Uomini e paraventi/Capitolo XIII
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Capitolo XIII.
Sachicci tenne un poco dietro con gli occhi alla madre, e poi disse: «Ofana, siate la benvenuta!» «Grazie!» rispose questa: «una sventura irreparabile sarebbe seguíta, se non mi fosse stato possibile di parlarvi subito. Voi del resto ci avevate mandato a dire per Cicusai, che, occorrendo una volta di venirvi in casa, era di necessità o travestirsi da cerretano, o contentarsi di non entrare. Ecco la ragione, per cui mi vedete in queste spoglie e con questi arnesi. Mentre però, parlando, facevo sembiante di sorridere, mi sentivo nella persona il sudor della morte.»
«Mi rincresce davvero che sia così: ma con questa guardia continua che mi vien fatta, non sarebbe stato altrimenti possibile dir due parole da solo a sola. Per fortuna io sapeva che mia madre ha orrore di tre cose: dei tuoni, delle zingare, e dei cetriuoli in salamoja. Calcolando pertanto sopra queste sue particolari avversioni, io m’aspettava che, non appena si fosse nominata una strega, sarebbe fuggita in camera a biascicar le sue preci. Ora qui si può piangere o si può ridere di buona voglia, non sarà mai che ci senta. Ma veniamo a noi. Anche Comaz in una sua lettera che ho ricevuta poc’anzi, dandomi un cenno di non so qual caso inaspettato che è sopraggiunto, dice di avere urgentissimo bisogno di parlarmi: siccome però scrive quasi, unicamente per domandarmi questo colloquio, io perdo il tempo a stillarmi il cervello per indovinare di che si tratti.»
Così Ofana invitata a parlare, disse piagnucolando: «Se fino ad oggi abbiamo creduto di dover tenere nascosto anche a voi quanto sono per dirvi, non vi farete alcuna meraviglia ripensando che, in presenza della gente, io finora ho trattato come un’estranea, ed ho chiamato semplicemente Comaz colei che, per esser figlia di mia sorella, naturalmente è mia nipote viva e vera, come io sono sua vera zia. Il marito di questa mia sorella, essendo ai servigi di un ricco e nobil principe a Camacura con officio di falconiere, per essersi una volta lasciato fuggire il falcone prediletto del suo signore, n’ebbe senz’altro licenza. Qualche tempo innanzi questo fatto, quando io aveva nome Fanajo,1 presa d’amore per un samurai che stava a comando di mio cognato, mi lasciai indurre a fuggire dalla casa paterna; e, giunta nella lontana provincia di Jamato, divenni legittima moglie di maestro Tofei. Frattanto, essendomi sempre tenuta in segreta corrispondenza di lettere con mia sorella, seppi che il marito di lei insieme con l’ufficio aveva perduta ogni rendita: e mentre mi affliggeva dell’accaduto, compiangendo, come’ è di ragione fra veri parenti, la sorte di una sorella ridotta sul lastrico, mi veggo un giorno arrivare da Camacura fino alla provincia di Jamato, in compagnia di un uomo, questa Comaz, che allora si chiamava Misavo, e poteva avere quattordici anni. Mi consegnò questa una lettera, in cui la madre, per quanto mi sapesse una buona a nulla, si raccomandava che, dopo aver compita l’educazione della fanciulla, cercassi di collocarla in officio nella casa di un nobile. In quel tempo maestro Tofei col suo mestiere di portantino guadagnava a stento per sè e per la famiglia tanto da vivere una magra vita in una poverissima casa. Sopravvenuta per giunta alla mia suocera una lunga malattia d’occhi, che le tolse affatto la vista, non resse più il cuore a quella buona fanciulla di vederci caduti in tanta miseria, e con un pretesto, uscendo ogni giorno in compagnia della mia bambina, si recava sul prato della Rotonda meridionale; e là, incominciando così una vita di funesta leggerezza, accattava per noi.»
Qui mentre Ofana si rasciugava le lagrime, Sachicci con atto di meraviglia le domandò: «Quella bambina dunque, che allora dava una mano a Misavo nella sua questua, è quella stessa Ojosci che in questi ultimi tempi ho sentita esercitarsi a sonar la chitarra? Quand’è così, mi par certo che allora si chiamasse Cojosci: ma s’è fatta così grande in tanto poco tempo, che non l’avrei riconosciuta alle mille. Me ne rallegro davvero. Ma veniamo una volta a questo caso inaspettato che ho grande ansietà di conoscere.»
«Eh! mio signore, se non mi fossi rifatta da un pezzo in su, non vi sarebbe riescito d’intender nulla. Misavo dunque, vedendo che quell’accatto fruttava una miscea, senza consultare nessuno di noi, un giorno che mio marito ed io eravamo fuori di casa, fuggì con Tocuvacaja, proprietario di questo ritrovo di Scima-no-ucci, a cui si era venduta come attrice per cento riô: e nel partire nascose entro una scatola in forma di cane, che serviva di balocco a Cojosci, quella somma e una lettera. Quando si venne in chiaro di tutto questo, in casa fu un inferno. Mio marito incominciò a sbuffare come un indemoniato: — Che madre o non madre ammalata! Misavo è la nipote di mia moglie, essa è la mia padrona: e che uomo son io, se non son buono ad impedire che una signorina come lei si riduca a un mestiere servile? —
»Vi assicuro che ebbi un bel fare a calmarlo, finchè non venimmo da queste parti per rivedere Misavo. La trovammo piuttosto abbattuta di spirito; e rammento ancora il discorso che mi fece: — Perdonatemi, cara zia, per quel che ho fatto; ma poichè i miei genitori vanno raminghi, ed io posso dire di non averli, se io non fossi venuta in vostro soccorso, avrei mancato ai miei doveri. In tanta sciagura, io, senza neppure accomiatarmi da voi, non ho dubitato di sacrificare me stessa. Una zia si deve avere in conto di seconda madre: ma voi non siete certo la sola che io ami, e con vero affetto di figlia io penso pure alla mia madre lontana.— Queste parole furono da lei pronunziate con tale atteggiamento, e con tali singhiozzi, che mi par di vederla e di sentirla tuttora. Mio marito, ammirando tanta elevatezza di sentimenti, non potè più a lungo negare il suo consenso. Così noi, ricchi di mezzi da curare la malattia di mia suocera, presto avemmo la consolazione di vederla guarita del suo mal d’occhi. Col danaro, che ancora ci avanzava, si comperò quella casetta che ora abbiamo; dove, trasportando per acqua i passeggieri fino al Ponte ai Susini, teniamo anche una specie d’albergo sul fiume Jamacara. In questo modo, tra una cosa e l’altra, ci siamo venuti ajutando: ma tutto in grazia della generosa assistenza di quella cara figliuola. E però, in memoria del benefizio ricevuto da Comaz, noi, come più volte avete veduto, abbiamo una specie di venerazione per quella famosa scatola in forma di cane. Mia suocera, attaccata com’è alle sue vecchie abitudini, non ha voluto lasciare il suo villaggio natío, ed è rimasta nella provincia di Jamato. Quantunque noi le vogliamo un grandissimo bene, si sarebbe irragionevoli a pretendere che venisse a stare con noi qui in Naniva. A lei finora s’è lasciato sempre credere che mia nipote occupa un bel posto nella casa di un nobile: perchè, a farle sapere che invece si trova in condizione servile, sarebbe un vero crepacuore per quella buona vecchietta. Per una parte, quanto più sta lontana, tanto è più facile tenerla al bujo di tutto.
» Ora eccoci al più serio dell’altare. In questi giorni mio cognato, il padre di Comaz, è stato richiamato in ufficio dal suo signore, e restituito al suo primitivo grado nella milizia: e siccome pare che vi fosse un’antica promessa di matrimonio, ha subito spedito da noi un messo con ingiunzione di annunziarci che Misavo è fidanzata, e deve quindi, ottenutane la debita licenza da quei signori presso i quali è in officio, ritornare a Camacura insieme col messo. Questo messo è per l’appunto il fratello di latte di Comaz, che è cresciuto su insieme con lei fino all’età di cinque anni, e si chiama Juchimuro Riusche. Io non l’avrei mai riconosciuto, tanto s’è fatto bel giovane. Che aspetto marziale, bisogna vedere! Juchimuro dunque ha preso alloggio nell’Albergo d’Agicava, e non passa giorno che non venga a dirmi di condurlo al palazzo di quei signori, che vuole assolutamente avere un colloquio con la signorina Misavo, com’egli dice. Ora, che fare? Spogliarmi d’ogni rossore e dir chiaro qual’è la vera condizione in cui si trova Comaz, sembrerebbe che fosse la via più spedita. Ma così facendo, e procurandosi da Camacura il danaro occorrente al riscatto di Comaz, il povero Tofei non oserebbe mai più voltare la faccia da quelle parti. Di più Comaz m’è sempre intorno a piangere e dirmi: Voi lo sapete, zia, se dopo tanto che manco dal mio paese, io desidero ardentemente di rivedere mio padre e mia madre: ma ora che la mia sorte è legata a quella del signor Sachicci, piuttosto morire che dividermi da lui e darmi in braccio ad un altro.
»Da un’altra parte, se pensiamo a trovar qui il prezzo del riscatto, non si sa dove battere il capo per mettere insieme la somma occorrente. Ma ammettiamo che il danaro si trovasse: non si mette in brandelli una scritta di matrimonio stipulata fra due militari; e Dio sa che scalpore e che guai ne verranno, comunque si faccia! Signor Sachicci mio garbatissimo, io so, perchè mia nipote me l’ha detto più d’una volta, che durante il vostro soggiorno nella provincia di Jamato, quando io non vi conosceva affatto, voi ci siete stato largo di soccorsi, e so che il vostro cuore non può esser mutato. Se in questo frangente, dunque, voi degnerete riguardarci con lo stess’occhio di compassione, mi perdonerete pure che io vi consideri come mio genero, ed osi pregarvi che a nostro benefizio vogliate alleggerire un poco il vostro forziere. E giacchè questa sera Comaz si recherà inosservata in casa Utacava, di cui per fortuna voi siete intimo, trovatevi là anche voi, e consigliatevi con lei sul miglior partito da prendere.»
Quando Ofana, tra commossa e stanca, ebbe finito di parlare, Sachicci impensierito e distratto rispose: «Non è affare questo da lasciare andar l’acqua alla china: posso io non darmene per inteso? Ma domani chi vorrà sentire i rimproveri di mia madre! Comunque, credo che verrò: anzi aspettatemi di certo. Fra le altre cose io son debitore verso casa Utacava di una cinquantina di riô.... Eh! non pagherò per ora.... E poi no!... O come si potrebbe fare?... In ogni modo voi ritornatevene a casa e precedetemi.»
«Pensate che siamo già al tramonto; e però fate prestino.»
«Ho inteso, ho inteso.» E mentre con queste parole accomiatava Ofana, veniva cavando da un cassettone una muta di panni.
Note
- ↑ Mondo di fiori.