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e vedeva sempre la medesima, cosa; vale a dire una figura bianca di donna e una figura bruna d’uomo stretti in intimo colloquio nell’angolo più remoto del balcone; e la testa rientrava.
Don Peppino, seduto di fianco al piano, solleticava con un dito la tastiera, ma sempre sornione, osservando quelle mosse attaccò l’aria della Carmen: «To-re-a-dor- at-teento!» La sua voce tremula accompagnando le note riuscì di un effetto irresistibile. Fu il giornalista questa volta che rise di cuore, Egli aveva sorpassato la fase acuta della gelosia ed ormeggiando fra le rappresaglie e la rassegnazione niente lo divertiva quanto lo scacco matto di un avversario.
— Perchè smettete don Peppino? Siete un orecchiante portentoso.
— Temo che la musica di Bizet annoi questi signori.
— È volgaruccia davvero — disse uno della triade. — Non ho mai compreso il successo della Carmen se non immaginando un teatro diurno con un pubblico di droghieri e con accompagnamento di gazose stappate.
— Graziosissima! — appoggiarono gli altri due.
— Senza parlare di Josè che è un imbecille.
— Oh! oh! — interruppe don Peppino — si può discutere l’opera, ma Josè è il tipo perfetto dell’amante.
— Spagnuolo!!