolto perdere ciò che per sorte aveva in suo potere? “Saprò trovare sí buone parole — pensava — che m’ascolterà e l’avrò in pace prima di giorno; ma dove andremo?„; mentre essa che non ardiva domandargli “Dove ci fermeremo?„, si fidava tutta nel cuore che sentiva battere sotto la sua mano.
La strada, dopo che i fuggitivi ebbero corso forse dieci miglia, risaliva erta per una folta e fosca abetaia, dove a Rinaldo parve di poter riposare; ed ivi ristando legò il destriere a un abete; poi, prese una mano della fanciulla e, senza piú velare la voce, le disse: — Qui, anima mia, saremo sicuri —. Alle parole di lui l’Agnesina vide che non era Guglielmo e con un grido di spavento, quasi riconoscesse un suo mortale nemico, riconobbe Rinaldo. Rinaldo si mise a supplicarla dicendo: — Agnesina, ascoltatemi e non temete di me; ma alla fanciulla s’annodarono in gola parole e singhiozzi, finché copertasi con le mani il volto in atto di vergogna e sciagura, proruppe in pianto.
— Ascoltatemi — supplicava Rinaldo fuori di sé medesimo, perché temeva di perdere la nuova speranza. — Voi mi chiamaste; io credetti che alla fine v’avesse presa pietà di me e voleste darmi la maggior consolazione che uomo provasse mai al mondo. Solo a mezza, strada mi diceste: “Guglielmo „, e io m’accorsi dell’inganno; ma allora che cosa potevo, che cosa dovevo fare? Ricondurvi alla madre? Questo farò adesso, se voi volete, e tosto che il cavallo abbia riavuto il respiro; io vi ricondurrò, ma la madre, adesso come allora, v’accoglierà con sospetti e n’avrete rimbrotti e castigo.
Oh quanto l’Agnesina piangeva duramente senza dare ascolto a Riccardo! Il quale proseguiva:
— La colpa non è stata mia, non vostra, non di Berlinghieri: è stata della mia fortuna, che mi ha condotto alla vostra casa prima di Guglielmo e ora mi fa vedervi così! E voi credete che chi vi vuole tanto bene potrebbe lasciarvi in simile guaio se potesse consolarvi un poco?
L’Agnesina, ascoltando Rinaldo, piangeva sempre duramente.
E Rinaldo, tuttavia concitato e tremante, continuò a maledire la sorte per cui egli, anzi che rallegrarsi, doveva affliggersi dell’avere in sua mano la donna desiderata: ma poiché la fanciulla non si quetava, egli riprese a dire delle parole savie.
Diceva con voce tenera: — Io non vi offenderò mai; Agnesina. Voi, che non avete uguali in bellezza, siete uguale nell’onestà ad ogni altra piú gentil donna di Firenze ed io conosco che Guglielmo mi sopravanza in valore e cortesia e che meritava tutto da voi. Ma quando ce ne torniamo, neppure Guglielmo vorrà persuadersi che io non vi abbia tócca; e se la madre vi scaccerà, e se Guglielmo non vi crederà, dove andrete voi, a chi vi affiderete voi?
L’Agnesina piangeva meno duramente, meravigliata delle oneste parole del giovane; e questi se ne avvide e il conforto che ne ricevette lo rimise nella concitazione di prima.
— Crudele vicenda di tre! — diceva —. Ma dei tre io non avrò pace mai piú; io stolto, che vi voglio bene come Guglielmo; e voi, non per voi ma per Guglielmo, seguitate a piangere!
E le chiedeva perdono di quel suo amore quasi di un’azione cattiva: le diceva i molti disagi, le lunghe notti insonni, i gravi martíri patiti per lei, e gli sdegni dei suoi e gli scherní dei compagni e i giochi e le feste che volentieri aveva obliati per lei, fino a consumarsi per lei l’anima e il corpo. Ma l’Agnesina pareva ascoltare un’altra voce che le discorresse nel petto. L’ammoniva l’altra voce di non trarre a morte Rinaldo; a pensare ch’egli non aveva altra colpa che di amarla molto e che colpevole era piuttosto Guglielmo, il quale dimentico o falso non s’era trovato a prenderla fuggente di casa; a considerare come bel giovane fosse pure Rinaldo e in che onore la tenesse: perché non raccogliere il piacere che da tempo la sua giovinezza le prometteva, perché rimanere lagrimosa e confusa quando alla lieve sventura non era rimedio? Ond’ella passò il rovescio della mano sui grand’occhi molli di pianto. Ma Rinaldo, cieco e disperato di potere piegarla, irrompeva in queste aspre parole:
— Meglio farei ad ucciderti perché altri non abbia mai ciò che altri ti avrebbe súbito tolto; pure io voglio che tu veda e creda a che mi hai ridotto. Or dunque tu salirai su ’l cavallo, che è docile, e andrai dove piú ti piacerà, ed io lascerò qui il mio corpo, carne buona per i corvi e per i lupi.
Cosí dicendo toglieva dalla cinta il pugnale; ma l’Agnesina lo rattenne inorridita e gridò: — Rinaldo, non fate!
Rinaldo rimase sospeso guardandola come uomo che sia fra la vita e la morte, come anima che dubiti fra il paradiso e l’inferno; e l’Agnesina, a cui Guglielmo Berlinghieri era del tutto uscito dalla memoria, gli gettò le braccia al collo vergognosa e sorridente e piena di desiderio e di grazia.
Quando furono stanchi del piacere, s’addormentarono stretti l’uno all’altra; e sognarono d’essere cosí, stretti l’uno all’altra.
III.
Guglielmo Berlinghieri era tornato e ritornato piú volte alla casa dell’amante meravigliandosi del lungo e strano ritardo, finché dalla casa udí delle grida e dei gemiti, e per chiarirsi dell’accaduto s’arrestò dinanzi la porta. La madre dell’Agnesina, insospettita per lo scalpitio frequente del cavallo di Guglielmo e levatasi, aveva scoperta la fuga della figliuola; e la fantesca, che aveva udito da un pezzo la corsa del primo cavallo, scese anch’essa le scale, quasi ignara di tutto, e al veder Berlinghieri solo presso l’uscio cominciò anch’ella a piangere, a gridare tradimento! aiuto! corri corri!, e a dire quel che sapeva. Da che Guglielmo capì presto che il rapitore non poteva essere se non l’Imberali; e corse alla porta della città per richiedere e rimproverare i compagni. Costoro risposero:
— Vedemmo un cavallo passare di trotto e non potemmo conoscere chi vi fosse sopra. Saranno lontani, ma la via è questa. — E per quella via cavalcarono tutti e tre.
Quando giunsero all’abetaia, la luna, in ultimo quarto, era in mezzo al cielo. Guglielmo vide súbito il destriero di Riccardo e i tre pervennero tosto ove il lume della luna, fra i rami e le foglie, tremava sui due amanti felici. Alla vista i compagni ammiccarono e Guglielmo afferrò il pugnale; ma l’uno disse: — Berlinghieri non ferirà un cavaliere che dorme — , e l’altro, anche piú cortese, disse: — Noi non consentiremo mai che tu faccia paura a una fanciulla che giace cosí tranquilla — . E l’uno e l’altro fermarono per le briglie i loro cavalli ad un tronco; poi, come quelli che non provavano angoscia di gelosia e si sentivano tutti rotti per la corsa sfrenata, coricatisi su l’erba fresca a riposare, dopo poco, tant’alta era la quiete del luogo, s’addormentarono. Ma Guglielmo, legato egli pure il cavallo a un abete, si sedé con piú desiderio di vendicarsi che di dormire, e guardava la bella giovane dormire cosí, e avrebbe voluto ricuperarla. Se non che nessuno sa convincersi del proprio danno, ed egli voleva anche convincersi dell’innocenza di lei: forse ella aveva respinto l’amante con promesse mendaci, e nella speranza di chi la liberasse era stata presa dal sonno. E allora perché dormiva Rinaldo e dormiva con faccia gioiosa? No: la colpa della fanciulla pareva manifesta; ma essa era una povera fanciulla e degna di scusa. Degno invece di un’acerba vendetta era Rinaldo Imberali; e quale migliore vendetta dell’aspettare che l’Agnesina, risvegliandosi già pentita del fallo, corresse nelle braccia di lui, Berlinghieri? Veramente ella poteva anche opporsi all’amore antico, e con che scorno per lui, Berlinghieri! Ma Guglielmo ricordava le prove di quell’amore, e incredulo, quasi non vedesse ciò che vedeva, pensò che fingerebbe di dormire anche lui per sorprendere gli atti dell’Agnesina al ridestarsi e attendere ch’ella piú facilmente, perché non rimproverata, minacciata o pregata, tornasse a lui. Però dié tregua ai pensieri, e a poco a poco — tant’alta era la quiete del luogo — a quel suo affanno; a poco a poco sentí la stanchezza e sentí il ristoro di quel letto d’erba fresca e molle; e gli si annebbiavano i pensieri, e gli sembrava che la ragione lo aiutasse. A che penar tanto e tanto faticare per una fanciulletta senza giudizio? Non lo chiamavano belle donne a Firenze desiderose di lui? Non era da pazzo correr dietro a dei pazzi? E non era meglio dormire davvero?
La stanchezza..., l’alta quiete del luogo..., l'erba fresca...; e Guglielmo Berlinghieri non ebbe piú forza di rilevare le pálpebre.
IV.
Alla brezza dell’alba l’Agnesina sospirò e a pena apri gli occhi meravigliata di non trovarsi alla sua camera, nel suo lettuccio, scorse quelli che dormivano lí da presso. E Rinaldo, al muoversi di lei desto anch’egli, scorse i nemici e trasse l’arme; ma riflettendo ristette e disse:
— Perché li offenderei se non hanno offeso noi? E per non offenderli, come impediremo che ci inseguano e ci raggiungano?
Allora l’Agnesina gli tolse il pugnale di mano, gli fe’ cenno di tacere e leggera leggera, quasi un’ombra, corse ai cavalli degl’inseguitori e ne recise le redini; indi tornò da Rinaldo, che era già in sella, e via entrambi su ’l loro veloce cavallo. Scossi dal rumore della fuga e liberi e ricordevoli piú della stalla che dei padroni, gli altri destrieri balzarono uno qua uno là: balzò in piedi Guglielmo, al rumore, gridando, e i compagni, fregati che s’ebbero gli occhi, la prima cosa che videro furono le corregge recise; né seppero che si dire. Guglielmo tutto smarrito e pieno di rabbia quando riebbe la voce disse:
— Troveranno scampo e io non potrò piú vendicarmi di Rinaldo e della sua druda!
A cui l’uno dei compagni:
— Piú ho da dolermi io che non riavrò mai il mio cavallo, cosí buon sangue ha nelle vene e cosí buone le gambe!
Ma il secondo, il quale era miglior filosofo e e di ingegno piú arguto, rise e conchiuse:
— E piú di voi mi dolgo io, perché d’ora in avanti non potrò tener fede a donna alcuna s’ella non sia prima innamorata d’altri e non fugga meco per sbaglio!