Tre croci/Capitolo IX
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IX.
Pareva che Giulio escisse da una malattia lunga. Emaciato, con la pelle del viso più floscia, si capiva che era molto abbattuto d’animo.
Il Nisard tornò subito il giorno dopo a trovarlo, ma s’avvide che non avevano voglia di burlare. Egli disse:
— Ma! Non bisogna mai stare male più di quanto è necessario!
Niccolò, che sonnecchiava, aprì gli occhi e li richiuse smovendo la lingua come se l’avesse allappata. Sapeva qualche cosa il Nisard, forse? A lui, in quel momento, non glie ne importava. Giulio pensò che doveva subito investigare, ma bastò ch’egli guardasse il Nisard per rassicurarsi. Allora, sfilò un libro dallo scaffale che gli era dietro, lo aprì a una pagina che conosceva e gli fece leggere, tenendo l’indice sotto le parole e scorrendolo: Fili, sic dicas in omni re: Domine, si tibi placitum fuerit, fiat hoc ita.
Rimise subito il libro al posto, e chiese:
— Non ha ragione chi ha scritto così?
Il francese voleva contraddirlo, ma restò colpito che il libraio gli avesse fatto leggere l’Imitazione di Cristo. Non era delicato nè opportuno farne una discussione da passatempo. Però, egli aveva intuito che le cose della libreria dovessero andare di molto male e che ne dovessero apparire presto le conseguenze. E se non gliene dicevano niente, vuol dire che diffidavano anche di lui. Egli si disse, vergognandosi di questa diffidenza: «Ma! soltanto tra sè sanno quel che accade!» E perchè quel giorno aveva voglia di sentirsi lieto, non si trattenne come il solito.
Niccolò si alzò di scatto dalla sedia, stirandosi e mettendo il petto in fuori. Egli pensava a cose addirittura infantili per aiutare il fratello; ch’era costretto a pregarlo che lo lasciasse fare. Quando si fu stirato, tanto che gli parve di essere molto più alto di quel che era, disse:
— Vendiamo la libreria al primo che capita, e noi faremo un altro mestiere! Io vado a Milano, a Torino, a Roma; e trovo il compratore. Lo porto qua con me; e il rimedio è preso!
E picchiò forte le mani insieme; poi, fece una giravolta; che lasciò i segni del tacco sul pavimento.
— Oh, ma non bisogna perdere tempo!
Giulio scosse la testa; con le mani nelle tasche dei calzoni e gli occhi fissi su gli sgorbi della cartasuga. I suoi occhi doventavano luminosi e trasparenti; e avevano una tristezza, che avrebbe fatto pietà a chiunque.
Dopo un poco, Niccolò trasse fuori un’altra proposta; anche più seriamente:
— Facciamoci firmare una cambiale dal signor Riccardo Valentini.
— La firmerà la prima volta, ma la seconda no. E, poi, se non ci fossero quelle false e quelle vere del Nicchioli!
— Già! Non ci avevo pensato! Il meglio è dirlo al cavaliere, dunque!
— Potremo andare qualche altro mese, ma poi?
— Bisogna resistere fino all’ultimo.
— Abbiamo fatto già tutto il possibile.
— Seguiteremo.
Giulio aprì il cassetto della scrivania, come se avesse potuto trovarci qualche cosa che gli fosse utile. Toccò tutti i mucchi delle carte che c’erano, e con le unghie volle levare uno spillo restato dentro una commettitura del legno. Poi, si mise a bucarsi la punta delle dita.
— Vogliamo dire tutte le cose, come stanno, al direttore della banca? Ci vado io. E gli chiedo che ci lasci tempo di riparare alla nostra uscita.
— Io mi strabilio come non ti rendi conto che tu farnetichi.
— Vado a rubare, piuttosto! Ma in prigione per le cambiali false, no. M’ammazzo!
Il malessere di Giulio si eccitava anche di più; e finì che egli ebbe più compassione per il fratello che per sè stesso. Di Enrico pensò che era un cretino.
Niccolò gridava sempre di più:
— Come! Due uomini non siamo capaci a slegarci da quest’impicci! Faremo ridere tutta Siena! Chi sa quanta gente ci avrà piacere. Ma io me ne strafotto! Basta che non mi vengano sotto il viso! Sarà una festa per parecchi il nostro fallimento.
— Zitto! Non dire questa parola.
Niccolò si volse attorno impaurito, e chiese:
— Non siamo soli?
E, data una stratta alla sedia, la fece rompere. Allora, come un matto, escì di bottega.
Giulio rimise insieme i pezzi della sedia, legandoli con lo spago.
Niccolò andò a casa, quasi correndo. Giù per la scesa di Via del Re ci mancò poco che non sdrucciolasse. Come se fosse ammattito da vero, tremando tutto, baciò le nipoti e disse alla moglie:
— Modesta non ti affaticare troppo per il mangiare! Non voglio! Anche tu hai ragione di riposarti, qualche volta. Dacci pane, acqua e qualche cipolla cruda. Io non voglio altro!
Modesta si spaventò e si volse a guardare le nipoti.
— Che hai? La febbre! Quando t’è venuta?
Egli entrava da una stanza a un’altra, e riesciva subito. Non capivano quel che volesse.
Egli chiese, sempre senza fermarsi:
— Chiarina, è venuto già il tuo fidanzato?
La ragazza gli rispose, ridendo:
— Viene questa sera.
Lo zio le fece una carezza sotto il mento e girò gli occhi su attorno al soffitto.
— Niccolò, che hai? Mi fai battere il cuore. Io mando a chiamare il medico.
— Il medico? Non ce n’è bisogno. Sono venuto a farvi una visita e a cercare il mio cappello sodo, che mi pareva d’averlo attaccato in questa stanza.
Ma non s’era ancora fermato; e la moglie gli domandò:
— E, ora, dove te ne vai?
Ella e le nipoti gli andavano dietro, di stanza in stanza.
— Voi, piuttosto, che volete da me? O se io volessi vivere solo da qui in avanti? Toh, non mi piace più avere moglie e stare con tutti voi. Siamo troppi!
Modesta, allora, credette che burlasse; e gli disse, facetamente, sebbene non del tutto rassicurata:
— Se mi vuoi lasciare, io ne sono più contenta di te.
Egli rise a singhiozzi, come sforzandocisi. E, rendendosi conto del suo stato d’animo, all’improvviso, lo continuò finchè non fu all’uscio: l’aprì, mandò indietro la moglie e saltò giù per le scale. Egli si chiedeva perchè gli fosse venuto quell’estro poco serio, mentre in bottega aveva lasciato Giulio solo.
Gli chiese, rientrando:
— Che hai fatto mentre non c’ero?
Giulio gli sorrise:
— T’ho accomodato la sedia e mi son messo a segnare sul registro quel pacco di libri arrivato stamani.
— Che roba è?
— Romanzi, novelle....
— Pappa sciapa per chi non ha niente da pensare. Al macero!
E, messosi a ciancicarsi le unghie, disse:
— Io prenderei quelli che scrivono i libri e con una frusta li farei ballare a suon di lividure.
— Codesti son ghiribizzi!
— O alla cambiale non ci pensi più?
Giulio, che se n’era un poco dimenticato, gli disse:
— Lasciami respirare!
— Ho capito: ci penso più io di te.
— Perchè? Che hai fatto? Hai trovato i denari?
— È inutile che tu mi faccia l’ironico.
E sperò che Giulio avesse già rimediato, parendogli più tranquillo. Perciò, lo guardò, aspettando che tenesse a bocca dolce anche lui. Ma Giulio gli disse, accorato:
— Questa volta scivoliamo senza poterci aggrappare a niente! Tu, ancora non ci vuoi credere!
— Fino ad ora, la fortuna ci ha sempre assistito!
— Ed ora ci ha lasciato.
— Vuol dire che subiremo insieme la stessa sorte: io non sono come Enrico.
— Pensavo, invece se qualcuno di voi si potesse salvare.
— A quale scopo?
— È vero: se tocca a me, anche voi dovete fare lo stesso.
Ma Niccolò non avrebbe potuto resistere di più alla monotonia di questa tristezza sconsolata. Egli cominciò a muoversi e poi a dimenarsi su la sedia; come quando, d’estate, per chiappare una mosca picchiava e sbatacchiava le mani da per tutto. Giulio se ne accorse e gli disse:
— Vai a fare una bella scorpacciata d’aria! Non è mica necessario che tu stia qui perchè ci sto io!
Ma il suo dolore, che doveva sopportare da solo, si fece più vivo; con un’acutezza felina.
Niccolò rispose:
— Ti garantisco che non perderò mai il mio appetito. Se, stasera, avessimo una mezza dozzina di beccacce arrosto, io pulirei anche gli ossi. La soddisfazione di farmi stare male non l’avrà mai nessuno. Alla bottega sarei il primo io a darle fuoco! Perchè te la, vuoi prendere, Giulio?
— C’è bisogno che tu mi metta coraggio? Io non mi son mai sentito galantuomo e leale come ora! Mi sembra di non avere più nulla da chiedere; nè agli uomini nè a Dio. La mia volontà consiste appunto nel rendermi conto del mio tracollo. È una specie di orgoglio alla rovescia; ma sempre orgoglio. Ho fatto di tutto non per essere un signore, perchè non sarebbe stato possibile, ma per mantenerci quel che avevamo avuto da nostro padre. Se non m’è riescito, non è colpa mia. Nondimeno, mi prendo lo stesso la colpa; e voglio morire con più coscienza di quella che avevo due o tre anni fa. Era destinato ch’io dovessi finire male, e non me ne lamento. Qualcuno potrà dire che s’era sbagliato ad avermi stima; e io gli rispondo che ora faccio a meno di qualunque stima. Sono io, proprio io, che gli toglierei qualunque illusione. Nessuno può pretendere da me che io non sia come Dio mi ha messo al mondo. Non ho mai recato, volontariamente, male a nessuno. Ho fatto le firme false, solo perchè la mia firma vera non avrebbe contato nulla.
Niccolò, per approvare, fece una specie di grugnito; e disse un’imprecazione con una parola oscena. Ma Giulio si sentiva come morire, desiderando lo stesso di sacrificarsi senza chiedere un limite.
— Nessuno, se sapesse ch’io sono un falsario, mi darebbe la mano. Non me ne importa più!
Gli mancava anche il respiro, e dovette riposarsi. Niccolò gli disse:
— Io solo, che t’ho sentito parlare così, e ti sono fratello, posso apprezzarti. Ma anche di me non te ne deve importare! Sono io che seguo te, se non vuoi che io sparisca alla chetichella. Ora, stiamo zitti, perchè entra il verro!
Enrico, con la sua collottola, dura di lardo e di cotenna, entrò anche più fosco e imbiecato degli altri giorni. Giulio, senza nessun rancore e senza nessuna animosità, gli chiese:
— Che vuoi?
Egli, prima, biascicò senza rispondere; poi, disse:
— Domani è domenica: Vogliamo mangiare una spiedonata di tordi? Li ho visti da Cicia, legati a mazzi. Mi son parsi grassi abbastanza.
Niccolò, allora, bofonchiò:
— Io domani non mangio con voi!
— E perchè? Dove vai?
Niccolò, con un tono da gradassata, insolente, rispose:
— A Firenze. È tanto tempo che non assaggio più i fagioli cotti in forno; come li fanno i fiorentini. Questi di Siena non sono buoni.
Giulio rispose, ad ambedue, con una voce pacata; che commoveva:
— Domani tu mangerai i fagioli a Firenze, e tu comprerai i tordi da Cicia. Vi manca altro?