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tavia molle a guisa di calice dischiuso. Ad ogni lieve movimento percepiva lo scricchiolìo della seta nascosta sotto i veli e gli veniva insieme dall’intimo mistero della bella persona un delicato effluvio ignoto come di fiore senza nome. Vedeva le sue mani per la prima volta o almeno gli sembrava che fosse la prima volta; certo non le aveva mai vedute così bene. Erano mani lunghette, sottili, agili, aristocratiche, dalle tinte sfumate della madreperla. Egli ne osservava le dita ad una ad una mentre ad una ad una le baciava religiosamente, con un fervore da devoto e insieme una grazia di fanciullo che faceva sorridere Lilia. Ella aveva all’anulare della sinistra una magnifica turchese oblunga circondata di brillanti. Ippolito la guardò per un istante ed ella la posò in una coppa vicina dicendo con un sorriso enigmatico:
— Potrebbe pungerla, non voglio.
All’urto lieve delle braccia i gelsomini che aveva alla cintura le caddero in grembo. Ippolito li raccolse tutto tremante, in estasi.
Fu lei che dovette avvertirlo del tempo che passava, lei padrona, sicura di sè, lei che sapeva ogni gioia protratta e rapita all’ingorda rapacità dell’attimo una promessa di voluttà future più intense.
— Fanciullo!
Così disse Lilia a Ippolito che si chinava un’ul-