Torino e suoi dintorni/Capitolo primo/II

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II. ― BREVE INFORMAZIONE STORICA.


Primi abitatori di Torino — Sua resistenza ad Annibale — Assume il nome di Giulia, poi quello di Augusta — Civiltà etrusco-romana — Dominio longobardico — Primi duchi di Torino — Contea torinese — Oddone di Savoia — Autorità consolare — Amedeo III di Savoia conte torinese — Molestie imperiali — Amedeo VIII conte di Piemonte — Occupazione francese nel 1536 — Emanuele Filiberto — Torino capitale dello Stato — Peste nel 1630 — Assedi di Torino nel 1640 e nel 1706 — Pietro Mica — Sotto l’impero napoleonico — Ritorno di Vittorio Emanuele nel 1814 — Carlo Alberto e Vittorio Emanuele II.

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(Stemma della Città di Torino)


Senza perdersi di troppo, che nol ci consente la natura e la mole di questo libro, nelle favolose tradizioni di Fetonte, figliuolo del Sole, che cadde nel Po, guidando inesperto il carro paterno, o quanto meno nelle congetture bibliche sopra le prime migrazioni dei popoli asiatici in Italia, diremo brevemente, sull’appoggio de’ moderni scrittori1, come la gente Tirrena (la prima, o almeno tra le prime migranti in Italia), suddivisa in tre rami, chiamasse gli abitatori a piè delle Alpi nevose col nome di Taurisci o Taurini, vale a dire montani, avendo nella maggior parte degli idiomi asiatici la parola Taar o Tor la significazione di monte2. Parliamo di duemila anni circa prima della venuta di Gesù Cristo.

Que’ Taurini compaiono successivamente nella storia come popoli liguri, perchè mescolati a loro che vennero pure dall’Asia, onde Strabone li chiama gente linguistica, e furono i fondatori di Torino. Collegati i Taurini coi Galli stettero per lungo tempo in nimicizia con Roma, di cui divennero quindi amici e fedeli.

La prima sicura notizia che si abbia di questa città è la gloriosa resistenza ch’essa oppose ad un esercito di africani condotti in Italia da Annibale, dal quale, dopo tre giorni di combattimento, venne espugnata.

Due secoli dopo i Taurini, come tutto il paese che si estende tra [p. 10 modifica]l’Alpi e il Po, ebbero da Giulio Cesare cittadinanza romana; e Torino il nome di Giulia. Dopo la morte di Giulio Cesare, l’imperatore Ottaviano Augusto (al cui tempo nacque Gesù Cristo) le diede il titolo di Augusta (Augusta Taurinorum), nome che conservò poi sempre sotto il governo de’ Romani, e che le vien dato anche tuttora da chi scrive latino.

Signoreggiante Cozio, tra Rocciamelone e Monviso (ond’ebbero quelle Alpi il nome di Cozie), sembra certo che Torino facesse parte di quel dominio.

Fu aggregata alla XII tribù del popolo romano. Possedeva teatro, circo, archi di trionfo, trofei militari. Il palagio chiamato delle Torri, è forse l’unica reminiscenza di Torino romana. Il padre degli Dei era detto custode della città: Jupiter custos augustae taurinorum.

Intanto la civiltà etrusco-romana faceva fiorire il territorio subapino. Le antiche arginature etrusche si prolungarono lungo l’alveo del Po, onde la palude si convertiva in prateria irrigua; e i romani cultori delle campagne le spargevano di viti, di olivi e di piante trasportate dall’Asia.

Ebbe Torino la parola del vangelo portata da S. Calimero, vescovo di Milano, e da S. Dalmazzo che bandì la legge di Cristo ai torinesi, agli stazielli, ai liguri, ai pavesi. Nel 397 o nel 401 si tenne in Torino un concilio di vescovi puramente italiani. Ma la vera storia de’ vescovi torinesi ha incominciamento da S. Massimo, che pontificò dal 415 circa, fin dopo il 452.

Ritolta Torino al romano imperio dai Longobardi, non si trova parola di duchi, se non nel 589, quando Agilulfo, duca di Torino, intervenne alle nozze della bella e savia Teodolinda, figlia del re o duca di Baviera, che andava sposa di Autari, re dei Longobardi, morto il quale sposò Agilulfo, che divenne re dei Longobardi. Altri duchi di Torino salirono quindi il trono stesso, a cui pareva servisse di scala il ducato di Torino. Scarse del resto sono le memorie intorno al dominio longobardico in questa città, caduto il quale gli successe quello de’ Franchi.

Carlo Magno mutò i ducati in comitati. L’ampiezza del comitato era maggiore del ducato; minore però la dignità, maggiore la dipendenza. La contea di Torino saliva fino ai gioghi dell’Iserano, del Moncenisio e del Monginevro, poichè quelle regioni alpine erano congiunte al regno d’Italia, mentre il ducato finiva alle chiuse di Val di Susa e a’ piè del Mombasso. Tra il levante e il mezzodì, la contea comprendeva [p. 11 modifica]il territorio chieriese e gli altri vicini, e Savigliano col suo territorio. Sembra che a mezzogiorno ed a settentrione i fiumi Orco e Po la disgiungessero dai comitati di Ivrea e di Oirado.

La contea torinese e la marca d’Italia erano rette, nel secolo X, da una famiglia creduta di origine francese, ultimo della quale fu Odelrico Manfredi II, marchese di Torino, padre della celebre contessa Adelaide, cui era destinata la successione dello Stato paterno, la quale sposò, dopo il 1045 in terze nozze, sospinta da politica necessità, il principe Oddone di Savoia, figliuolo di Umberto Biancamano, onde la Casa di Savoia, pello splendido retaggio di quella principessa, estese i suoi dominii in questa bella parte d’Italia. Ma il possesso di Torino non ebbe tosto effetto.

Morta Adelaide, lo Stato essendosi sciolto in più parti, e Torino ordinata in comune fu, fin verso il 1130, governata da consoli; ma più tardi, abbassata l’autorità consolare, furono chiamati i podestà.

Dopo molte vicende civili e guerriere, si trova Amedeo III di Savoia, bisnipote della contessa Adelaide, e zio di Lodovico il giovane, re di Francia, col titolo di conte Torinese.

Molestata la città dalle armi imperiali, si rafforzò dapprima con alleanze di popoli subalpini; se non che avendo l’imperatore Federigo fatti grandi progressi in Lombardia, e volgendosi a sua devozione tutto il paese tra il Ticino e le Alpi, così fece anche Torino (1237), ma in seguito, scaduta la fortuna dell’imperatore, fu straziata essa pure da velenosi dissidii e dal furor delle parti. Dopo qualche anno d’indipendenza obbedì a Carlo d’Angiò, re di Sicilia; indi a Guglielmo VII, marchese di Monferrato, venne quietamente nelle mani di Tommaso III, ma per breve tempo.

Passata poscia sotto ai principi di Acaia, sorsero per essa giorni dolorosi di divisioni, di congiure, di ribellioni. Dopo la morte dell’ultimo principe d’Acaia (1418) era in Torino Amedeo VIII, il quale, pigliato il titolo di conte di Piemonte, ricevette dalla città, nella sala del Castello, il giuramento di fede. Da questo punto la storia di Torino è ormai quella de’ principi di Savoia. Deboli ed infelici furono i successori di Amedeo VIII.

Nel 1459, il supremo Consiglio di giustizia, che risiedeva a Pinerolo, venne trasferito a Torino, che da quel momento fu la vera capitale dello Stato e sede dell’università.

I duchi di Savoia, accostumati alle loro modeste residenze, prendevano [p. 12 modifica]stanza ora in una, ora in altra città del Piemonte. Amedeo IX e Violante avean fatta lunga dimora in Vercelli. Torino piacque a Carlo I ed a Bianca, ch’ebbero sede eziandio a Cariganano, Moncalieri e Pinerolo.

Carlo III, detto il Buono, troppo buono, lasciò andare la monarchia quasi al disfacimento; aperte le porte di Torino ai francesi, se ne impadronirono nel 1536. Francesco I onorò d’encomii la città, e con lettere patenti incorporolla alla corona di Francia; ne confermò tutti i privilegi; volle fosse sede di una corte suprema di giustizia, che si chiamò Parlamento, d’uno studio generale od università, d’un tribunale supremo demaniale, che si chiamò Camera dei conti.

L’assemblea de’ tre Stati, radunata da Carlo III, si tenne d’ordinario in Torino. Convennero nel 1509, 1514, 1518. Importa osservare che non erano quegli Stati generali della monarchia, ma i soli tre Stati della patria cismontana, cioè del Piemonte e dei paesi di nuovo aggregati, esclusa la valle d’Aosta, che teneva sue particolari adunanze. I tre Stati si radunarono anche nel 1539, movendo lagni al luogotenente francese.

Morto Carlo il Buono a Vercelli nel 1553, gli successe Emanuele Filiberto di lui figlio, il primo, secondo la espressione di Cesare Balbo, che intese a dirozzare e ad italianizzare i suoi popoli3, ristorando nel giro di pochi anni la monarchia dagl’infortuni d’un secolo intero. Militò fra le truppe dell’imperatore Carlo V, e divenne generale supremo degli eserciti di Fiandra. Stremata la fortuna di Francia alla battaglia di S. Quintino, ricuperò gli Stati paterni. La città di Torino fu resa al duca soltanto nel dicembre 1562. Questo principe, intento a comporre lo Stato nella forza e nell’unità, dotò Torino d’una cittadella, distrusse molti privilegi municipali, sostituì le bande paesane alle milizie feudali, affine di poter raccogliere in brev’ora soldati ben ammaestrati nel maneggio dell’armi; mutò il reggimento comunale, sostituì ag’influssi locali gl’interessi generali, usò termini di governo più stretti, s’astenne dal convocare le generali adunanze degli Stati, restituì alla monarchia feudale una monarchia assoluta, di titolo piucchè di essenza. Nelle quali riforme risultò più grande che non sui campi di guerra.

La popolazione di Torino, sotto Emanuele Filiberto e Carlo Emanuele

[p. 13 modifica]I, che continuò la sapiente opera del padre, formò la propria tempera nazionale e militare.

Nel 1630, un grave flagello, la pestilenza, disertò il Piemonte. Torino, che piangeva ancora le perdite fatte nel 1595, lo vide imperversare con maggiore ferocia.

Così ne parla il Cibrario: « Uscita la corte, qua e là sparsi gli ufficii e i magistrati, contaronsi in città 11,000 persone. Dopo pochi mesi 8,000 erano morte. Molti, camminando e discorrendo, cadean morti come percossi dal fulmine. Altri avevano tempo di domandare una sedia, sedevano e incontanente morivano. Altri sentivano uno stimolo di sete, e, accostato il caso alle labbra, in quella positura morivano e si manteneano dopo la morte. Altri gravati di carboni, o segnati di tacchi, petecchie o verghe nere; o seminati di migliaia di pustole. Chi passava fra atroci dolori, mandando continue grida e pietosi lamenti; chi tra i deliri e le visioni spaventose; chi oppresso da stupore o da letargo. Ne furono veduti molti che, appoggiati alle mura, stavano come trasognati, senza parlare, nè mangiare, nè bere due, tre o quattro giorni e notti in piedi, e poi, vinti dal male e dalla spossatezza, cadeano morti senza soccorso nè spirituale, nè temporale. Moltissimi religiosi, che recavano i sagramenti agli appestati, furon presi dal male e la massima parte morì. I curati di Torino, da due in fuori, morirono tutti, e i loro successori ebbero la medesima sorte, e fino in molte parrocchie i successori de’ successori.

« Molti orrendi ed abbominevoli casi, molti pietosissimi narra il medico Fiocchetto:

« Due fanciullini, uno di tre, l’altro di quattro anni che, mancati i genitori, si trovarono soli, tocchi dal male, s’abbracciarono con fraterno affetto, e così morirono; ed abbracciati li trovarono i monatti alla porta della casa che sorge davanti alla chiesa della Trinità, e così avvinti li gettarono tra gli altri cadaveri, sotto al peso dei quali scricchiolava il carro che conducevano. »

Al travaglio della peste s’aggiunse quello della fame, imperocchè francesi e spagnuoli saccheggiarono con bestiale furore le campagne. Ma Vittorio Amedeo I, succeduto in quei giorni al padre, soccorse la città di grani. Magnanima dimostrossi la civica amministrazione, la quale assicurò tutte le provvisioni pei lazzaretti, attese a far nettare la città dai cadaveri e dalle immondezze, e spese non meno di 14,000 scudi il mese. Nè meno micidiale fu cotal pestilenza nelle vicine contrade. [p. 14 modifica] Due memorabili assedi sostenne Torino, uno nel 1640, l’altro nel 1706.

Nata in Piemonte la guerra civile per la reggenza degli Stati affidata a Cristina di Francia, madre del fanciullo Carlo Emanuele II, e contesa dai principi Tommaso e Maurizio suoi cognati, s’aggiunse alla guerra civile l’accompagnamento della guerra straniera. Un esercito francese sosteneva la reggente, un esercito spagnuolo si mosse a spalleggiare i principi. Questi s’insignorirono della città di Torino; in mano dei francesi rimase la cittadella. Oltre gli eserciti stranieri, piemontesi combattevano contro piemontesi. L’accanimento da ambe le parti fu smisurato e crudele. La guarnigione della città fece ventinove sortite; gli spagnoli assaltarono più volte le truppe francesi e ne furon respinti. Mancavano i viveri nel campo francese, ma più nella città, ove era chiuso il principe Tommaso, deliberato a difenderla ad ogni costo. Ma la mancanza della munizione da bocca giunse a tale, che condiscese a capitolare il 20 settembre 1640. I francesi entrarono vittoriosi in Torino. Due mesi dopo, Madama Reale vi faceva ingresso in negre vesti. La tristissima guerra civile ebbe fine col trattato del 14 giugno 1642- Questo assedio è memorabile nella storia militare del Piemonte, per l’ostinazione e l’ardenza dei combattenti.

L’altro assedio di Torino, assai più famoso e glorioso per le armi nostre, fu quello del 1706. A questo punto ci piace di soffermare un poco il lettore. Ferveva la guerra per la successione di Spagna. Il grande evento chiamò tutti i pretendenti sulle armi; fra’ quali il duca di Savoia. Dopo una lunga istoria di soprusi, d’intrighi, di rappresaglie e d’insolenze spagnuole e francesi, quell’anima ardente di Vittorio Amedeo dichiarò a un tratto, con ardimento nuovo nella storia, la guerra a Francia e Spagna (3 ottobre 1703). Ne’ tre anni seguenti ebbero luogo importanti fatti tra i belligeranti. Mal piegavano le cose di Francia fuori d’Italia. Non così fatalmente fra noi. Corse ostili e devastatrici desolavano il Piemonte. Presa Susa e Vercelli, la valle d’Aosta col forte di Bard, Ivrea co’ suoi castelli, e Verrua e Monmeliano e Nizza, era già venuto il 12 maggio del 1706, che un esercito poderoso francese stringeva d’assedio Torino.

Passata la Stura, l’armata gallica prese campo tra la città e la Veneria. Era composta di 78 battaglioni e di 80 squadroni. Aveva sei compagnie di bombardieri, 600 cannonieri e 600 minatori. Il signor di Honville comandava in capo l’artiglieria. Dirigeva l’attacco l’ingegnere Tardif. Quaranta giorni impiegaronsi ne’ preparativi dell’assedio. Le [p. 15 modifica]linee di circonvallazione cominciavano sulle rive del Po, ov’era il vecchio parco, e continuavano sino alla Dora presso Lucento. Una grande parallela serviva di controvallazione. Magazzini di viveri, oltrechè presso al campo francese, stabilironsi a Crescentino, a Chivasso ed a Susa. Francesco d’Aubusson, duca della Feuillade, era destinato a condurre l’assedio.

Vittorio Amedeo, durante i preparativi, non istette colle mani alla cintola. Piccole scaramucce ebbero luogo dapprincipio per molestare gli assedianti e sturbarne i lavori; in molte fazioni i nostri ebbero abbondanti prede. La cittadella messa in istato di difesa, multate le interne disposizioni già note al nemico, costrutte salde e forti trincee appiè della collina, ove s’alzarono de’ piccioli forti, il comando della città venne affidato al marchese di Caraglio, piemontese, quello della cittadella al conte della Rocca d’Allery, savoiardo. Il presidio consisteva, secondo il Denina, in 6670 uomini, parte dei quali reclute. I sette reggimenti imperiali erano, in forza delle malattie e delle spedizioni precedenti, ridotti a soli 1,500 uomini. Quindici ingegneri servivano la città e la cittadella sotto la direzione mirabile dell’avvocato Antonio Bertola, che poi fu conte di Exilles. Levato il selciato alle vie, poste le vedette sui campanili, spianata la guglia della torre, ordinate le guardie del fuoco, illuminate di notte le vie, disposti di qua e là grandi serbatoi d’acqua, fatte radere al suolo le case e gli alberi de’ dintorni di Torino, la città aspettava intrepidamente l’assalto.

E infatti, tra il 9 e il 10 di giugno, le prime bombe salutarono la cittadella; e quindi ne piovvero anche sulla città, e sì pesanti, dice il Cibrario, che perforavano dall’alto al basso le case e le chiese, e scendevano fin nei sepolcri a sconvolgere le ossa dei trapassati.

Un bel giorno il La Feuillade spedì un messaggio al Duca, per fargli sapere aver egli ricevuto dal suo re ordini di dover continuare vigorosamente l’assedio; volere perciò informarsi da qual parte della città tenesse i suoi alloggiamenti per risparmiarli dalle bombe; offerire passaporti alle principesse per portarsi altrove. Vittorio Amedeo con nobile orgoglio rispose: che il suo quartiere era sui bastioni della cittadella, che il passaggio della porta di Po era libero per uscirne a suo piacimento, che ringraziava S. M. Cristianissima de’ passaporti offerti alla sua famiglia.

Si disse allora che il generale francese facesse presentare un foglio al Duca, sottoscritto dal re di Francia, in cui gli prometteva la cessione di quanto desiderava. La Francia, infatti, esausta d’uomini e di danaro, si trovava in que’ momenti in male acque. Fuori d’Italia [p. 16 modifica]avea fatto perdite immense, nè la campagna di Piemonte le costava di meno. Ma Vittorio Amedeo, memore dei vecchi insulti, nè potendosi ritirar con onore cogli alleati, ricusò le larghe offerte del re francese.

Montato, a tale rifiuto, in sulle furie il La Feuillade, tentò in mille guise di occupare la montagna per togliere i viveri agli assediati e impedire alla Corte l’uscita dalla capitale. Giudicò quindi il Duca conveniente cosa l’allontanare tosto dalla osteggiata città la sua famiglia e quella di suo cugino il principe di Carignano. Madama Reale, madre del Duca, la duchessa sua sposa, due lor figliuoli, il principe di Piemonte e il duca d’Aosta, partirono infatti il 16 giugno, nel momento stesso in cui una fitta grandine di palle infuocate, di libbre sedici cadauna, veniva cavallerescamente scagliata dai nemici sul ducale palazzo.

Partì il Duca all’indomani da Torino, con poca ma valida scorta, per poter tenere la campagna e stornare le forze nemiche dalle opere d’assedio, lasciando luogotenente generale della città il conte di Daun. Il cancelliere, una parte del Senato e la Camera de’ conti abbandonarono anch’essi la capitale, e si portarono a Cherasco.

Il generale francese fece più volte tendere al Duca l’imboscata a inseguirlo per farlo prigione; e già fra Carmagola e Cherasco ci sarebbe riuscito, se un drappello di fida soldatesca piemontese soppravvenuta non avesse obbligati i francesi a ritirarsi. Una sorte diversa toccò al vecchio principe di Carignano, il quale, facendo cammino più lento, fu preso e condotto in prigione colla famiglia nel castello di Racconigi.

Frattanto il Duca, dalle montagne di Mondovì, ov’erasi fermato alcuni giorni, venne a Cuneo il 3 di luglio per ritornare presso a Torino, affine di molestare, con la sua cavalleria, il campo degli assedianti. Ne seguì un’azione molto gagliarda tra Saluzzo e il Po, ove Vittorio Amedeo, col principe di Soissons ch’era seco, con un pugno d’uomini battè e respinse l’inimico. Invano il La Feuillade volle tentare altri stratagemmi per trarre il Duca nella rete; chè l’avveduto principe di Savoia non si lasciava mai cogliere, assistito com’era dagli abitanti del contato; i quali, lasciato l’aratro e imbrandita la picca, tenean dietro sempre ai passi dell’amato lor Duca,; per cui, riuscita vana ogni astuzia del generale francese, tornò sotto a Torino, ritirando anche le truppe ch’erano a Racconigi in guardia del principe e della principessa di Carignano.

Mentre queste scene varie succedevano all’infuori, Torino, sul principio d’agosto, cominciava a scarseggiare di viveri, e più ancora di munizioni da guerra. Una fabbrica di polvere fu innalzata dietro la zecca con [p. 17 modifica]

ordigni di nuova invenzione. Gli abitanti dovettero abbandonare le proprie case, specialmente quelle intorno al tempio della Consolata, per non rimaner vittime delle palle nemiche, e ritirarsi nella contrada di Po. I palazzi ducali erano già aperti per ricovero dei cittadini. La porta di Po era bensì libera, ma l’armata francese aveva occupata gran parte dei passi vicini e sorpreso parecchie volte i convogli che si mandavano agli assediati. La cittadella formicolava d’operai di ogni genere, che con indicibil bravura tiravan in lungo l’assedio. Trecento donne trasportavano terra e fascine nei fossi e nei luoghi più esposti alle batterie nemiche. I poveri dell’ospedale e gli orfani lavoravano anch’essi negli scavi delle mine. Meravigliose prove di coraggio e di valore! Il Consiglio di città provvide alla meglio a prevenire la fame; però i prezzi incarivano, e si vendette la carne, dice il Soleri, fino a otto soldi alla libbra! I cittadini più agiati offerivano le loro derrate; i ricchi aprivano i loro scrigni. Le diserzioni e le malattie scemavano la guarnigione. L’artiglieria però non poteva essere migliore. Le mine sortivano un buonissimo effetto, ma scarseggiavano sempre le munizioni. Vittorio Amedeo, fecondo in ripieghi, spediva colla corrente dell’acqua degli otri di polvere nella città; ma accortosene il nemico, li arrestava con reti e rendeva inutile il ripiego. Gli assedianti frattanto si accostavano sempre più alla piazza, e pressavano Torino ch’era ridotta quasi agli estremi. Un soccorso di gente armata dall’estero era divenuto necessario. Lo aspettava ansiosamente quel popolo generoso, indurato nella difesa della patria, pronto a tutti i sacrificii per supplire alla necessità dell’assedio; quel popolo che volava dalle preci dell’altare al fuoco dei baluardi con ardore costante. Il padre Sebastiano Valfrè (ora venerato fra’ beati) aveva eretto un altare per le truppe nella piazza S. Carlo — Il soccorso invocato non tardò ad arrivare.

Il principe Francesco Eugenio di Savoia, il flagello de’ turchi, scendeva con agguerrite squadre imperiali da Germania in Italia. Lasciando i nemici, con maestrevoli mutamenti e rapidi tragitti di fiumi, nella incertezza della strada che sarebbe per prendere, s’avanzò a grandi giornate, e giunse in Piemonte; ove, passato il Tanaro, a tre miglia da Asti, venne ad aggiungere le sue forze a quelle del perdurante duca Vittorio Amedeo, il quale si era avanzato fin verso Carmagnola ad incontrarlo.

Tutto l’esercito, composto di 34,000 uomini, si accampò tra Moncalieri, Carmagnola e Chieri.

Il duca Filippo d’Orleans con nuove genti passò le Alpi, e venne anch’esso in Italia, accompagnato dal maresciallo Marsin, per prendere il comando supremo dell’armata delle due corone, in luogo del Vendôme,

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chiamato in Fiandra. Vi giunse verso la fine di agosto per sollecitare la resa di Torino; e vi giunse a buon punto.

Verso la mezzanotte del 30 di agosto alcuni granatieri nemici, uccisa la guardia piemontese e valicato un fosso della cittadella, giungevano di soppiatto fino alla porta della galleria, per cui si scende all’interno della piazza, e già seguiti da altri temerari, vi sarebbero entrati, se due minatori non avessero chiuso le porte della scala, ov’era preparata una mina. I francesi a colpi d’accetta stavano per abbattere quelle porte:
(Monumento a Pietro Micca)
quando Pietro Micca, uno dei due minatori, dice al compagno di accendere la mina, e lui ritardando, applica egli stesso la miccia, e balza in aria il primo e con lui tre compagnie di granatieri francesi e una batteria nemica.

Questo Grande, degno di essere paragonato ai maggiori eroi dell’antichità ebbe ultimamente da Re Carlo Alberto l’onore di un monumento in bronzo che si scorge nel mezzo del cortile dell’arsenale di Torino. Il busto dell’eroe biellese è collocato sopra i rottami d’un parapetto. La statua della vittoria gli siede dappresso. A’ piedi vi stanno degli emblemi guerreschi. Nello specchio del piedistallo veniva ricordata l’eroica azione coi seguenti versi:

PIETRO MICCA

da adorno
soldato minatore nella guerra del mdccvi.

 
nella rocca irrompea l’oste francese,
quand’egli il capo al comun fato offerse;
e, l’ignee polvi in cava mina accese,
sè coi nemici in un abisso immerse.
esempio alla milizia piemontese
Re CARLO ALBERTO il volle, e un bronzo gli erse;
e il brando, onde sua stirpe ando’ superba,
trofeo di gloria ei fece, e qvi si serba.

mdcccxxxiiii.

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Vittorio Amedeo, con lettera da Villastellone del 30 agosto, faceva sapere al conte di Daun che fra tre o quattro giorni gli sarebbe venuto in soccorso, e lo avvertiva di tener gli occhi sulla collina di Superga, ove alla vigilia della sua marcia avrebbe acceso dei fuochi d’avviso. Alcune sere prima furono di fatto veduti dei fuochi su quell’altura; ma interrogati alcuni disertori francesi, assicuravano che erano i fuochi di alcuni montanari di Catalogna, che i nemici avean condotto seco, e accampavano su quelle colline. Del resto nella notte dal 3 al 4 settembre si alzò veramente sulla vetta di Superga un fuoco di avviso. Era il segnale che il Duca dava alla città, segnale d’imminente soccorso. Da quella sommità infatti i due principi di Savoia, condottisi con numeroso seguito di ufficiali preceduti da un distaccamento, fatto avanzar sino a Chieri, videro la valorosa ma stremata Torino, esaminarono la posizione del campo assediante, e, scoperta la sinuosità e il prolungamento delle linee nemiche, specialmente fra la Dora e la Stura, è fama che fermassero il modo di sbaragliarle.

Frattanto a festeggiare l’arrivo del duca d’Orleans diedero i francesi il quarto attacco generale alla cittadella, che nel principio parve favorevole agli assalitori e finì con grave lor danno.

Dovendo Filippo disporsi alla battaglia che gli presentavano i due principi di Savoia, raunò consiglio sotto ad un albero presso Altessano, in cui cedette, contro il proprio parere, al voto del La Feuillade e del maresciallo Marsin (il cui giudicio doveva preponderare in caso di dissidio per comando del re), i quali vennero in decisione di dover ritirare tutto l’esercito nelle linee e di ricever battaglia dentro di quelle, aspettando di piè fermo l’assalto.

Vittorio Amedeo e il principe Eugenio presero campo alla Venaria, il dì 6 settembre, appoggiando la destra alla Dora, la sinistra alla Serronda. Guadagnata la pianura della Madonna di Campagna, giunsero ad Altessano, e mentre l’esercito alleato si disponeva a battaglia, i due principi scorrevan le linee dalla Dora alla Stura per esaminare la posizione dell’inimico.

I francesi, messe lor genti lungo le trincee, cominciarono a scambiare de’ colpi di cannone co’ nostri, i quali poi, addì 7 settembre, vigilia della Natività della Vergine, diedero incominciamento all’attacco, che fu vivissimo. Più volte i nostri furono respinti; e già la sorte era dubbiosa, quando il duca di Savoia, osservato che dalla parte della Stura (così il Denina) c’era un vuoto che il duca d’Orleans non aveva potuto riempire, investì il nemico da quella parte, entrando nelle linee e occupando un posto importantissimo. Aperto un varco alla cavalleria, con molta perdita di gente, entrarono dopo di lui gli altri generali e furiosamente combattendo [p. 20 modifica]

dentro i trinceramenti, le truppe ducali e alleate ruppero e sbaragliarono il campo nemico. Il principe Eugenio nell’azione ebbe il cavallo ferito, e volendo passar oltre, fu egli stesso rovesciato nella fossa, donde venne tosto rialzato.

(Corazza del Principe Eugenio4)


Nel tempo medesimo il duca d’Orleans ed il maresciallo Marsin, che s’erano portati sulle trincee al cominciar dell’azione, messisi alla testa delle truppe per animarle, s’avanzarono; ma il primo, ricevuti più colpi nella corazza, ferito, fu costretto a ritirarsi. Il maresciallo Marsin, colpito più gravemente, venne trasportato in una cascina presso il Convento dei Cappuccini, detto Madonna di Campagna, ove il dì dopo morì. Il La Feuillade con raddoppiato furore fe’ battere in breccia contro la cittadella fino alla sera, in cui, visto l’esito infelice della battaglia, diede ordine [p. 21 modifica]

alle artiglierie di ritirarsi, distruggendo ed abbruciando ciò che non si potea trasportare; e dicesi che splendesse un bel fuoco!

Torino liberata apre giubilando le porte a’ suoi principi liberatori. Preceduti da un numeroso stuolo di prigionieri, simili ai capitani antichi, entrano Vittorio Amedeo e il principe Eugenio di Savoia, a cavallo, per la porta Palazzo (chiamata quindi per questo fatto porta Vittoria), con immenso seguito di principi e di generali, al suon festivo delle campane ed allo scoppio delle artiglierie. Avviati alla cattedrale, e deposte le spade a’ pie’ dell’altare, si cantano con trasporto di gioia inni di grazie all’Altissimo. La città si riempie di cavalli, di muli, di equipaggi, di spoglie nemiche, e s’alzano dappertutto trofei colle armi e coi vessilli francesi.

Il dì seguente il resto dell’esercito assediante era in piena ritirata sopra Pinerolo. Così, conchiude il Soleri testimonio di vista e d’udito, dopo tre mesi e ventisette giorni di assedio, dopo tre mesi e cinque giorni di trincea aperta, dopo tre mesi che questa fortezza ha sofferto le bombe dei francesi, dopo due mesi e ventidue giorni che habbiamo sentito li tormenti dei cannoni loro, per grazia del Dio degli eserciti e protezione di Maria Vergine siamo stati liberati dal longo e fiero assedio.

Scrissero nelle lor relazioni i nemici che soli 1,000 uomini restarono nel campo. È certo che oltre 6,000 rimasero addietro tra feriti e prigionieri. I morti e feriti da parte nostra non furono in minor numero. Cinquantacinque stendardi francesi furono spiegati in San Giovanni. La nostra cittadella trasse durante l’assedio 6,000 bombe, 75,000 colpi di cannone, più 70,000 di petriere, senza parlar delle mine. Il Soleri racconta che dal principio alla fine dell’assedio 36,800 bombe nemiche entrarono nella città e cittadella, e si scagliarono 300,700 cannonate, senza contare le granate e i mortai di pietra.—Questa battaglia di Torino fece perdere l’Italia a Francia e Spagna.

Pel trattato d'Utrecht avendo Vittorio Amedeo II ricevuto la corona reale di Sicilia, che mutò poi con quella di Sardegna (gemma più modesta, ma più sicura della sua corona), Torino divenne la sede dei re sabaudi. Occupata dagli austro-russi nel maggio 1799, i francesi si ritrassero nella cittadella; se non che, tornati alla riscossa, e vincitori a Marengo, fu nel 1802 unito il Piemonte alla repubblica francese.

Durante l’impero napoleonico Torino, occupata ed asservita, fu capoluogo della 27 divisione militare e sede del principe Camillo Borghese, cognato dell’imperatore, col titolo di governatore generale dei dipartimenti di quà delle Alpi.

Torino ridivenne sede dei suoi naturali signori il 20 maggio 1814. [p. 22 modifica]

L’ingresso fatto da Vittorio Emanuele I fu una vera scena di famiglia, piena delle più dolci e più care emozioni, il Piemonte riacquistando in quel giorno l’indipendenza, la dignità e il nome di nazione. Troppa sarebbe stata la gioia di quel ritorno, dice il Cibrario, se con improvvido consiglio non si fossero abrogati ad un tratto gli ordini e le leggi, frutto di un misurato progresso, dovuti all’alto senno di Napoleone. Nè bastò a medicar tal ferita il tardo pentimento dello stesso buon Re Vittorio Emanuele; avendo, solo in parte, delle riforme già preparate tratto profitto il suo successore Carlo Felice.

Al re Carlo Alberto, il magnanimo, ed a Vittorio Emanuele II, oggi regnante, era riserbata la gloria di sollevare lo Stato a quel grado di altezza e di prosperità in cui ora trovasi collocato in faccia alle altre nazioni, mercè il progressivo sviluppo di sapienti riforme negli ordini politici ed amministratici, onde dall’alto della prima ringhiera d’Europa un illustre statista (lord Palmerston) ebbe a dire: potere il Piemonte essere presentato al mondo come la personificazione del trionfo del governo rappresentativo5.

Note

  1. Balbo, Cibrario, Bertolotti ed altri.
  2. Fu soltanto ne’ bassi tempi che la città di Torino scelse a suo stemma un’effigie di toro.
  3. Emanuele Filiberto decretò che ogni atto pubblico fosse dettato in lingua italiana, e volle tutta italiana l’educazione e l’istruzione di suo figlio.
  4. Questa corazza, che veniva indossata dal principe Eugenio di Savoia il giorno della liberazione di Torino, trovasi conservata nella R. Armeria.
  5. Seduta del Parlamento inglese del 21 maggio 1852