Una passione/I
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UNA PASSIONE
I
Conosco Porta Renza |
L’uscio a vetri del Ristorante Savini si aperse lasciando passare due signori che si fermarono un istante sulla soglia, quasi l’uno aspettasse dall’altro la prima mossa; ma poi contemporaneamente voltarono a destra verso l’ottagono della Galleria rialzando il bavero della pelliccia.
— Mi par che questo sia un posto terribile per le bronchiti.
— Avete ragione. Sarei dolente che un malanno di tal genere dovesse lasciarvi un brutto ricordo del clima milanese. Affrettiamo il passo.
— Non venite a teatro?
— No, grazie. Sono aspettato.
Molta gente invadeva la Galleria. Era l’ora degli appuntamenti fra amici che vogliono passare la serata insieme; l’ora in cui i vecchi mariti lasciano le dolcezze del focolare domestico per andar fuori a fare una fumata in libertà; mentre i giovani sposi escono insieme e fermandosi alle mostre tentatrici dei negozi si offrono l’un l’altro, coll’immaginazione, i più splendidi regali. Qualche famiglia attraversava rapidamente la Galleria per recarsi al teatro Manzoni, urtando i passeggeri, nella tema di perdere le prime scene della commedia. Qualche figura femminile, solitaria, eccentrica, si aggirava lentamente.
— Vous avez des jolies femmes — disse in francese quello dei due signori che era straniero e che veniva a Milano per la prima volta.
— Peuh! — fece l’altro, sbirciando una bionda che gli passava a fianco con un lungo soprabito a sacco e un cappellone verde con piume gialle — se non vestissero così male...
— Le milanesi tuttavia hanno fama di essere eleganti.
— Vi prego di credere che nemmeno cinque su dieci delle variopinte creature che incontriamo sono milanesi. Ma che cinque! Neppure tre su dieci. Forse che a Milano vi sono ancora delle milanesi?
Lo straniero non avvertì l’accento caustico del suo compagno, ma rispondendo a una verifica di fatto soggiunse:
— È il destino delle grandi città quello di rinnovarsi continuamente cogli elementi della provincia, ed è provvidenziale questo flusso di sangue forte e rigoglioso là dove c’è maggior consumo di energie.
— Sì, ma le altre città conservano ad onta di tutto la primitiva caratteristica, la imprimono ai nuovi venuti dei quali assorbono l’intelligenza e la forza piegandole a loro immagine. Guardate Parigi, guardate Londra, guardate Vienna e Berlino; chi vive nelle loro mura diventa ben presto cittadino. A Milano i provinciali restano provinciali, e ne abbiamo a torme. Udite i dialetti; ah! ma voi non potete comprenderli. È un campionario di tutte le regioni d’Italia. Essi distruggono il tipo milanese.
— Buon avviamento alla lingua universale — concluse ridendo lo straniero che forse aveva trovato irriverente il paragone fra Milano e le quattro grandi città fra cui stava la sua.
— Perchè, vedete — continuò l’altro con fuoco — io potrei rassegnarmi alla scomparsa del milanese uomo, ma la donna milanese, oh! la donna milanese chi potrà sostituirla? Chi ci darà la grazia della madamina di una volta, con quel velo nero sui capelli che nessuno vedrà mai più? Ne avete almeno udito parlare, voi, di quel velo che non era sdegnato neppure dalla gran dama? Pensate che esso sta agli sgangherati cappellacci moderni come una piccola e penetrante stella dei cieli azzurri alla fiamma scialba e sfacciata di un lampione di stagno.
— Terrò nota della definizione, domandandone scusa preventivamente alle milanesi moderne.
Sboccarono intanto dalla Galleria sotto i Portici e la massa imponente del Duomo li arrestò di nuovo.
— È fantastico, ed è insieme di una realtà palpitante! Finchè vi resterà questa meraviglia Milano sarà sempre dei milanesi.
La frase era un po’ vaga, ma l’intenzione appariva gentile e l’altro ringraziò con un sorriso. Gli venne bensì in mente una questione dolorosa che poteva rinchiudersi in due parole: resterà così? Ma le due parole non le disse perchè non aveva voglia di incominciare un discorso sull’arte in quel momento. Si contentò di guardare intensamente le merlature bianche, di un bianco gelido sotto i raggi della luna invernale, quasi ricami di neve fioriti sui bruni pilastri contro i quali veniva a frangersi ed a morire l’effimera vita dei Portici colle sue innumeri fiammelle di luce elettrica, coll’onda della folla dolcemente eccitata nel piacevole lavorìo della digestione.
Guardò il suo bel Duomo, come soleva far sempre senza parlare. Solamente quando furono all’ultima arcata dei Portici rallentò il passo, senza togliere gli occhi da quella meravigliosa cosa che è il fianco del Duomo, parete intermedia fra la terra e il cielo, slancio del pensiero che inceppato dalla creta la sforza per innalzarsi a raggiungere il sogno.
— Da che parte andate? — chiese lo straniero.
Il milanese, con un gesto largo, indicò il Corso.
— Non volete proprio venire alla Scala?
— Non posso.
— Anche per me è troppo presto per andare a rinchiudermi. Preferirei passeggiare alquanto. Siccome non vado per l’opera ma per lo spettacolo dei palchi, ritardando non ho nulla da perdere. Credo anzi che le signore eleganti qui, come altrove, amino farsi desiderare.
— Accompagnatemi allora.
— Volentieri. Il vostro giornale vi lascia libero alla sera?
— Sì, fino ad una certa ora. Dovrò andare in redazione prima di coricarmi. E voi non scrivete in viaggio?
— Qualche nota appena per il mio taccuino.
S’avviarono giù per il Corso, bighellonando, urtati e separati tratto tratto dalla corrente umana che risaliva il sentiero.
— È una specialità di questo Corso l’uso quasi esclusivo di un solo sentiero, lo avrete osservato anche voi. È un darsi di gomito ininterrotto, ma nessuno scende.
— Neppure i provinciali?
— Ah! Ah! — fece il giornalista afferrando lo scherzo con disinvoltura — prevedo che le vostre note saranno piccanti. Ma, sul serio, i provinciali che vengono fuori dal loro guscio quando non sono i migliori sono i peggiori addirittura, Milano lo sa.
Per un tratto, fin verso il tempio di S. Carlo, il giornalista fu occupato a rispondere ai saluti di un gran numero di persone. Faceva ciò con una cortesia fredda, rizzando impercettibilmente la bella testa leonina dove lo sguardo troppo vivo sembrava cercare un rifugio dietro i cristalli lievemente cobalizzati de’ suoi occhiali d’oro. Era un uomo di statura media ma che sembrava alta per la snellezza delle forme e per il portamento altero. Di pronto ingegno, fornito di studi discreti, si era fatto la sua strada da sè senza crearsi troppi nemici ed ora imperava dalle colonne di un giornale influente reggendo lo scettro con mano sicura.
Oltrepassata la colonna del Leone gli incontri diradarono e i lumi anche. L’antichissima chiesuola di S. Babila, accoccolata come una vecchietta dormente, non fu nemmeno scorta dai due passeggiatori che tenevano ancora il sentiero di sinistra. Il Corso, che quivi si allarga e si prolunga in una doppia fila di case signorili, acquistava dalla solitudine una imponenza grandiosa che sembrava riposare dal tumulto di prima. L’aria stessa era più pura, così che i due per istinto si arrestarono a respirarne una larga boccata; e come lo straniero osservava le colossali cariatidi di un palazzo, l’altro notò:
— È il Seminario, fondato da Carlo Borromeo. Ha un bel cortile interno.
— Queste cariatidi risentono il loro tempo.
— È vero. Per quanto incaricate di rappresentare la Pietà e la Religione, il loro aspetto è molto profano. Quell’altro palazzo, a destra, col frontone a triangolo, potrebbe narrare i fasti dell’epoca napoleonica. Da quel parapetto di marmo Giuseppina volse in giro gli occhi seducenti avvezzi alle conquiste... Guardate da quest’altra parte: in quella casa modesta ebbe il suo epilogo un amore che venne consacrato nelle pagine ardenti di un romanzo.... E qui, vedete l’impronta di un obice nello stipite della porta? Fu nel quarant’otto...
Evocate nel silenzio della notte le cose riprendevano l’anima antica. E veramente là, in quell’ampio Corso segregato dal movimento cittadino, dove non mettono capo nè affari, nè industrie, nè piaceri, dove i nuovi venuti non scelgono la loro abitazione, dove scarsi si aprono i negozi o raramente di sera si avventura qualcuno, là, alla vecchia Porta Renza, ribattezzata in Porta Venezia, il milanese ligio alle tradizioni si sentiva nella sua Milano.
Una nebbiolina leggiera venendo su dal Naviglio e unendosi alla umidità dei giardini gli dava quella sensazione profonda, di una dolcezza voluttuosa, di una intimità penetrante, che difficilmente intendono coloro che a Milano non sono nati. Colla pelliccia tirata sulle orecchie, un’eccellente virginia tra le labbra, egli diventava comunicativo.
— Su queste pietre camminarono Ugo Foscolo e Parini. Come noi essi vissero in una notte d’inverno pari a questa, fra queste case velate. Qui venivano a passeggiare due stranieri grandi ammiratori di Milano: Stendhal e Balzac. Balzac, lontano, invidiava ancora l’amico che poteva aggirarsi lungo il marciapiede di questo bel Corso dove abitava la donna amata... Vi narro tali particolari perchè siete poeta, chè del resto non ne varrebbe la pena.
— Grazie del privilegio che mi concedete. Vorrei potervelo rendere con un poema su questa notte incantevole. Ma forse abuso della vostra cortesia.
Per tutta risposta il giornalista gli strinse il braccio amichevolmente.
— Chiedete a questo deserto le memorie dei Corsi mascherati; i cento idillii che si intrecciarono a cento congiure; le belle ardimentose che dai veroni gettavano coriandoli tutta una giornata coll’ardore di moschettieri in guerra e che alla sera apparivano nei palchetti, raggianti, vestite di bianco in un palco, di rosso nell’altro, e nell’altro di verde!
Lo straniero rimase un istante sopra pensiero e poi disse:
— Voi non le avete viste queste cose.
— No; ma le udii narrare tante e tante volte in famiglia, vidi le coccarde che mia madre conservava gelosamente, udii i racconti delle eroiche imprese e, sapete, la fantasia galoppa. Appartengo per mia disgrazia ad una generazione di intermezzo. Non sono abbastanza vecchio per rifuggire dagli ideali presenti, eppure non so svincolarmi dal sogno glorioso che fecero i miei padri. Triste è il vivere fra due età!
Un lungo silenzio chiuse queste parole e, tacendo, ognuno dei due interlocutori venne a seguire per proprio conto un ordine di idee affatto svincolate da quelle del compagno. Lo straniero pensava al suo paese; gli venne in mente sopra tutto con acutezza straordinaria di rimpianto una sera di inverno, un vero inverno nordico con quindici gradi sotto zero, e la corsa che egli aveva fatto, coll’ali ai piedi, verso una finestra fiocamente illuminata... In quel momento il giornalista emise un sospiro.
— Perdonatemi.
— Che mai?
— La mia indiscrezione.
— Ma non la vedo.
— Mi avete detto che siete aspettato. Se è una donna... non vorrei disturbarvi.
— Si tratta di una donna, ma non di un convegno amoroso. Cade il compleanno di una cara amica al quale non vorrei mancare. Mi picco di essere fedele.
Qualche cosa di caldo nell’accento del giornalista fece comprendere allo straniero che la donna era giovine e bella. Egli lo sapeva diviso dalla moglie; ma nei loro rapporti affatto intellettuali non si era mai trovato il posto per una confidenza intima. Lo straniero, non sapendo precisamente in quali acque navigava, non rispose nulla; ma appunto questo imbarazzo prolungato per alcuni istanti nella quiete misteriosa della via deserta, già presso alla barriera, con quell’interlocutore discreto che veniva a Milano per la prima volta, forse l’unica, e che ad ogni modo ripartiva all’indomani, rese loquace l’uomo che per diffidenza professionale votavasi abitualmente a nascondere i propri sentimenti. Senza aspettare la replica, senza parlare direttamente nè a sè stesso, nè al compagno, nè ai fantasmi della notte, mosso da un subito bisogno di espansione esclamò:
— Che donna!
E lo straniero fu peggio di prima imbarazzato. Volendo ad ogni modo dire qualche cosa arrischiò una osservazione generale sulle donne che sanno amare.
— Sì, queste donne sono preziose — interruppe il giornalista — ma sono più rare quelle che si fanno amare. Non è un paradosso, vi assicuro. Farsi amare è una cosa difficilissima. Vi riescono solamente le donne che hanno grandi qualità. Per le altre c’è il desiderio, il quale passa presto, come sapete. Quelle — soggiunse dopo una pausa — incitandoci ad amarle mettono in movimento la nostra fantasia, la nostra generosità, la nostra devozione, tutti gli istinti superiori che la mancanza di amore atrofizza. Quando non vi fossero più nel mondo donne capaci di suscitare in noi l’eroe, dove mai si rifugierebbero la bellezza e la nobiltà della vita? Amare è la missione dei buoni; farsi amare è quella degli intelligenti. La portata è di gran lunga superiore.
— Credo che abbiate ragione.
Si trovavano in fondo al Corso, vicino al bastione. Lo straniero gettò uno sguardo inquieto al di là della barriera.
— Ma dove abita la vostra regina?
— Regina! — ripetè il giornalista con un sorriso di compiacenza. — Ecco un titolo che le compete a meraviglia. Abbiamo già passata la sua casa: torniamo indietro. È a due passi, appena svoltata la via che mette ai giardini, Regina di bellezza! Regina d’intelligenza! Sì, regina. Avrete notato — continuò animandosi — che ciascuno di noi ha un rango naturale non sempre in accordo col così detto rango sociale. C’è una aristocrazia di nascita e questa obbligando chi ne è investito ad essere nobile, comunque sieno le esigenze della sua vita, fa sì che vediamo brillare, anche offuscate di qualche macchia, le faccette del diamante originario.
— «La perla nelle macerie».
— Fate conto, quantunque non vorrei lasciarvi l’impressione di macerie soverchie intorno alla mia amica. No, il paragone non va. Direi piuttosto una perla mal legata, fuori di posto.
Comprese di aver detto troppo o troppo poco. Gettò via il sigaro con un movimento, brusco e soggiunse:
— Vi annoio?
— Come potrebbe un romanziere, un poeta dite voi, annoiarsi nelle cose dell’anima? Vi faccio grazia dell’interesse che mi destate personalmente, ma con tutta franchezza vi dirò che io viaggio alla maniera di Yorik, per conoscere gli uomini e le loro passioni.
Il giornalista, alla luce di un fanale, consultò il suo cronometro.
— Cinque minuti ancora. Probabilmente noi non ci troveremo mai più insieme così, ed oggi aggiungendo un foglio alle vostre note scriverete: «A Milano, in una bella sera d’inverno, passeggiando sul vecchio Corso di Porta Renza, l’amico X mi parlò dell’amore e della donna...». I commenti ve li abbandono.
— Volete dirmi almeno se pensando a voi potrò credervi felice?
— Ignoro se sarò sempre felice; felice forse non lo sono neppure oggi. La felicità è altra cosa. Ho amato questa donna come un pazzo, sei anni fa. Ella vuole ora che l’ami come un saggio e procuro di obbedirla. Non per nulla si è regine. È incredibile come ella sa tenere avvinti tutti coloro che ha conquistato una volta. Capirete che non basta essere giovane e bella per ottenere ciò.
— È un’attrice o una signora dell’alta società?
— Nè l’una nè l’altra. Or sono vent’anni ero un giovinetto imberbe; compivo un viaggio di istruzione in Inghilterra; molti fatti di allora mi sfuggirono, ma ricordo un processo tristamente celebre, svoltosi qui, e dove un avvocato già di dubbia fama suscitò grandi clamori per le sue audacie, diremo così, extra lege. Era un briccone di un ingegno straordinario, appartenente ad una famiglia distinta per censo e per onestà. Dopo di avere gabbato mezzo mondo mangiandosi un patrimonio cospicuo, scomparve non si seppe mai bene come, lasciando una moglie ed una bimba; povere creature sballottate da un appartamento sontuoso ad una camera ammobiliata, avvezze agli agi, incapaci di lavorare, indurite agli scrupoli... Vi lascio immaginare quale esistenza! Io allora non le conoscevo. Incontrai la figlia qualche anno fa. Orfana, tornava da un lungo soggiorno all’estero...
Passo passo avevano percorsa via Palestro e si trovavano sul viale che separa i due giardini. La solitudine era completa. Da una parte e dall’altra i rami nudi degli alberi biancheggiavano avvolti in un leggiero strato di brina. Sotto i fanali della Villa Reale la sentinella, ravvolta nel cappotto d’inverno, misurava lentamente il breve tratto di sentiero proiettando la sua ombra mobile e silenziosa sulle pietre indurite dal gelo.
— Nata sui gradini di un trono ella sarebbe stata Semiramide. Sarebbe stata Imperia nel magnifico Cinquecento. Ma i tempi sono meschini per l’espansione delle forti individualità. Il suo regno è limitato al primo piano di quella casa dove vedete trasparire la luce attraverso cortine color di opale e dove ella tiene la sua Corte. Ebbe poi la fortuna di fare in tempo una eredità che la mette al di sopra del bisogno... Brrr! Il freddo diventa pungente.
— Non vi trattengo più. Andate dove vi aspettano.
— Se non partiste così subito le chiederei il permesso di presentarvi. Senza permesso non oso. Ella ha uno statuto inviolabile. Pensate che non tollera una famigliarità in pubblico nemmeno dai più intimi amici. Una regina, vi ripeto.
— Tullia d’Aragona — mormorò lo straniero.
— Forse, ma non si impanca come Tullia a fare la letterata. Convenite che il vantaggio è grande. Ella ha preso per motto un verso di un’altra donna emula di Tullia, la Veronica Franco: Se bene o male io stessa mi contento. Un senso innato di fierezza e di onestà a suo modo la guida dignitosamente fuori della legge comune. Da suo padre ha ereditato l’ingegno scintillante, ebbe una educazione signorile ed ha anche della bontà, quando occorre, senza esserne mai schiava. Non è lei, per esempio, che si lascerebbe derubare od ingannare dai suoi domestici, ed ha domestici affezionati che la servono da anni. Quanto alle relazioni non riceve donne. Quelle della sua nascita e della sua cultura non le perdonerebbero gli errori suoi e de’ suoi genitori: delle altre non saprebbe che farne. Per gli uomini pure ha un certo criterio di selezione che rende i suoi ricevimenti ambitissimi. «Nè libertini nè sciocchi» ha scritto di suo pugno sulla prima pagina dell’albo dove raccoglie le firme de’ suoi ammiratori. Capirete, si sta all’erta così e si riesce ad essere un po’ meno imbecilli!
— Badate a non perdere la testa.
— Se anche la perdessi ella è donna da ritrovarmela e rimetterla a posto.
Lo straniero questa volta si mise a ridere sonoramente, correggendo ciò che vi poteva essere di indiscreto nel suo riso con una energica stretta di mano.
Rientrando poi all’albergo, alle ore piccole, non scrisse nel suo taccuino ciò che precisamente avrebbe voluto il suo compagno, ma vergò sotto la data del giorno queste sole parole: «Gli innamorati sono sempre e dappertutto gli stessi».