Uomini e paraventi/Capitolo XII
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Capitolo XII.
Quando in una vita precedente siano state intrecciate le fila d’un nodo conjugale, la vita posteriore di questo mondo non ha vicende che valgano a dissolvere tali unioni predestinate.1
Il nostro eroe Dai-tre-simboli, vagando al chiaro di luna, vagando al fioccar della neve o fra una pioggia di fiori, assorto in un sogno continuo, giunse al termine di quell’anno; e come la primavera verdeggiante fece ritorno, la sua compagna Comaz, allo spuntare di que’ bei giorni, quando il nuovo canto degli uccelli non consente d’affrettarsi per via, ora tenendosi a lui per mano, era con lui sedendo in lettiga, oggi ad Icudama, dimani a Temma, quando in un luogo, quando in un altro si recava a diporto, come rapita in un’estasi.
Ma frattanto divenivano entrambi la favola del mondo, e il cicaleccio delle famiglie.
«Ecco il giovane alla moda,» si diceva di lui; «ecco il villan rifatto, che tanto ne spende e tanto ne spande di quel caro bianco e di quel carissimo giallo, che altrettanto non si farebbe dell’acqua calda.»
Non andò guari che queste voci, giunte all’orecchio della madre Miosàn, la indussero a mostrarsi burbera e severa a segno da rinchiudere il figlio, per bene di lui, com’essa diceva, in una delle stanze più riposte della casa, non permettendogli più di allontanarsi dal suo fianco.
Ma per quanto vigilasse, la buona vecchia non potè impedire che per opera di Cicusai non si facesse un giorno sdrucciolare dentro un vaso di fiori finti una lettera che Comaz aveva bagnata delle sue lacrime, non senza in essa ripetere un centinajo di volte «Vi amo, vi amo.» Per un momento rimasto solo, Sachicci la prese in mano, e senz’altro pensiero, tutto in preda alla gioja di vedere quei caratteri, solo qualche rara volta guardandosi attorno, era giunto appena alla metà di quella lettura, quando la madre gli entrò nella stanza dicendo: «Avrei l’intenzione di applicarmi il moxa,2 ma non so se oggi sia giorno propizio per questa medicatura: abbiate la bontà di vedermelo un poco in questo almanacco. Sapeste che pena è il leggere per questi miei poveri occhi!»
Sachicci aprendo il libercolo verso la metà, nel sospetto di essere stato sorpreso, quantunque s’avesse nascosta la lettera nel seno della sopravveste, disse con voce che accusava il batticuore interno: «Fino a tutt’oggi potrete schivare l’imminente sedicina dell’ Ascensione di Tenicci:3 avete dunque poco tempo utile per rinchiudervi nelle vostre stanze, a fine di medicarvi. Oh! se qui appunto, senza che a voi piacesse frapporre un giorno d’intervallo, la Foscadecade, che ha tanto malmenato la mia scarsella, si risolvesse dimani, giorno del Serpente, in un gruzzolo di quattro o cinquecento riô d’oro; io, possessore d’una tal somma, potrei fare di colei la mia sposa, e tutto così tornerebbe in pace. L’avessi meco qua dentro, oh! qual rimedio efficace sarebbe questo! Ma se voi non mi concedete una tal grazia, ahimè! che strano senso avranno per voi queste parole del calendario: Orrore del sangue!»
La madre, confusa e sbigottita nel sentirgli in bocca quei propositi da insensato, gli si rivolse dicendo: «Sentitemi, Sachicci; voi sapete quanto non v’ho istigato io stessa da principio a prendervi qualche divagamento: ma voi, abbandonandovi sfrenatamente agli spassi, avete dato ansa alle diceríe di tutti, e chiuso gli orecchi alle prime ammonizioni che vi si facevano in famiglia. Or via dunque, anche mentre per lo spazio di un anno vi asterrete da’ piaceri, se due o tre volte al mese vorrete uscire a diporto in qualche luogo lontano, dove possiate non essere osservato dai conoscenti, io non vi negherò il mio consenso. Andiamo, una buona volta, invece di starvi costì senza dare nè in cielo nè in terra, quanto non fareste meglio a prendere i libri dei conti, e vedere se il bilancio batte? — Ecco a quel che siamo! io che mi farei beffe di quella madre che desse mangiare mille dolciumi al suo bambino e poi si lagnasse de’ bachi, io stessa, per quanto con l’intenzione di curar la salute di mio figlio, dopo avergli permesso di sbizzarrirsi a sua voglia, ora mi lamento di aver trovato il mio baco in questa cantante. Mamme e babbi babbei! dice il proverbio, e dice bene.»
Un lungo sospiro, che accompagnava tali querimonie, fu represso a metà dalla voce di una donna, che aprendo l’uscio del corridojo, per cui si accedeva al giardino, disse: «Con loro buona licenza, signori; io sono la zingara Curogosci di Via delle Zingare presso il tempio di Teno. Uno dei loro garzoni di negozio è venuto, dicendo che si desiderava consultare le sorti per mezzo dei bastoncelli di bambù. Non è qui di casa il signor Sachicci?»
«Sì,» rispose la madre Miosàn insospettita, «sta ben qui di casa il signor Sachicci; ma di mandare a chiamare una zingara....»
«Perdonate, madre mia,» interruppe Sachicci frapponendosi, «tutto questo non può non essere un mistero per voi, perchè io di nascosto da voi ho mandato veramente uno dei nostri uomini. Sapete che sono un monello avvezzato male; ma spero che voi mi tratterete amorevolmente, come si fa co’ fanciulli. E poi da qualche tempo il mal’umore mi va crescendo, e dalla mancanza d’appetito m’accorgo di ricadere in quel solito malessere. Se potessi uscire a diporto, starei subito meglio: ma rimanendo in casa e vedendomi così malandato, ho detto fra me: voglio sapere dai bastoncelli di bambù se qui per caso non vi fosse l’opera di qualche spirito maligno. Presto presto, zingarella, fatevi in qua. E voi, madre mia, venite al mio fianco e secondate l’opera coi vostri voti e con gli ave a Budda.»
«Dio me ne guardi!» rispose la madre scotendo il capo: « sapete come son fatta, che piango per nulla! Niente più che per essere andata a rivedere l’urna del mio povero marito, anche in presenza d’una donna di compagnia, mi commossi a segno da non potermi contenere. Immaginate quel che sarebbe se mi trattenessi a sentire tutto quello che può venir fuori, tra male e peggio, dalla bocca d’una strega indemoniata. Ah! figlio mio, che cattivi gusti! Se non aveste ancora mandato per questa donna, io cercherei di oppormi: ed anche ora che le cose sono andate così, e che la strega è venuta, potreste benissimo scusarvi con lei e rimandarla. Ma figuriamoci! Abbiate almeno la compiacenza di parlare a bassa voce, tanto da sentire fra voi solamente quello che avrete da dirvi. Io me ne vo a recitare le mie preghiere in luogo dove non possa giungere la vostra voce.»
E s’allontanò frettolosamente per andare a rinchiudersi in una delle stanze più riposte, qual’era appunto la cappella di Budda.
Note
- ↑ Nell’originale sono tre distici che racchiudono questa massima buddica.
- ↑ Specie di cauterio molto in uso fra gli Orientali.
- ↑ Dal principio alla fine, la risposta del giovane è un impasto di locuzioni astrologiche tolte dal calendario giapponese, e da lui torte a quel senso che meglio risponde ai suoi fini. Per intendere queste frasi il traduttore ha dovuto leggere più di un trattato giapponese di astrologia: e con tutto ciò non è certo di aver còlto il vero senso di questo passo scabrosissimo. Anche per intenderne la versione sono necessarie al lettore le seguenti notizie. I Giapponesi contano i giorni dell’anno in periodi o cicli di 60 giorni, per modo che un anno contiene 6 cicli interi. Ciascun ciclo si divide a un tempo in 6 decadi e in 5 dozzine di giorni. Ciascun giorno della decade e ciascuno della dozzina è distinto da un carattere o simbolo. I caratteri della serie duodenaria simboleggiano 12 animali; e fra questi è il Serpente, che indica il 6° giorno di ogni dozzina. Or dunque nel 6° giorno della 3a dozzina, cioè nel 30° di ogni ciclo, incomincia un periodo di 16 giorni, che è detto L’Ascensione di Tenicci. Tenicci, o Primo-celeste, è un spirito, che, dopo aver sorvegliato e notato le azioni degli uomini, ascende al cielo e vi si trattiene 16 giorni, per riferire intorno a queste medesime azioni, mandando frattanto in terra il suo sostituto Juzengìn. Siccome questo rappresentante di Tenicci è sommamente schivo d’ogni impurità, durante questi 16 giorni fa mestieri guardarsi da ogni contaminazione, ed anche astenersi da certe medicature. — Questo mito è il sistema di polizia giapponese applicato alla religione. — Il giorno stesso che ha principio l’Ascensione di Tenicci, ha termine la Fosca-decade. Questa è la 3a d’ogni ciclo: e il calendario assicura che «in questi 10 giorni non v’è armonia, perchè l’anima del Cielo e quella della Terra sono in vicendevole disaccordo: e quindi avviene che il cielo, per lo più di color fosco e caliginoso, non lascia vedere il sereno. Da ciò è venuto il nome alla decade, la quale inoltre ha maligno influsso in molti negozi e interessi umani.» Le parole Orrore del sangue nel calendario designano semplicemente alcuni determinati giorni, nei quali «si deve al possibile evitare l’applicazione del moxa e dell’acupuntura, ed astenersi anche dal veder sangue, fosse pur d’un uccello o d’un pesce.» Sachicci però dicendo alla madre che le parole Orrore del sangue avranno per lei altro senso dal solito, vuol forse farle credere che, poco sperando di ottenere da lei danari, medita il suicidio.