Teresa/XXI
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Pochi mesi dopo il matrimonio delle gemelle, la signora Soave aveva chiusi gli occhi in pace.
Teresina, nel piangerla, comprese che le mancava il piú grande dei conforti, l’affetto il piú illimitato; sola forse, della famiglia, sentì il vuoto lasciato da quella morte.
Per il signor Caccia fu un sollievo. Nel suo egoismo d’uomo robusto, pensava che la povera donna avrebbe dovuto andarsene molto tempo prima. Ora, ristretta la famiglia, egli accarezzava piú che mai il sogno di tutta la sua vita: spingere il figlio rapidamente sulla carriera degli impieghi, crearlo capo di casa, riordinare le sostanze sbilanciate e dopo cinque o sei anni di strettissima economia, procurargli un partito brillante, bella moglie e pingue dote.
In queste disposizioni future, l’Ida, la sua prediletta dopo il maschio, si trovava assicurato l’avvenire nella posizione di maestra. Quanto a Teresa, vedendola girare per la casa, spersonita, cogli occhi neri in cui moriva lo splendore dello sguardo, colle manine che prendevano il colore della cera, egli era convinto che non se ne sarebbe mai fatto nulla piú di quel che era stata sua madre; e crollava le larghe spalle con aria di sprezzo.
Ella doveva nascondergli le sue sofferenze per non essere sgridata, eppure queste sofferenze crescevano ogni giorno.
Non poteva piú mangiare alle ore consuete; il cibo preso in compagnia le faceva male; divorava sola, in cucina, gli avanzi dei pasti. Faceva un abuso grandissimo di caffè. Molte volte, nei momenti di maggior calma, standosene tranquilla a lavorare insieme alla sorella, si metteva a gridare: — Viene! Viene! — (intendeva il male) e con una mano sullo stomaco, gli occhi sbarrati, la bocca schiumosa come vedesse un mostro orribile, entrava nella prima fase delle convulsioni.
Diceva che le tanagliavano il petto, questa era la sua espressione.
Tutti i calmanti riuscivano vani; li respingeva ella stessa, con orrore, lagnandosi che tutti la facessero soffrire, gesticolando colle braccia per allontanare le persone che la circondavano, accusandole di toglierle l’aria.
Durante questa crisi la sua fronte si imperlava di sudore, batteva i denti; le mani e i piedi le diventavano diacci. Se la convulsione era forte, sopravveniva il delirio accompagnato da scosse nervose, da urli, da lamenti fiochi, da gemiti così strazianti che pareva in fin di vita.
Dovevano allora coricarla sul letto, nel silenzio piú assoluto, finché l’accesso fosse passato, e cadeva poi in un sonno profondo, svegliandosi dal quale, non ricordava piú nulla.
Nei casi semplici, quando non c’era delirio, la convulsione terminava in un pianto dirotto; ma l'impressione per lei era piú forte e si chiudeva quasi sempre con una malinconia che durava parecchi giorni.
Nella sua camera, sul tavolino da notte, c’era una fila compatta di boccine e di ampolle; acqua matricaria, pillole antisteriche, pillole di ferro, globuli di arsenico, aceto, fior d'arancio, melissa. Nel tiretto teneva chicchi di caffè tostato; li masticava nelle veglie, quantunque il dottore l'avesse ammonita di astenersene.
Ma Tavecchia, che passava i settant’anni, non volle assumersi tutta la responsabilità di quella malattia nervosa, e suggerì un giovane medico, addottorato nelle teorie moderne, versato nella patologia come nella psichiatria.
Egli venne, un giorno, e disse che voleva visitare l'ammalata in letto per essere sicuro della diagnosi.
L’indomani Teresina non si levò, agitata nella prospettiva di quella visita, contrariata.
— Mettiti una bella cuffia — disse l'Ida, ridendo per distrarla.
Ella non volle la cuffia; anzi si tolse un fazzoletto ch’era solita portare, avendo vergogna di mostrarsi colla testa coperta come una donna vecchia.
Aveva ancora dei bei capelli, lunghi, morbidi, e guardandosi nello specchietto che l’Ida le porgeva, fu intimamente soddisfatta. Nella cornice bianca del guanciale, la sua testina spiccava con una linea delicata; il caldo del letto le metteva sulle guancie un madore roseo, sotto il quale spariva l'ascetica magrezza del volto. La bocca un po’ pallida, era circondata da qualche ruga, ma fra le labbra disegnate finamente, il sorriso sempre grazioso scopriva i denti candidi.
— Che cosa mi farà poi? — chiese alla sorella, intanto che colle mani si assicurava se il bottone in alto della camicia fosse ben chiuso.
— Nulla... ti ordinerà altre pillole. La tua non è una malattia; non aver paura.
— Ah! non è per questo... Sta qui però, non lasciarmi sola.
Quando il dottore venne, Teresa era tanto in orgasmo che si dovette darle qualche goccia di melissa per calmarla.
L’Ida, non comprendendo niente in quella falange di mali che le sembravano immaginari, stava ritta ai piedi del letto, guardando il medico. Il signor Caccia, serio, imbronciato, aspettava.
L’esame fu lungo e minuzioso. Incominciò con una quantità di domande; alcune fra le quali inaspettate, altre incomprensibili per la sofferente che si accontentava di crollare il capo, muta, sotto l’impressione penosa di un incubo.
A un dato momento il dottore sollevò la coperta.
— Si metta a sedere, così; ma non si agiti, la prego.
Ella era veramente sbigottita; tremava, colla fronte coperta di sudore.
— Non posso visitarla in questo stato — continuò il medico, allontanandosi di un passo.
Il signor Caccia intervenne, facendo la voce grossa, guardando sua figlia cogli occhi severi.
— No, no, — tornò a dire il medico — se la sgrida è peggio, lasciamo che si rimetta dolcemente. È abbastanza giudiziosa; nevvero?
Sedette accanto al letto, sorridente, calmo, collo sguardo fisso su Teresa.
Il signor Caccia, impazientito, si diede a passeggiare per la camera; poi, fuori dell’uscio, facendo sentire una tosse secca d’uomo che si frena.
Il dottore rimase solo in mezzo alle due sorelle, voltando un po’ le spalle a Ida, tutto intento all’ammalata.
Teresa sentiva quello sguardo penetrarle nelle viscere e nei pensieri: non lo incontrava, ma anche fuggendolo, ne avvertiva l’intensità, e in questo caso le si palesava anche piú forte, per cui prese il partito di guardarlo essa pure, attratta da un magnetismo che la dominava; finché stette immobile, improvvisamente calmata.
Allora il medico le prese dolcemente una mano contando i battiti del polso.
— Bene.
Si alzò, invitandola a mettersi nella posizione di prima, ritta sulla vita.
Ida fece atto di chiamare il padre. Il medico l’arrestò con un gesto, intanto che si chinava verso Teresina, accostandole l’orecchio al cuore.
Nel silenzio della camera si udivano i tre respiri.
— Basta — mormorò quasi subito l'ammalata.
— Le faccio male?
Non rispose: ma ricadde sui guanciali, pallidissima.
Il medico strinse le labbra.
— Permetta... abbia pazienza.
Tornò a posarle la testa sul cuore, premendo leggermente.
Aveva una foresta di capelli castagni, un po’ grossi, dai quali emanava un profumo lieve; scomposti dal movimento, quei capelli toccavano quasi la bocca di Teresina, che si irrigidiva, dilatando gli occhi, sotto la tentazione di un desiderio pazzo. Intorno all’orecchio, fra il lobulo e la radice dei capelli, il principio del collo si disegnava vigoroso, leggermente arrossato verso la gola; sulla nuca, candidissimo. Egli aveva ventinove anni.
— Nulla. Il cuore non ha nulla... esternamente.
Marcò con una lieve esitazione quest’ultima parola, raddrizzandosi, un po’ colorito nel volto.
Il signor Caccia rientrò in quel punto.
— Sua figlia ha una costituzione buonissima; i polmoni sani, il cuore sano; una tendenza all’anemia, forse, ma anche questa temporanea, dipendente da cause che sfuggono al nostro esame.
— Ma se la vedesse nel momento della crisi, quando la prende la convulsione... Non se la può figurare.
— Oh! sì — fece il medico sorridendo — me la figuro perfettamente; ma non è altro che una alterazione nervosa. Col tempo e con un po’ di buona volontà, credo potrà svanire.
Nel dire “buona volontà” tornò a guardare Teresa.
— Non sta troppo in casa, nevvero?
— Ma... veramente — balbettò il signor Caccia le donne...
Il medico riprese senza lasciarlo finire:
— Quando si manifesta un perturbamento dei nervi così vivo, con caratteri francamente isterici, la miglior cura è quella di non abbandonare l’ammalata a se stessa. Io posso ordinare delle medicine, ma se non sono aiutato dal sistema... — si volse direttamente a Teresa. — La stagione è favorevole, abbiamo una primavera che è un incanto. Esca spesso. Vada a trovare un’amica, procuri di interessarsi a qualche cosa, di cambiare l’ordine abituale de’ suoi pensieri, di non fissarsi in una idea. Faremo una piccola cura arsenicale combinata col ferro, ma il primo rimedio, se ne persuada, lo deve trovare in se stessa. Mi comprende, nevvero?
Le strinse la mano, colla sua dolcezza indolente d’operatore, mostrando i denti bianchi nell’arco del sorriso; lasciando sul capezzale come un profumo della sua vigorosa giovinezza.
Tornò qualche giorno dopo, per vedere l’esito della cura, ed essendo comparso all’improvviso davanti a Teresina, ella arrossì, tutta confusa, con un sentimento recondito di vergogna.
Quella specie di intimità con un uomo giovane, senza il legame dell’amore, la turbava. Era meravigliata di non trovare maggior avversione al contatto, di sorprendere nei suoi sensi una vita autonoma, indipendente dal cuore e dalla volontà.
Fino allora aveva amato, in un sol uomo, l'incarnazione dell’amore; ma nella tensione di tutto il suo essere verso quell’ideale, il cuore e la mente resistevano, i nervi no. I nervi, a sua insaputa, con una ribellione mostruosa, vibravano quando il giovane dottore le stringeva la mano, e la guardava colla sua pupilla intenta. E Teresina spasimava, sentendosi prendere alla gola da un rantolo convulso; trovando in se stessa, nella tardiva rivelazione dei propri sensi, l’enigma della vita, che le era sempre apparso a tratti, mascherato, svisato, tenuto nascosto come un’onta.
In quei giorni, per una combinazione, avendo suo padre acquistata, senza guardarla, una partita di libri vecchi, ella pose le mani sopra un libriccino gualcito. Il titolo l’invitò a leggere le prime pagine, e poi continuò meravigliata, ansiosa; passando dalla sorpresa alla indignazione, fino a un feroce diletto, fino alla nausea la piú ributtante.
Restò immobile, col sangue che le formicolava nelle vene, con una fiamma sulle gote, il palato arido, le fauci ingrossate, gli occhi vitrei.
Non aveva mai udito né immaginato niente di simile.
Al primo rinvenire, l’indignazione la vinse su ogni altro sentimento; stracciò il libro in mille piccoli frammenti, rendendoli sempre piú piccoli, piú piccoli ancora, ponendoli da ultimo sotto i piedi e gustando, nel calpestarli, una gioia che la purificava. Raccolse poi gli avanzi informi e li gettò nella cassetta delle spazzature; ma si vedevano; la loro bianchezza sudicia risaltava sul fondo nero. Ella non era contenta. Tornò a raccattarli e li volle abbruciare — vivi — ché quei frammenti agitati dalla fiamma, le davano veramente l'impressione di cose vive, di mostri osceni, condannati al rogo.
Ristette infine, palpitante, davanti al mucchietto di cenere, persuasa che nulla piú esistesse di quelle sozzure.
Ma si ingannava. Il suo pensiero era colpito, macchiato irrimediabilmente. Per quanto facesse non poteva togliersi il ricordo delle pagine lette; ed era un ricordo amaro, come di medicina che torni a gola.
E venivano, non cercate, le riflessioni, i confronti, le induzioni. Cento cose rimaste oscure fino allora le si chiarivano spietatamente; non poteva piú dubitare, non poteva piú illudersi.
Quelle spiegazioni crudeli erano la sola risposta ch’ella trovava alla sua lunga, insoddisfatta curiosità di fanciulla.
Quelle pagine stampate, che non volavano come le parole, che non svanivano come i sorrisi, che ella aveva distrutte in un esemplare ma che esistevano in mille altri, quelle pagine infami erano un documento della miseria umana, della sua propria miseria.
Un libro osceno le dava la chiave del mistero ch’ella aveva ricercato invano; ch’ella aveva interrogato nei fremiti paurosi e pudibondi di se stessa, nelle reticenze maligne degli altri.
Era dunque quello l’ignobile segreto che teneva uniti gli uomini alle donne? Quello l’amore?
Sottile, profondo, un pensiero sopra tutti la martoriava: Egidio.
Quando l’immagine di lui venne a mischiarsi alle rimembranze lascive, ella provò la maggior vergogna della sua vita. Le parve di veder trascinare nel fango tutto quanto aveva di sacro al mondo. Era la profanazione dell’affetto piú gentile, era l’altare che si frangeva, l’idolo che diventava creta. Arrossì, sola, di se stessa.
E la prese una tristezza, un dolore come avesse perduto per sempre una persona adorata.
Per tutto quel giorno non poté incontrare alcuno a viso alzato; aveva orrore dei suoi simili.
Alla sera, chiudendosi nella sua camera, si illuse di potersi disfare dall’incubo; ma l’incubo divenne piú violento.
Mentre si spogliava, era assalita da curiosità brutali. Sembrava che le pagine infami si fossero incollate alla sua pelle, che le formassero, come la camicia di Nesso, un involucro di fuoco, entro il quale si dibatteva.
Cadde in ginocchio disperata, recitando macchinalmente tutte le orazioni che sapeva, unendo il nome di Egidio al nome della Madonna, con un bisogno ardente di dimenticare.
Accovacciandosi sotto le coltri, spossata, evocò le pure visioni del suo amore: l’incontro nella cappella, i ritrovi in chiesa, il primo appuntamento alla finestra, sotto l’acqua che veniva a rovesci, che nessuno di loro sentiva, e quei baci di cielo in cui ella credeva di dare l’anima.
A poco a poco la pace entrava in lei. Una dolcezza malinconica la cullava, la consolava. Egidio era sempre stato sincero; non l’aveva ingannata, non l’aveva tradita mai, non si era fatto migliore di quel che fosse. Che cosa si può chiedere di piú agli uomini?
Sentiva ora una tenerezza straordinaria a compatirlo, a comprenderlo nelle debolezze del suo sesso. Il recente dolore le faceva sanguinare il cuore; ma da quella stessa ferita saliva, alle piú nobili idealità del suo pensiero, una compassione pietosa, una commiserazione di questa umanità sofferente e bestiale, un delicato istinto di perdono. E piú forte, piú puro, emergeva da tanto fango l’affetto ch’ella aveva nel cuore e che sapeva diviso.
Chiuse gli occhi rassegnata, sospirando lievemente.
A tratti, un fremito l’agitava ancora ma anche quello andò scomparendo sotto il torpore del sonno; finché rimase l’affanno dei sospiri, sempre piú lievi, a indicare che il pensiero si addormentava.