Una passione/II
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II.
Se bene o male io stessa mi contento.
(Veronica Franco).
Col passo sicuro dell’abitudine il giornalista varcò una porta di simpatica apparenza che a lui principalmente, milanese autentico, doveva piacere per il carattere generale di comodità e di agiatezza ambrosiana senza ricerche ostentate e senza sciatterie. Era una di quelle porte del settecento come se ne vedono ancora nei vecchi quartieri, con motivi ornamentali dalle curve morbide tutte piene del calore intimo e particolare che si ritrova in certi barocchi. Un breve andito, una portineria modesta, un cortile con un po’ di verde, e finalmente una scala non troppo ampia ma che acquistava signorile aspetto dalla bussola chiusa e da un tappeto di panno rosso sobriamente illuminato da una fiamma a gaz. Suonò il campanello del primo piano e al domestico che venne ad aprirgli chiese:
— C’è molta gente?
— Molta; ma qualcuno sta già accomiatandosi per la serata di gala alla Scala.
Benedetta serata! pensò il giornalista ravviandosi gaiamente i capelli; ed essendosi in quel punto rammentato che vi doveva pure essere un gran ballo in casa Visconti ne trasse argomento di tale letizia che entrò nel salotto con una baldanza affatto giovanile.
La signora del luogo stava seduta da sola sopra un divano. Era vestita di velluto nero con scollo a punta, circondato da una trina meravigliosa fermata da un gioiello; le maniche, che si arrestavano al di sopra del gomito, erano pure terminate dalla medesima trina e dalla ripetizione in piccolo del medesimo gioiello. Niente altro. Lo sfolgorìo che la avviluppava quasi un nimbo, dando al subito vederla l’impressione esatta di una apparizione, veniva dal suo interno, da’ suoi occhi, dal suo sorriso.
Era una creatura di sogno; aveva del fiore e del raggio. Non si poteva vederla senza provare il bisogno inconsulto di vivere nell’orbita della sua vita, ammirandola, quasi ringraziandola del bene che faceva colla sua bellezza; bellezza mobile, impressionante, che andava dallo sguardo alle labbra come un lume portato a mano il quale alterna bagliori improvvisi ad ombre piene di suggestione. La maggior parte di coloro che la frequentavano non avrebbe saputo dire se fosse bruna o bionda, tanto le caratteristiche dei due tipi si fondevano in quella specie di aureola che sembrava assorbire tutti i particolari del suo volto per non lasciare che una visione di luce; e se da questa immagine del raggio si passava a quella del fiore, era perchè la fragile esilità del corpo che la sorreggeva e la grazia cedevole dei movimenti suscitavano veramente l’idea di uno stelo. Ma al di sopra ancora della forma e del colore il mistero dell’intelligenza, sempre presente in lei e sempre vigile, vibrante ad ogni impressione, sia che si affacciasse qual da spiraglio aperto al varco della pupilla o che frenato preferisse adombrarsi in un lieve caratteristico batter delle ciglia, dava a tutto il suo essere l’impronta di una personalità squisita.
Come la prima volta, come sei anni addietro, il giornalista rimase un momento estatico a contemplarla, nascosto dal gruppo di persone che circondavano il divano.
— Sempre lei! non è vero? — mormorò al suo fianco con voce tremula da capra e pronuncia mancante qua e là di alcune consonanti, un signore lungo, cui il giornalista si affrettò a stringere la mano.
— Oh! don Peppino. È un bel pezzo che siete qui? Io non potei venire prima in causa di un collega... uno straniero, col quale dovetti pranzare... Ma quanta gente! Speravo maggiore intimità. Una volta eravamo in pochi a conoscere la data del suo compleanno.
— Una volta!! — ripetè don Peppino allentandosi coll’indice il nodo della cravatta. — Figuratevi che io la conobbi quando aveva ancora le treccie giù per le spalle e suo padre e sua madre ricevevano la migliore società di Milano. Abitavano in casa d’Adda, là, ai Portoni, e Norina non era allora così bella... Ne corse poi dell’acqua sotto ai ponti!
— Sì. Noi siamo i suoi più vecchi amici.
Il giornalista pronunciò questa affermazione con tanto maggior calore in quanto che don Peppino aveva una diecina d’anni più di lui, i capelli brizzolati, la voce tremolante e tutt’insieme non gli era mai parso un rivale pericoloso; anzi contribuiva col suo nome patrizio e colla sua dignitosa persona al decoro di quei ricevimenti, e perciò gli faceva festa volentieri.
Due giovani ed eleganti ufficiali di cavalleria si inchinarono intanto a baciare la mano della signora.
— Non posso soffrire gli ufficiali di cavalleria! — esclamò il giornalista.
— Eppure sono molto carini.
— Fatemi il piacere!
— Hanno una bella divisa.
— Che! Si dovrebbe interdire ai militari di presentarsi in società con quegli abiti da operetta. È un’idea, sapete? I chirurghi vestono un casaccone speciale quando fanno le operazioni e i magistrati la toga quando vanno alle Assise, ma non si permettono di comparire a quel modo davanti alle signore. Voglio scrivere un articolo.
Don Peppino rideva quietamente, da persona bene educata.
— Vi tirerete addosso tutto l’esercito e buona parte del bel sesso. È ben vero che si sono fatte delle guerre per motivi anche più futili. Dario dichiarò guerra agli Ateniesi perchè i loro fichi erano superiori a tutti gli altri. Lo disse...
Il giornalista non lo ascoltava più. Avendo scoperto una breccia nella siepe degli ammiratori si slanciò. Ella lo accolse con un sorriso:
— Vi aspettavo, caro.
La musica di queste tre parole e il dolce rimprovero che contenevano o che parve a lui che contenessero, gli fece salire al cervello un fumo di ebrezza. Cercò a tastoni una sedia il più possibilmente vicina al divano, trovò uno sgabello e vi si lasciò cadere. Da quel posto umile ma invidiato contava di lasciar sfollare un poco gli intrusi (così egli chiamava i nuovi venuti) e pascersi intanto della vista della signora, quando un sorriso caustico sbocciato proprio davanti a lui sul viso di un uomo che occupava la poltroncina più immediata accanto al divano gli gelò il sangue nelle vene. Wilss! fischiò una serpe dentro il suo petto.
Come se l’altro lo avesse udito e volesse procurarsi il godimento felino del gatto che tende la zampa vellutata al topo, lo salutò con un cenno del capo troppo gentile perchè il giornalista potesse esimersi dal fare altrettanto. Ma pur salutando mulinava iroso: Che cosa fa qui costui? Perchè è venuto ancora? Perchè le sta così dappresso? Perchè mi guarda a quel modo?
L’oggetto di tale monologo interrogativo poteva avere dai trent’otto ai quarant’anni e quantunque i lineamenti irregolari, il naso camuso, le mascelle grosse non lo additassero quale tipo di bellezza, era pure un magnifico campione della razza umana per il doppio sentimento di intelligenza e di forza che si sprigionava da tutto il suo essere. Vestiva con quella apparente trascuratezza inappuntabile dei veri ricchi che non si curano affatto della esteriorità ed aveva nel contegno, nello sguardo, nello stesso silenzio una espressione di dominio così sicura e tranquilla che il giornalista, sempre più irritato, lasciò improvvisamente lo sgabello e rincorrendo don Peppino che stava coll’occhialetto in mano a contemplare un quadro poggiato sopra un cavalletto gli domandò a bruciapelo:
— Ma quell’americano non era andato in America?
— Quale americano? — fece candidamente don Peppino sgranando gli occhi.
— Quel Wilss della malora.
— Ah! mister Wilss. Ebbene, egli è andato e poi è ritornato. Che ve ne pare di questo quadro?
Il giornalista gettò sulla tela una occhiata distratta pronunciando:
— È un nuovo acquisto?
— È il mio dono per il compleanno — rispose don Peppino con un sorriso di compiacenza. — Vedete queste parole scritte a tergo? (voltò il quadro per un istante). A te principium tibi desinet. L’ho conosciuta sì piccina!
— Dove le avete trovate le parole? Già un feroce lettore quale voi siete pesca sempre nei libri. È per questo che quando parlate non si sa mai se siete voi o un altro.
— È il motto di Mirabeau a Sofia — tornò a rispondere don Peppino senza rilevare l’acrimonia dell’amico. — Il quadro vi piace?
Il giornalista questa volta lo guardò più attentamente palpando colla mano un piccolo oggetto in fondo alla sua tasca.
— È un Alma Tàdema forse?
— È un Burne; ma assomiglia infatti a qualcuno del Tàdema. I due pittori hanno un punto di contatto quando si tratta di raggruppare diverse figure; anche qui l’effetto è un po’ disperso; non al punto dell’Adriano che non trovando compratori fu dallo stesso autore tagliato in tre e venduto a spicchi come un cocomero... Questa è una scena rifatta del Convito di Peleo. Osservate di grazia la donna a destra... non è il suo sorriso?
Richiamato alle preoccupazioni gelose il giornalista esclamò:
— Parlatemi di quell’americano. Che cosa fa qui?
— Io non ne so nulla caro amico. Lo abbiamo trovato l’anno scorso come oggi, ricordate? Quando e dove Norina lo abbia conosciuto non si seppe mai. Egli le fece allora una corte in piena regola, gliela fa probabilmente ancora; e siccome sarebbe un po’ arrischiato anche per un americano imitare i cavalieri del tempo di Artù, i quali per provare alla loro dama che erano insensibili a tutto ciò che non fosse il loro amore andavano attorno di piena estate colle pellicce e di pieno inverno nudi affatto, mister Wilss si accontenta di traversare l’Oceano per venirle a presentare i suoi auguri. Non c’è male. È cavalleria da milionari.
Il giornalista, essendosi abbastanza rosolato da questa parte, stimò che valesse meglio ripresentare l’altro fianco al fuoco e tornossene al suo posto sullo sgabello che era rimasto vuoto perchè i visitatori a poco a poco se ne andavano. Ma chi non si muoveva era il signor Wilss. Allora, facendo buon viso alla sorte qualunque fosse, l’eccitabile amante si rassegnò a prendere quel tanto che avrebbe potuto se non voluto, ed ammansandosi man mano sotto gli sguardi e le accorte parole della signora, riprese il suo giogo fiorito intorno al divano fra i quattro o cinque che erano rimasti, spiando l’opportunità di un colloquio più intimo.
— Eleonora, mi fai morire! — le susurrò all’orecchio in un momento in cui si era impegnata una discussione fra uomini.
Ella si volse a guardarlo coi begli occhi corrucciati dentro cui passò un lampo:
— Lo meritereste bene... almeno per un poco. Anzitutto...
— Lo so, lo so, perdonate, ma vi amo tanto!
— Ed è una ragione per starvene rannuvolato così tutta la sera, la sera del mio compleanno?
Gli aveva teso la mano e il braccio bianchissimi sotto il velluto nero della manica. Egli si curvò ad esaminare il gioiello che fermava la trina sulla piegatura interna del gomito, ma in realtà distratto dalla delicatezza madreperlacea che appariva in quel punto dove una vena azzurra serpeggiava fra le nevi leggermente concave in una morbidezza che sembrava chiamare le labbra irresistibilmente.
— Siete ancor più bella con quest’abito, se non fosse troppo serio per la vostra giovinezza.
— Sapete che entro oggi nel trentesimo anno? L’ho messo apposta quale proposito di vita più saggia.
Egli la guardò inquieto, non sapendo quale parte gli sarebbe riservata nel nuovo programma; ma la discussione intanto si riscaldava nel gruppo vicino a loro intorno a un argomento di attualità.
— Che cosa ha fatto precisamente questo giovinotto per meritare tanto interessamento?
Era Wilss che moveva la domanda e la signora, volgendosi vivamente dalla sua parte, esclamò:
— Che cosa ha fatto? Questo. Una delle scorse notti, la più rigida, la più scura che si possa immaginare, si appiccò il fuoco a un grande caseggiato fuori di Bergamo, un collegio dove stavano raccolte tre fanciulle maestre e inservienti non meno di cinquanta persone; cinquanta persone, capite, lontane dall’abitato e quasi impazzite dal terrore. I giornali hanno dato i particolari della orribile scena. Esaltate, sfuggendo alla soffocazione dell’incendio, le povere donne si accalcavano invano alla porta d’uscita trasformata in rovo ardente e cadevano le une sulle altre, urlando, gemendo, strette in un cerchio di fiamme. Tutto intorno, pensate, era silenzio e solitudine!... Solamente a mezzo chilometro circa, da un casolare campestre, si accorsero dell’incendio; ma i padroni del casolare, due vecchi, pare si chiudessero ermeticamente nel loro guscio impedendo ad un giovine che viveva con loro di accorrere sul luogo del disastro. Fu questo giovine che si lasciò calare dalla finestra, raggiunse a corsa il palazzo incendiato, e con una presenza di spirito meravigliosa e pari audacia, girando al lato nord, dove scorre un fossato lungo il muro di cinta che nessuno aveva preso in considerazione perchè mancante di uscita, diede coraggiosamente la scalala e le piccole bimbe portò via in collo, le più energiche fece saltare addirittura dalle finestre nel fossato dove egli stesso andava a raccoglierle conducendole alla riva, così che su cinquanta persone immancabilmente destinate a perire, otto o nove appena rimasero ferite. È portentoso, sopratutto riflettendo che fu un uomo solo a fare tutto ciò, un giovane campagnuolo cui non moveva nessun interesse egoistico, che dovette fuggire di casa contro la volontà de’ suoi e che ora si trova in fin di vita per le conseguenze del suo slancio generoso. È o non è una bella azione?
Il bel volto della signora si era straordinariamente animato durante il racconto, troppo forse, perchè il geloso si affrettò a soggiungere con poca riflessione:
— Non bisogna però credere a tutto quello che dicono i giornali, alle ampollosità, alle gonfiature...
— Tengo nota della confessione — ribattè subito la signora: — essa è preziosa, molto più quando si volesse risalire dal giornale al giornalista.
Le parole erano dette con tanto garbo che non si poteva aversene a male; ma la smorfia maligna del signor Wilss, quella era amara da inghiottire. Sentendosi nondimeno troppo commosso per accettare una scherma di frizzi egli continuò, con tutta serietà:
— Noi latini siamo impressionabili. Giovinotti che danno la scalata ai muri, riflettendo bene, non hanno nulla di meraviglioso e quanto all’accorrere sul posto dell’incendio è una gloria da pompiere.
— No, no; fatemi il favore grandissimo di non pronunciare più una sillaba su tale argomento. Potrete scrivere, se v’aggrada, un articolo per dimostrare su quali dati si debba decretare la medaglia al merito. Io però non lo leggerò. Non mi piace mettere uno spegnitoio sui miei entusiasmi.
— Cambise... — incominciò don Peppino; ma non potè così subito seguitare perchè il giornalista volle chiedere scusa alla signora e ottenerla e prometterle di lasciarla arbitra per tutti gli allori presenti e futuri.
— Per penitenza però della vostra insubordinazione preparerete un entrefilet per annunciare ai vostri lettori che il giovane Ippolito Brembo, oltre che essere un eroe, ha spiegato un talento eccezionale come musicista. Ne ebbi la comunicazione diretta da un professore del Conservatorio di Bergamo.
— Cambise — don Peppino approfittava di una pausa — essendo innamorato di sua sorella, domandò ai giudici del suo Regno se non esistesse qualche legge che gli permettesse di sposarla. No, risposero i giudici imbarazzati e timorosi di spiacere al monarca; ma ve n’è una la quale permette ai re di Persia di fare ciò che vogliono.
— Graziosissimo! — esclamò il signor Wilss, — Inchiniamoci alla regina di Persia.
Ed ella disse:
— Prometto un premio, che potrebbe anche essere una discrezione, a chi saprà condurmi qui il giovane eroe.
— Vi faccio osservare — insinuò il giornalista — che egli trovasi per il momento nella impossibilità di muoversi. Le ultime notizie, lo sapete anche voi, recavano che il suo stato è gravissimo. Anche salvandosi resterà un mostro.
— Poveretto!
Ella ristette pensierosa, colla guancia appoggiata ad una delle sue bellissime mani. Se il geloso avesse potuto leggerle nel pensiero non sarebbe stato niente affatto pago del progresso che faceva l’eroe sconosciuto sulla immaginazione della donna, sazia oramai delle solite avventure ed avida ancora.
Il crocchio intanto si era diradato. Rimanevano appena Wilss, don Peppino e il giornalista, il quale, approfittando di un momento in cui gli altri due stavano discorrendo tra loro, fece scivolare in grembo all’amica un astuccio che si era levato di tasca.
— Che cos’è? — fece ella aprendolo senza soverchia curiosità, assente ancora; ma subito commovendosi si levò in piedi per guardarlo meglio alla fiamma di una lucerna.
Era, in piedi, meravigliosa. Wilss girò la testa avviluppandola con uno sguardo elittico; quasi ella ne avesse subìto il magnetismo, gli si avvicinò d’un balzo fino a sfiorarlo:
— Guardate, Wilss!
Poi, senza aspettare i commenti, tornò accanto al giornalista:
— È avorio vecchio?
— Un avorio del quattrocento, probabilmente fiorentino. L’ho trovato da un antiquario e fui colpito dalla espressione della donna che solleva le braccia riversandosi in dietro col corpo verso la Croce in modo così appassionato, così ardente...
— Dà i brividi! — ella disse con accento profondo.
— Nevvero? Mi piacque perchè rappresenta il mio stato d’animo e sarò felice se volete aggradirlo.
— Grazie.
— È veramente squisito. — soggiunse don Peppino curvandosi coll’occhialetto in mano — degno di Norina.
— Perchè veramente vi ostinate a chiamarla Norina? — chiese il giornalista. — È così bello il nome di Eleonora.
— La conobbi colla treccia giù... — si scusò don Peppino colla sua voce belante — Eleonora del resto è troppo lungo.
— Lungo? Un nome caro non lo si assapora mai troppo, e se è lungo meglio.
— El...ly! — mormorò Wilss, mostrando nella lentezza della pronuncia come si possano assaporare anche due sole sillabe.
— Non mi piacciono i nomi storpiati, nè in italiano nè in inglese. Un bel nome di donna è pari alla musica scritta da un grande maestro; non bisogna alterarne una nota — riprese il giornalista.
— Mi ricordo l’impressione che ebbi da alcuni nomi di fanciulla scritti accanto ai loro lavori nella mostra delle scuole egiziane laggiù al Parco, al tempo delle Esposizioni riunite, uno fra tutti: Dulcelina Schiava. Non sentite in questo nome la poesia dell’Oriente?
— Tanto più — disse serio il signor Wilss — che lì accanto vi era la mostra della Birmania con due orecchini di vetro verde che sembravano lumini da notte e una statuetta dell’ultimo Budda morente per dissenteria. Anche questo è molto orientale.
— Wilss! — fece la signora corrugando lievemente le sopracciglia.
— Convengo — riprese don Peppino — che certi nomi fanno alle volte un effetto curioso. Io non posso tollerare la Venere dei Medici perchè ha una faccia da Carolina, e Carolina mi è un nome insopportabile.
— Ecco almeno qualche cosa di inedito! — osservò il giornalista. — Si può soggiungere che certi nomi avvantaggiano certe parentele. Eleonora Duse è magnifico; ma che effetto farebbe una Brigida Duse? E ancora: Eleonora è così bello, così pieno, che basta a se stesso. Non mi ricordo se la Venere dei Medici abbia una faccia da Carolina. So bene però che Eleonora potrebbe convenire a qualsiasi dea.
— Norina è più affettuoso.
— Elly più pratico.
Mentre le voci si riscaldavano la signora interruppe:
— Sono grata a tutti delle buone intenzioni e mi guardo bene dal negarle; ma faccio osservare che nessuno di voi permettendosi delle varianti al mio nome ha pensato di chiedere almeno il mio parere. Ora ve lo dico io. Non mi piace nè Eleonora, nè Norina, nè Elly. Amerò di più quello che mi chiamerà Lilia.
— Lilia! Lilia! — esclamarono ad una voce don Peppino e il giornalista, mentre Wilss soggiunse abbassando la voce:
— Vi chiamerò Lilia quando acconsentirete a sposarmi.
Ella lo guardò colle pupille stellanti meravigliose di luce, ma non rispose nulla.
Fu il giornalista che attaccandosi a don Peppino gli susurrò con malumore:
— Cosa parla di sposare quell’americano?
— Eh! Eh! Non sarebbe un cattivo partito, sapete? Quattrini parecchi, uomo simpatico...
— Simpatico! Che bestemmia! Con quel naso.
— Anche Socrate lo aveva.
— E appunto non fu fortunato colle donne.
— Comunque, il dono che egli le fece oggi mi pare proprio un dono da futuro marito.
— Voi sapete tutto.
— È il vantaggio di averla conosciuta...
— Sì, sì, la nota storica. Che cosa le ha dato infine?
— Un servizio da tavola in argento e oro.
— Peuh! che cattivo gusto. Un servizio da tavola! Si può essere più volgare?
— Quando lo vedrete muterete opinione. È un finissimo lavoro artistico. Ogni pezzo rappresenta un mese dell’anno simboleggiato da un fiore: gennaio elleboro, febbraio violetta, marzo primula, e via via. Deve essere costato una somma pazza.
— Già! Ha voluto buttarle in faccia i suoi milioni per abbagliarla, da quel rifatto che egli è.
— Non digrignate tanto i denti, amico. Norina, cioè Lilia, vi inviterà a pranzo, e potrete ammirare il gusto squisito di un’opera d’arte.
— Per mangiarvi la zuppa.
— E perchè no? Nei secoli d’oro della bellezza ogni oggetto destinato ai bisogni della vita riceveva questa impronta di un concetto di arte che lo nobilitava. Bere una perla, checchè se ne possa dire, è un piacere selvaggio; ma bere dentro a una perla sarebbe da raffinato. Non vi pare?
Il giornalista non rispose perchè era ritornato presso alla signora, umile, mormorandole una parola all’orecchio.
— Geloso! — ella disse ridendo e battendogli il ventaglio sulla bocca.
Egli prese il leggiadro oggetto e lo baciò religiosamente, ma insistette:
— Ditemi se è vero!
— Che ve ne importa? Voi già non potete sposarmi.
— Chi lo dice?
— Il codice, amico mio, che non permette due mogli; ma tranquillizzatevi, non sono ancora decisa a perdere la mia libertà. Se dovessi prendere marito, voi mi conoscete, sarebbe sul serio. Dunque per ora no!
Questa frase, forse ad intenzione, era stata pronunciata con voce abbastanza alta perchè tutti potessero udirla; e come si sorbisce lentamente un liquore prelibato il giornalista si voltava e rivoltava fra le labbra quel prezioso no, senza sospettare che Wilss accoglieva per suo conto il non meno prezioso per ora, pur rimanendo impassibile sotto la sua maschera socratica.
Vi fu qualche istante di silenzio, rotto da don Peppino con accento più tremulo e più patetico ancora del consueto, mentre si faceva innanzi con una esitazione comicissima da Re Mago in cospetto del Presepio.
— Divina Lilia, sono ben fortunati questi giovinotti che possono parlarvi d’amore e di matrimonio, mentre io non lo potrei fare sotto pena di espormi al ridicolo; ecco ecco che già ne vedo i prodromi sui loro volti... Lilia salvatemi!
— Che malinconia vi piglia, don Peppino? e che cosa posso mai fare per voi?
— Voi potete rendermi sacro.
— Nientemeno.
— L’imperatore Nicolò di Russia...
— Ah! ecco l’aneddoto. Don Peppino siete insopportabile!
— Lasciatelo terminare — ordinò Lilia.
— L’imperatore Nicolò di Russia, in seguito a un editto che proibiva il duello agli ufficiali, se ne trovò davanti uno il quale, avendo ricevuto uno schiaffo, mal sapeva scegliere fra l’onta dei compagni e lo sdegno dello Czar e fremeva e chiedeva aiuto di consiglio. Nicolò lo tolse dall’imbarazzo baciandolo sulla guancia in presenza di tutta la sua Corte e dicendogli: «Il tuo affronto è cancellato. Ti fo sacro». Fatemi sacro voi pure, signora mia, sfiorando col vostro bel labbro la mia venerata canizie così che nessuno possa ridere di me quando dico di amarvi.
Il giornalista stupefatto della conclusione si pose a gridare:
— Non si può dire che costui non sappia trar profitto dalle sue letture. Ce ne vuole del toupet! L’istruzione a questo modo diventa un’immoralità.
Ma Lilia, ridendo fino alle lagrime, aveva gettato le braccia intorno al collo di don Peppino e lo baciava sonoramente sulle due guancie.