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il suo fascino e quel corollario appunto di grazia e di intelligenza che accompagnava ogni suo gesto, ogni suo motto, era il gran segreto delle passioni profonde che sapeva ispirare, che si protraevano al di là del desiderio. E Ippolito al desiderio non era giunto ancora, chiuso nella torre d’avorio della sua selvaggia giovinezza a cui facevano baluardo le credenze religiose, le abitudini di famiglia, l’eredità di tradizioni patriarcali. Vederla, ascoltarne la voce, scrutare i suoi pensieri, cogliere a volo i suoi sorrisi, trattenere nella retina degli occhi la sua immagine tutta intera talchè, chiudendo le palpebre, gli sembrava di serrarla sul cuore, per lungo tempo furono queste le sue gioie.

L’impegno seriissimo dell’esame non gli permetteva di andarla a trovare durante il giorno. Non era che dopo le lezioni, col lento treno delle sedici che egli lasciava Bergamo, accontentandosi di un pranzo sommario per recarsi in quella recondita via Palestro, una delle più tranquille e delle più dimenticate nella rumorosa Milano moderna. Arrivava che erano quasi le venti; doveva accontentarsi di un’ora sola di felicità se voleva riprendere l’ultimo treno delle ventuna e venticinque che lo riconduceva a Bergamo. Ma quest’ora conquistata con tanto disagio e così rapidamente trascorsa non gli bastava più. Alla muta contemplazione dei primi tempi, che tanta