Teresa/XX
Questo testo è incompleto. |
◄ | XIX | XXI | ► |
La signora Soave affrettava, piú che le fosse possibile, le nozze, perché si sentiva in fin di vita. Ella si spegneva come aveva vissuto, blandamente, senza spasimi atroci, ma con una continuità di dolore non interrotto. Dove soffriva? In nessun posto e dappertutto. Era una fiacchezza, uno sfasciamento generale. Aveva quasi la stessa età di suo marito, e sembrava la di lui madre, la nonna delle sue figlie.
Colle finestre aperte respirava l'aria di maggio senza muoversi dal divano, tutta ravvolta nello scialle, colle manine di cera incrociate sul petto, i grandi occhi opachi fissi nel vuoto.
Teresina passava molte ore al suo fianco, intanto che le gemelle si intrattenevano in giardino, e che l’Ida faceva i suoi compiti.
L'accordo misterioso e simpatico che aveva sempre unito madre e figlia si faceva piú sensibile in quel ravvicinamento delle loro tristezze, in quel duplice tramonto delle illusioni e della vita.
Continuavano a parlarsi poco; ma qualche volta le loro mani si cercavano, stringendosi con una scossa muta.
La signora Soave non aveva mai piú parlato a Teresina dell'Orlandi; non le aveva mai chiesto nulla; eppure Teresina, guardando gli occhi della madre, vi leggeva un immenso compatimento, una tenerezza infinita, tutta fatta di perdono e di amore.
— Quando io non sarò piú — le disse una sera — chi ti amerà, Teresa?
La figlia, gettandosi in quelle braccia amorose, voleva acchetare i timori della morente, voleva dirle che Egidio l’amava ancora.
La signora Soave la prevenne, mostrandole nella dolcezza del sorriso che aveva compreso, e soggiunse:
— Dio ti ispiri, e ti guidi, figlia mia. Non ti lascio altro consiglio che questo: Segui il tuo cuore.
Le ombre della sera, addensandosi nella stanza, le coprivano il volto, così che Teresina non ne vide l'espressione profonda di malinconia. L’esperienza aveva dimostrato alla povera donna che il cuore non guida sempre alla felicità, ma come una martire antica, moriva nella sua fede.
Al giovane Luminelli, che veniva puntualmente tutti i giorni a fare le sue visite, si accompagnava tratto tratto il fratello maggiore, ben veduto dal padrone di casa, col quale si intratteneva a parlare di politica.
— Se tu lo avessi sposato — era la pretora che diceva così a Teresina — saresti già maritata da dieci anni, piú bella, piú fresca, senza che egli poi abbia peggiorato in bruttezza; poiché è la specialità dei brutti quella di conservarsi inalterabili. Aggiungi che la figlia gli è morta... non era proprio un cattivo partito.
Ma tutte queste considerazioni non riuscirono ad ispirare alla zitella quel proficuo ravvedimento che la sua amica sperava.
Aveva tentato, per cortesia, di interessarsi a lui, alle buone qualità che tutti gli riconoscevano; ma i pregi morali sfuggivano all'attenzione distratta di Teresina, e vedeva invece il cranio calvo del professore, la sua barba ispida, tozza, tagliata a guisa di una siepe di mortella. Tutto ciò otteneva un effetto diametralmente opposto alle idee della pretora; perché Teresina rimpiangeva con maggior ardore i bei capelli neri d'Orlandi e la sua barba morbida, entro cui il sole scherzava, dandole dei riflessi di fuoco.
— Dopo tutto — istigava ancora l’amica — anche per Orlandi gli anni passano. Luzzi, che è stato a Milano uno di questi giorni, lo ha veduto, e dice che non è piú quel bel giovane d’una volta.
Ma sembrava che tutto quanto si faceva intorno a lei per distoglierla da Orlandi, non ottenesse altro scopo che quello di farglielo amare maggiormente. Teresina pensò che egli pure soffriva, che era solo, senza famiglia, senza amore, e gli scrisse una lettera lunga, riboccante d'affetto. Come desiderava vederlo! Era già quasi un anno e mezzo che non s’erano stretti al cuore. Quando sarebbe venuto a trovarla?
Nella vita febbrile di Egidio, nelle lotte aspre, violente ch’egli doveva sostenere ogni giorno, in quella corsa affannosa dietro il successo, non mancavano le ore di scoraggiamento, di malinconia atroce. Si trovava a mezzo cammino, colla gioventù dietro le spalle, perduti i piú begli anni, svanite le forti illusioni; non avendo ricavato nessun partito né dal suo ingegno, né dalla sua bellezza, né dalla sua salute. Gli amici dicevano fra loro: Come mai Orlandi non si è ancora creata una posizione? Uno che lo conosceva bene, lo definì con due parole: Orlandi non ha la costanza del lavoratore e non ha la furberia dello scroccone; è un uomo mancato.
E quest’uomo, cui la fortuna aveva sorriso mendacemente prodigandogli tutti i suoi doni, conservava in fondo al cuore un affetto sincero, misto di riconoscenza e di pietà, per la fanciulla che lo amava con tanta abnegazione.
L’affetto emergeva sopratutto nei giorni dello sconforto, quando dopo aver cercato inutilmente una ebbrezza nuova o una amicizia disinteressata, dopo le sconfitte dell'ingegno e la nausea dei sensi, egli trovava, rincasando, le lettere della povera dimenticata.
Fu in uno di questi momenti, che Egidio rispose a Teresina, narrandole i suoi sconforti, le sue lotte, chiamandola sorella e amica sua.
“Ho capito,” pensò la pretora, vedendo il volto raggiante della sua amica “egli ha rimesso dell’olio nella lampada”.
Ma un avvenimento inaspettato si impose all'attenzione di tutta la famiglia. Luminelli maggiore chiese la mano dell'altra gemella, e, come cosa già intesa, ella acconsentì allegramente. I due matrimoni si dovevano fare nello stesso giorno.
— Vedi? — così la pretora a Teresina — tua sorella ha otto anni meno di te, eppure si adatta a sposarlo.
Teresina si strinse nelle spalle. Le gemelle per lei erano sempre state un enigma; ma davanti a quelle nozze senza amore, provò una vera repulsione. Quale infame ingiustizia pesa dunque ancora sulla nostra società, che si chiama incivilita, se una fanciulla deve scegliere tra il ridicolo della verginità e la vergogna del matrimonio di convenienza?
Queste riflessioni la tennero sconvolta per parecchi giorni, e se ne amareggiò vivamente. Senza accorgersene, la sua anima accoglieva mille dubbi, si imbeveva di fiele.
L’urto continuo de’ suoi sentimenti colle realtà brutali della vita, le dava una asprezza di linguaggio che pareva bizzarria. E si accorgeva ella stessa di stuonare in mezzo agli altri; sentiva il proprio malumore come una nota falsa in un concerto, incapace di frenarsi; tanto piú incapace, perché le cresceva ogni giorno il disprezzo dei suoi simili, sotto forma di ribellione al convenzionalismo ipocrita che l’aveva oppressa, che la opprimeva sempre.
Il disgusto degli uomini e delle cose le si infiltrava per una quantità di vie secondarie, lento, ma completo.
Una volta le Ridolfì, parlando dell'ultima Portalupi, dissero:
— Oh! quella non si marita piú, è già una vecchia zitella!
E la Portalupi era minore di Teresina.
Ella riusciva antipatica a tutte quelle ragazze, così come le ragazze a lei. Si isolava piú che poteva, chiudendosi in un sussiego malinconico, che restava incomprensibile per quelle giovani testoline.
Aveva delle fissazioni, delle voglie assurde. Andando a passeggio, non poneva mai i piedi sulla connessura dei mattoni; se ciò le accadeva inavvertitamente, sentiva un ribrezzo nelle gambe, un tremito convulso. Contava i rosoni del soffitto, immaginando che fossero pari; se riuscivano dispari, era una stizza, una contrarietà assurda, ma invincibile. Fissava una persona a tergo, ostinandosi finché quella si fosse voltata; se non si voltava, le pareva di ricevere un urto nel petto e digrignava i denti.
Soffriva per il sole, per il vento, per i tempi piovosi. Aveva sempre fredde le braccia, in alto, all’attaccatura, e portava, sotto il vestito, due maniche di lana tenute insieme col mezzo di un nastro che le attraversava il dorso.
Le gemelle, che s’erano tagliate qualche camicia senza maniche, avevano detto ridendo: — Queste starebbero bene a Teresina!
Mancando la cura delle sorelline, che l’aveva tanto occupata negli anni addietro, trovava le giornate vuote. Non poteva aiutare nemmeno l’Ida, perché ella non aveva mai avuto grande ingegno e la fanciulla, svegliatissima, era già avanti negli studi, vagheggiando prossima la patente di maestra.
Suo fratello era tanto lontano, che non le offriva nessuna risorsa. Solamente si parlava di lui come di un appoggio futuro per la famiglia. Quando le gemelle fossero maritate, s’avrebbe potuto raggiungerlo e formare una casa sola; oppure fare istanza perché trasferissero Carlino nella cittaduzza nativa.
In attesa di questi cambiamenti, nel trambusto delle nozze, coll’orrore del mondo e della società, Teresina viveva quasi esclusivamente in compagnia della madre inferma — riparate tutte e due dall’aria, coi piedi sullo stesso sgabello, sorridendosi tristamente.
Un pensiero disperato l’assaliva di tratto in tratto. Aveva paura di diventare una vecchia stramba come la Calliope, di rinchiudersi in casa e mostrarsi solo alle sbarre delle finestre, con un fazzoletto giallo in capo, facendo sberleffi alle persone che passano.
Il doppio matrimonio, per quanto si affrettasse, non poté aver luogo che ai primi di settembre. Quel giorno Teresina ebbe un accesso delle sue solite convulsioni; l’Ida la pose a letto, affettuosamente, cercando di calmarla, ricordandosi quanta pazienza ella aveva avuta con lei quand’era piccina.
Non assistí né alla cerimonia, né all'asciolvere.
Le spose gemelle vennero a salutarla, in piedi, tenendo sollevate le gale dell’abito. Avevano fretta, perché il treno partiva a momenti. Sulla soglia dell’uscio si voltarono; s’erano dimenticate di baciarla e le gettarono un piccolo bacio sulla punta delle dita, raccomandandole di stare tranquilla.
Come Dio volle, a poco a poco, la casa ridivenne calma; sparvero i figurini di mode, i rotoli di tela, i pezzetti di nastro dimenticati sui mobili. Al vocìo chiassoso delle gemelle, alle risate argentine delle Ridolfi, successe un silenzio che pareva di tomba.
Il signor Caccia meditava, nel suo studiolo, sulle spese avute in occasione delle nozze e volgeva il pensiero al figlio lontano, quello che doveva essere il sostegno della famiglia.
L’Ida studiava indefessamente, senza distrazioni e senza debolezze, coll’occhio fisso alla meta.
Solamente verso sera, Ida lasciava i libri, Teresa si staccava dal letto della madre e le due sorelle — la prima e l'ultima — uscivano a prendere una boccata d’aria, serie entrambe per motivi diversi, scambiandosi poche parole.
Alla fine di settembre, Ida si contorse un piede e per una settimana non poté uscire. Teresina, alla quale il dottore aveva prescritta rigorosamente una passeggiata tutti i giorni, usciva sola. Passava oramai i trent’anni e nessuno si occupava piú di lei.
Quei preludi di libertà, sebbene giunti in un tempo in cui non avrebbe saputo approfittarne, le cagionarono un piacere nuovo.
Usciva dal paese, prendendo il viale della Madonna della Fontana, caro a lei per antiche memorie; e ripassando sotto quegli alberi, era stretta da una tale folla di emozioni dolci e melanconiche, così vive, così intense, che quella passeggiata vespertina segnava l’ora piú bella delle sue giornate.
Entrò una volta in chiesa per rivedere la cappella sotterranea, la graziosa cappelletta dipinta, dalle cui finestre si scorgeva l’orto del curato, profumato di basilico.
I ricordi della giovinezza l’assalirono aspri, pungenti, in quel posto dove ella erasi inginocchiata a vent’anni, dove aveva per la prima volta guardato Egidio. Dalle finestre entravano ancora i ciuffi di basilico; morivano le rose sull’altare tra le lampade d’ottone inargentato; le figure degli affreschi sorridevano nei toni delicati delle pitture vecchie. Nulla era cambiato nella gran calma immobile del tempio, ma Teresina piangeva.
Un suono di passi ripercosso nel silenzio della navata la riscosse. Si asciugò gli occhi coll'angolo del velo e uscì dalla cappella. In mezzo alla chiesa trovò Orlandi, solo, che le veniva incontro.
Non fu nemmeno sorpresa; impallidì, aggrappandosi al suo braccio, battendo i denti per la commozione.
— Quando sei arrivato?
— Son due ore. Un telegramma di mia zia... per affari. Riparto stanotte.
— E se non mi vedevi?
— Ti vedo — disse Orlandi, col suo bel sorriso. — Non ebbi il tempo di avvertirti, ma ero deciso di vederti a qualunque costo. Seppi, per caso, che eri venuta qui; mia zia t’ha veduta passare.
Teresina non pensò al pericolo di essere scoperta; la felicità del momento presente la invadeva tutta. Ma il suo corpo indebolito non reggeva piú alle forti scosse, non poteva stare in piedi; trasse Egidio su un banco della chiesa e gli si pose a fianco, con quell’oblìo di tutto il mondo che la prendeva, sempre, in compagnia di lui.
Parlarono rapidamente delle loro famiglie, della loro posizione.
Teresina, che lo guardava, alla luce morente del giorno, si sentì stringere il cuore scoprendogli, lungo le guancie, due solchi che davano al bel viso una espressione indefinibile di malinconia.
— Mi trovi cambiato? — disse lui improvvisamente, e con un sorriso triste le mostrò i capelli radi sulle tempie.
Ella gli si strinse contro, fino a posargli la bocca sul petto, mormorando:
— Ed io, dunque?
Tacquero, quasi abbracciati, ascoltando i loro respiri, potendo baciarsi, eppure non baciandosi, coi sensi freddi.
— Mi scrivi così di rado...
Ella disse ciò a bassa voce, guardandolo dolcemente per attenuare il rimprovero.
Lui si passò una mano sulla fronte.
— Sono occupato tutto il giorno e gran parte della sera.
— Dove vai alla sera?
— Nei teatri, prima, poi alla redazione del giornale. Faccio la cronaca. Non mi piace questo mestiere, io vagheggio la critica d'arte...
Gli trapelava nella voce un’amarezza, come uno scoramento di persona avvilita.
— E non puoi farla?
— No... no... sono cose che tu non capisci.
Teresina abbassò il capo, nell’umiltà della propria ignoranza, nello sconforto di non poter dividere tutti i pensieri e tutti i dolori di lui. Le balenò un istante l'immagine della bella signora dalle forme opulenti, vestita da Diana: ma non ebbe il coraggio di parlarne in quel momento.
Le succedeva sempre così. Delle mille cose che voleva dirgli, non riusciva mai a dirne una, dominata da una suggezione bizzarra e assorbita tutta nel rapimento di contemplarlo.
I dolori, le smanie, le lotte, le gelosie, le risoluzioni prese e lasciate, le estasi convulse, le malinconie isteriche, tutta la sua gioventù, la sua bellezza, la sua vita che se ne andava in quella lenta fiamma d’amore, non le suggerivano una sola parola. Gli stava accanto immobile, cogli occhi fissi, come un cane fedele davanti al suo padrone.
— Ti aspetteranno a casa...
— Oh! ancora un minuto...
Pensò se avesse qualcos’altro a dirgli; non trovò nulla. Ella avrebbe voluto sapere di lui, della sua vita, avrebbe voluto che lui parlasse, ma non osava interrogarlo; temeva di perdere tempo con una domanda oziosa.
E intanto il tempo passava.
Nella chiesa faceva già buio; l’altare maggiore sprofondato nell’ombra, aveva una vaga apparenza di bara; le colonne della navata sembravano giganteschi fantasmi. Dalla cappella sotterranea usciva il bagliore rossigno della lampada accesa per la Madonna. Un odore di rose secche era nell’aria.
Lo scaccino, in sacristia, scosse il mazzo delle chiavi.
Si alzarono insieme, urtandosi nella oscurità. Egidio la prese per la vita.
— Oh! — diss’ella — se ci chiudessero qui, per sempre, e non vedere piú nessuno e morire così.
Avevano le labbra sulle labbra.
Egli fu meravigliato di quel pensiero arditamente poetico. Sorreggendola, mentre uscivano dal tempio, le mormorò all’orecchio:
— Quando mi sentirò morire, verrò a morire presso a te.
Non dissero piú nulla. Si abbracciarono stretti, a lungo, con una tenacità disperata. Teresa sparve rapidamente sotto gli alberi. Egli la scortò da lungi, fino in paese.
XXI.