Tre croci/Capitolo X
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X.
La domenica, Giulio e il cavaliere Nicchioli fecero un’altra passeggiata. Niccolò era andato a Firenze; e perchè non lo dissuadessero, aveva evitato di parlare a solo con i fratelli.
Quando prendeva di queste decisioni, doventava intrattabile; rifiutando di darne qualunque giustificazione. Non riescivano nè meno a trovarlo.
Il cavaliere chiese a Giulio:
— Vogliamo andare da Ovile a Pispini?
Il libraio era distratto, e rispose:
— Dove vuole lei. Per me, è lo stesso.
Nell’aria c’era una dolcezza pungente; e le campagne parevano gli avanzi della primavera. Quasi tutti i contadini avevano vendemmiato; e perciò i cancelli su le strade erano aperti; ma portavano ancora le spine.
Siena è come tante strisce dritte di tetti e di facciate, della stessa altezza; che si alzano invece all’improvviso dove le case vengono più in fuori, pigliando un poco di poggetto. Ma San Francesco e Provenzano, con spicchi di case in mezzo, da un’altra parte della città, taglierebbero quelle strisce quasi ad angolo retto se in quel punto la pendenza non fosse più ripida. E le mura della cinta, trattenute dalle loro torrette smozzicate e vuote, lasciano un gran spazio libero; venendo fin giù alla strada; come una corda allentata. Poi, la strada gira troppo sotto la cinta; e Siena non si vede più. Ma dopo un poco ritorna; con le case ammucchiate alla ridossa. E la Torre del Mangia pare che si spenzoli, su alta nel cielo, dalle mura.
Il cavaliere disse:
— Si volti a vedere com’è bella la nostra Siena!
Ma Giulio non aveva voglia di guardare. Aspettando l’ora dell’appuntamento s’era sempre più persuaso che a chiedere al Nicchioli un’altra firma si sarebbe compromesso; o, per lo meno, gli avrebbe suggerito un sospetto troppo forte. E, poi, si sentiva con lui di una timidità molle. L’averlo ingannato gli metteva nell’animo il desiderio di compensarlo con una devozione intima e profonda. Ma, standoci insieme, fu tentato; e gli parve possibile che il cavaliere avrebbe annuito a firmare un’altra volta. Era, del resto, il mezzo di salvarsi soltanto per altre poche settimane e basta! Ma quando sentì che gli parlava con quella sua tenerezza vanitosa e saccente, gli disse:
— Domani avrei bisogno da lei di una gentilezza che mi ha fatto un’altra volta.
— Se posso, volentieri!
Giulio ebbe un gran rivoltolone dentro, e continuò come se fosse fatale non potersi trattenere più:
— Ci fanno comodo altri denari....
Il cavaliere impallidì, e chiese:
— Quanti?
— Un diecimila lire!
— E perchè?
— Siamo restati al secco.
Il cavaliere trasecolava e allibiva; e Giulio si accorse che, parlando, aveva dato il tracollo a tutto. Ma gli pareva già da un tempo incalcolabile e che fosse possibile rimediare. Stava per dire che non era vero, quando s’accorse che il cavaliere non aveva più nessuna stima di lui. Allora si raccomandò come un ragazzo, cercando di fargli credere che si trattasse quasi di un capriccio, di una necessità non indispensabile; quasi di un lusso. Gli premeva che il Nicchioli non sospettasse, e sorrise. Ma il cavaliere, addirittura di un altro umore, non dette retta a quel sorriso. Che gli era avvenuto? Non alzava più gli occhi e non aveva più voglia di parlare. Questo cambiamento sembrava pieno di conseguenze cattive. Camminava più lesto, come se non potesse stare più con lui. Era adirato? Era finita la loro amicizia? O sarebbe andato a informarsi alla banca?
Ma non indovinò nulla, benchè il cavaliere, lasciandolo, gli desse la mano in un modo come per rimproverarlo.
In casa, Giulio trovò Enrico che insegnava a giuocare a dama alle nipoti mentre stava su una poltrona con un piede dentro un senapismo caldo, perchè durante la notte aveva avuto un altro attacco di gotta. Modesta, vicino alla finestra, cuciva.
Egli entrò in camera e ci si chiuse. Sentì che per lui vivere era doventato una cosa del tutto involontaria. Non gli importava più di niente, e le voci di quelli che parlavano nella stanza accanto gli sembrava che si fermassero a una specie d’ostacolo; che non le lasciava passare oltre. Egli, a un certo momento, si voltò perfino per vedere se quell’ostacolo era visibile! Non riesciva nè meno, ad essere triste e a preoccuparsi: una chiarezza fatale ed inalterata gli faceva conoscere, con un gran guazzabuglio di ricordi e di pensieri, ch’egli non avrebbe potuto cambiare nulla. Sentiva dissolversi ogni cosa e non riusciva più a prendere una decisione. Anzi, gli pareva proibito per sempre che egli potesse trovare una ragione qualunque di quel silenzio cosciente. Se uno avesse parlato di cose allegre, gli avrebbe fatto piacere; e gli sarebbe parso naturale. Pensava volentieri chè Niccolò era andato a Firenze per divertirsi; ed egli stesso non credeva più che il giorno dopo c’era la scadenza d’una cambiale. S’allontanava agevolmente dalla realtà; e gli pareva che avrebbe potuto fare a meno di riavvicinarcisi.
S’accorse che non parlavano più; ed Enrico, sporgendo la testa all’uscio, dopo un bel pezzo, gli chiese:
— Sei stato con il cavaliere?
— Sì: quasi due ore. C’è qualche motivo perchè tu me lo domandi?
— Volevo sapere quel che ne pensi, e se gli hai detto niente. Non te ne fidare: e doppio come le cipolle.
— Ma ti pare che io volessi entrare con lui in certi gineprai? Egli aveva tutt’altro per la testa. Non sarebbe stato nè meno educazione!
— Allora, hai agito bene.
— Sono venuto al mondo stamattina?
— Lo so. Ma te l’ho chiesto tanto per potermi regolare nel caso che lo incontrassi io.
— Tu farai sempre conto di cadere dalle nuvole, qualunque cosa ti domandi.
— Siamo d’accordo. O perchè te ne stai costì solo? Vieni di qua anche tu. Le bambine escono con Modesta.
Giulio rispose come se il fratello cercasse di fargli commettere qualche errore:
— Perchè devo muovermi di qui? Ci sto così bene!
— Allora, se credi, fai il tuo comodo.
E, ritirata la testa, chiuse l’uscio. Ma, istantaneamente, Giulio si sentì invadere come da un delirio senza scampo. Chi lo avrebbe trattenuto perchè non andasse in mezzo alla cognata e alle nipoti gridando? Come avrebbe potuto fare a non buttarsi a capofitto contro il muro? Chi lo poteva tenere, nella strada, che non, corresse per tutta Siena? Bisognava, dunque, che egli si preparasse a commettere chi sa quale stravaganza, che avrebbe fatto effetto a tutti. «Ecco, egli pensava, come un uomo può cambiarsi! È lo stesso di una malattia, che viene quando non ci si pensa nè meno!» Ma egli restava a sedere; e nessuno, vedendolo, avrebbe potuto sospettare di niente. Gli seccò che le nipoti andassero a salutarlo e a baciarlo. Pensava: «C’è bisogno di queste smancerie?» E non si rendeva conto che esse avevano fatto sempre così. Poi, pensava: «Tutta la nostra regola di vivere dev’essere intesa in un altro modo. Altrimenti, vuol dire che io, in quarant’anni che ho, non sono mai riescito ad imbastire attorno a me una cosa che mi possa fare veramente piacere e che risponda ai miei sentimenti. Perchè gli altri mi credono eguale a loro? Perchè gliel’ho fatto credere io. E perchè se io dicessi a loro quel che penso, è certo che ne proverebbero dispiacere e non vorrebbero? Vuol dire che io li ho tanto abituati a me stesso e ad essere così, che io ho perduto ormai qualunque diritto a ricredermi. Ho fatto bene o male? E non potrebbe essere un bene anche per loro se io riescissi a far conoscere quel che penso? Io ho continuato a vivere adattandomi sempre, e costringendo me stesso a una certa regolarità, che mi sembrava giusta ed opportuna. Ora m’accorgo che posso esser vissuto soltanto provvisoriamente, finchè un giorno dovesse sopravvenire un fatto decisivo, come quello della cambiale, che farà doventare debole ciò che prima mi sembrava sicuramente forte e scelto bene. E se io non volessi più obbedire a tutto ciò che fa parte anche di me stesso, mi troverei obbligato a non stare più in questa casa e forse ad andarmene chi sa dove. L’impazienza del mio stato d’animo deliberativo dipende soltanto da me; finchè io non l’ho manifestato a nessuno. Ma, siccome per eseguire la mia volontà, dovrei necessariamente, in un modo o in un altro farla conoscere a loro, io non sarei più libero come mi credo; ed io, perciò, mi sono illuso da vero di godere e di soffrire soltanto per un effetto della mia coscienza. La paura che io ho di sbagliare a prendere qualche decisione, l’impossibilità anzi di prenderla, è la causa della mia indifferenza. Non vale, dunque, la pena ch’io soffra; perchè non soffro soltanto per me ma anche per gli altri. Io vivo così perchè essi vivono insieme con me».
Allora gli pareva possibile cedere e trasmettere la sua sofferenza a qualcuno di loro; ed egli ritrarsi verso qualche punto, dal quale avrebbe potuto soltanto assistere. Non vide più perchè egli avesse dovuto continuare a vivere, e il desiderio della morte gli parve preferibile e necessario. «Essi mi fanno morire, senza ch’io abbia il diritto di rifiutarmi. Anzi non mi preparo nè meno a rifiutarmi. E perchè?» Ma il perchè non lo trovava; e, a forza di pensarci, gli vennero in mente altre cose, che con quella domanda non avevano più nessun legame. Almeno, quand’era giovine, non gli era mai capitato di perdersi in queste possibilità negative, che ora filtravano anche nel suo passato più remoto; in quel passato che credeva invulnerabile. Invece non esisteva nessuna resistenza; e un giorno di disperazione si trovava subito a contatto con la sua giovinezza; che, con una rapidità da fare paura, era doventata soltanto una verità del suo sentimento.
Escì di camera con un viso che Enrico gli domandò se si sentisse male.
— Io? Perchè? Non sono mai stato come oggi!
Niccolò a Firenze s’era divertito a girare tutto il giorno; senza parlare a nessuno. Egli s’incoraggiava con energia ad essere senza preoccupazioni; e camminava testa alta, tronfio e rimpettito, come un signore che avesse a fare visite da insuperbire; e, solleticando il suo amor proprio, fossero dicevoli soltanto alle sue ricchezze. La giornata gli parve troppo breve; e soltanto in treno, mentre si riavvicinava a Siena, ebbe qualche dubbio se avesse dovuto stare insieme con Giulio. Ma si portò almeno un centinaio di ragioni, l’una migliore dell’altra; che lo approvarono. «Avrei poco giudizio se io me la prendessi prima del tempo! Per oggi, è bene ch’io abbia fatto così.»
Quando il treno arrivò, era vicino a buio; e Niccolò non si sentì nessuna fretta di andare a casa. Lasciò passarsi avanti tutti gli altri scesi alla stazione; seguiti dai facchini con le valigie in spalla; ed egli guardava Siena come se la vedesse per la prima volta. Era tentato, perfino, di domandare quale strada dovesse prendere! Si fermò, con le mani dietro la schiena, a guardare la basilica di San Francesco; già scura d’ombra.
Dirimpetto, nè meno a mezzo chilometro, il pendio d’una collina era invece ancora chiaro; e, tra essa e la basilica, la vallata che s’allarga in pianura, non smettendo fino ai monti lontani, era azzurrognola e placida; con anche certi colori di grigio quasi bianco. Un cipresso, da sopra una sporgenza che non si vede, pareva sospeso sopra alla pianura. Sotto San Francesco, le case d’Ovile; sospinte e sdrucciolate giù per lunghi scarichi.
Niccolò si volse intorno, per vedere se nessuno lo notava. Desiderava che lo giudicassero pieno di boria e d’alterigia; e, andando a casa, si soffermò a tutte le botteghe dove erano ghiottonerie e robe da mangiare. A casa disse giubilando, per vantarsi:
— Come son stato bene! Una giornata incantevole!
E, poi, fingendo una magnanimità compunta:
— Scommetto che voi vi siete annoiati!