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patico, elegante, tutto fiorito. Lilia non lasciava il balcone prima della mezzanotte, e quando, licenziati gli amici, in molle accappatoio, coi bei capelli sparsi, prendeva ancora una boccata d’aria fresca affacciata al davanzale, non vedeva l’appassionato amante nascosto fra gli alberi, ma forse era il desiderio di lui irrompente, frenetico, che saliva a darle sì acute vertigini?... All’alba poi, mentre ella riposava nel morbido letto, Ippolito correva a Bergamo colle occhiaie dell’insonnia nel volto pallido e colla febbre nel sangue.
Fu in questo stato di violenza che egli compose il suo saggio per l’esame, ispirato al Cantico dei Cantici, dal quale aveva preso i passi più poetici e più profondi:
«O tu che l’anima mia ama, dimmi, ove pasturi la tua greggia?
«Rosa di Saaron, giglio delle valli, giglio tra le spine, tale è l’amica mia tra le fanciulle.
«Chi è costei che sale dal deserto simile a colonna di fumo profumata di mirra e d’incenso?
«Eccoti bella, amica mia, eccoti bella! Tu sei tutta bella e non vi è difetto alcuno in te.
«Quanto son belli i tuoi amori, o sposa, o sorella mia! Le tue labbra stillano miele. Tu sei un orto serrato, una fonte chiusa.
«Lèvati, Aquilone! vieni, Austro! spirate per l’orto mio e fate che i suoi aromi stillino.