Teresa/XIX
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Quell’anno si chiuse con due avvenimenti importanti.
Luminelli minore chiese la mano di una delle gemelle, accontentandosi di prenderla senza dote; e Carlino, laureato in legge, partì per una cittaduzza della bassa Italia.
Lo avevano consigliato a percorrere la carriera giudiziaria, la piú pronta, la piú sicura, quella che gli avrebbe permesso di aiutare subito la famiglia.
Il signor Caccia si appoggiava molto sul figlio, per il quale egli e tutti di casa avevano fatto grandissimi sacrifici. Carlino non era riuscito quell’uomo eminente che il padre aveva vagheggiato nelle ore raccolte del suo studiolo, quando il piccolo ginnasiale era alle prese con Cornelio Nipote; tuttavia, avendo superato l’esame e addottoratosi come tutti gli altri, gli faceva un certo qual onore, di cui andava tronfio sollevando le sopracciglia ad altezze insolite.
— Bada — gli aveva detto al momento della partenza — di non dimenticare mai i buoni esempi avuti in famiglia.
E poiché la signora Soave lagrimava in silenzio, seduta sul divano, coi piedi sullo sgabelletto — fatta cosí debole oramai da non potersi piú reggere — il signor Caccia le diede un’occhiata dall'alto in basso, crollando le spalle poderose. “È una miseria l'essere donna” pensava tra sé — e tornò a salutare il figlio, rigido, impassibile, dando prova di una grande superiorità.
Teresina si meravigliò, e quasi ne fece a se stessa un rimprovero, di non commuoversi abbastanza a questa partenza. Amava meno suo fratello? No, certo: ma era così assorta nell’amore di Orlandi che ogni altra affezione sembrava pallida al confronto. E poi aveva già molto sofferto. Il suo cuore non provava piú lo slancio subitaneo della prima giovinezza; incominciava ad essere stanco, e a misurare il dolore.
Aveva riflettuto qualche volta — non senza esitazione, temendo di essere una cattiva sorella — se, non essendovi Carlino da mantenere agli studi, il ricevitore le avrebbe assegnata una piccola dote. Come tutto in questo caso sarebbe semplificato!
Capiva le ragioni del padre: aveva troppo vissuto in quell’ambiente e in quello solo, per non essere persuasa che la sua condizione di donna le imponeva anzitutto la rassegnazione al suo destino — un destino ch’ella non era libera di dirigere — che doveva accettare così come le giungeva, mozzato dalle esigenze della famiglia, sottoposto ai bisogni e ai desideri degli altri. Sì, di tutto ciò era convinta; ma anche un cieco è convinto che non può pretendere di vedere, e tuttavia chiede al mondo dei veggenti, perché egli solo debba essere la vittima.
Quando Carlino partì, accompagnato dai voti e dalle speranze d’ognuno, Teresina mormorò tristemente: — Ecco, egli va a formarsi il suo avvenire come vuole, dove vuole!
E una quantità di riflessioni dolorose vennero ad assalirla, così che trovossi paralizzata nel momento dell’addio. Parve fredda, indifferente. Appena scomparso, fu presa dai rimorsi; si rimproverava sempre, da se stessa, ad ogni movimento di ribellione. Sotto il velo delle lagrime, le si disegnò sul volto uno sgomento di persona colpevole, e insieme un terrore timido, uno sconforto, qualche cosa di indefinibile.
Somigliava tanto alla sua mamma, allora, con quell’aria di rassegnazione stanca, che il signor Caccia le ravvolse entrambe nel medesimo sguardo olimpico, sdegnoso, riportandolo poi, con una lieve dilatazione di compiacenza, sull'Ida bella e robusta: festevole, anche nella dimostrazione del suo rammarico.
Ida, in famiglia, produceva l'effetto di un raggio di sole, era l’idolo, il beniamino di tutti, aveva avuto, nascendo, il dono di piacere; ognuno era indulgente con lei. Studiava per fare la maestra e la consideravano già come un prodigio.
Dopo l’Ida, il posto piú in vista, lo occupavano le gemelle; era impossibile non accorgersi di loro, grosse, grasse, rubiconde, indivisibili, somiglianti al padre nella truculenza sgarbata, nelle larghe spalle e nel vivo colorito.
Si atteggiavano a padronanza, forti della loro duplicità e di una volontà sola, alla quale ubbidivano due voci, quattro occhi, quattro mani.
Insediate nella gran camera di Carlino, erano esse che alla mattina si ponevano alla finestra per guardare i passanti, fresche e ardite nei loro vent’anni. Teresina pativa ora il freddo, e alla mattina, appena levata, era troppo pallida per farsi vedere alla finestra.
Le gemelle avevano stretta relazione coi nuovi inquilini della casa della Calliope — i Ridolfi —, che avevano due belle ragazze; e da una casa all’altra si telegrafava continuamente con occhiatine, con piccoli segni, con sorrisi e cenni di convenzione.
Teresina restava esclusa da questi maneggi, e li comprendeva poco, perché, avendo trascorsa la giovinezza nel fare da mamma alle sorelle, non le era rimasto il tempo di cercarsi un’amica della sua età. La pretora le si conservava fedele, ma anch’essa invecchiava, aveva le figlie grandicelle, tanti pensieri, tanti sopracapi.
Con grande stento Teresina l’aveva persuasa a ricevere in nome suo le lettere di Orlandi. Queste lettere erano fiacche, scarse, eppure Teresina le apriva sempre con un palpito di cuore, le leggeva avidamente.
La pretora crollava la testa: cose lunghe diventan serpi. Secondo lei non c’era piú nessuna ragione di continuare la corrispondenza.
Ma Teresina ricordava l’ultimo colloquio, gli schietti trasporti, i baci che non ingannano. Dieci mesi erano già passati — dieci mesi che non vedeva Egidio — eppure le memorie di quella notte la inseguivano ancora: il ballo, l’audace apparizione, sopratutto l'appuntamento in fondo al giardino, dopo la veglia, nell’alba fredda di quel mattino di febbraio.
Ella pensava che anche lontano Egidio dovesse conservare l’ardore del desiderio, come lo conservava lei, e che nessuna donna potesse interessarlo, come a lei non interessava uomo.
Eppure questa fede ingenua veniva scossa qualche volta. Vedeva, guardandosi attorno, riflettendo, confrontando e capiva che tutto nella vita di un giovane si svolge in modo opposto a quello di una ragazza; per conseguenza l’amore dell’uno non può essere uguale all’amore dell’altra.
S’accorgeva anche di una crescente compassione per lei, nelle persone buone; compassione che i maligni rivestivano di una ironia piccante.
Frequenti allusioni alle fanciulle che invecchiano in casa, prive d’amore, la ferivano acutamente.
Forse ch’ella non amava? Forse che non era amata? Ma che cos’era dunque quel mistero che le sfuggiva continuamente, sul quale sembrava concentrarsi l'attenzione di tutti? Quale catena, quale segreto accordo legava insieme uomini e donne, per cui si intendevano con un monosillabo, con un’occhiata? L’amore? Ma ella amava. Si poteva amar di piú?
Arrestandosi a questa riflessione, un rossore tardivo le saliva alle guancie. Non era piú il rossore invadente dei quindici anni; era un riflesso che dava appena un po’ di tepore alla pelle, per cui tornava subito pallida come prima.
E pensava: “No, non è possibile. Qualunque cosa ci possa essere, non potrebbe farmi piú felice di quanto lo fui, stretta nelle sue braccia, in quel mattino... Egli era allora tutto mio”.
Tentava qualche volta di prendere una rivincita su quelle arie di protezione sprezzante; e rispondeva con alterigia, o non rispondeva affatto. Una volta la pretora le disse: — Non fare così; diranno che inacidisci come una zitellona —. A tali parole Teresina, colpita, andò a chiudersi in camera, e pianse come non aveva mai pianto da che era al mondo.
Pianse le lagrime disperate della giovinezza che muore. Pianse su se stessa, per il suo volto emaciato, per i suoi begli occhi che si spegnevano nell’atonia; per il suo povero corpo che, dopo aver vissuto come una pianta, stava per fossilizzarsi come un sasso. Ebbe un accesso di vera disperazione, durante il quale sentì agitarsi nel fondo delle viscere un torrente d’odio, di passioni malvagie, di invidie non mai provate.
Si torceva sul letto, mordendo le coperte con una voglia pazza di fare del male a qualcuno, col desiderio mostruoso di veder scorrere del sangue insieme alle sue lagrime.
La trovarono sfinita, livida in volto, coi denti serrati.
Il dottor Tavecchia, chiamato per tranquillizzare lo spavento della madre, accennò a un isterismo nervoso e prescrisse dei calmanti.
Da allora, ogni tratto, le convulsioni si rinnovarono, tenute dapprima nascoste perfino alle sorelle, poi accettate come crisi passeggera, prodotta da un generale indebolimento dell’organismo. Il dottor Tavecchia ordinò le pillole di ferro.
L'inverno fu tutto occupato nell'allestire il corredo per la sposa. Si faceva economia, cucendo ogni cosa in famiglia. Teresina, naturalmente, aiutava, e spesse volte, ricamando i festoncini intorno alle camicie, le venivano i goccioloni agli occhi. Un giorno, dopo aver lavorato quattro ore di seguito, dichiarò di essere stanca; le bruciavano le palpebre, e davanti alla pupilla vedeva come una nebbia.
— Se fosse il tuo corredo — disse crudelmente la sposina — non ti stancheresti.
Teresina chinò il capo in silenzio. Nessuno seppe la forza ch’ella dovette fare a se stessa per non schiaffeggiare la sorella.
Lo sposo veniva in casa tutte le sere. Era innamoratissimo; si sedeva vicino alla sua promessa, e sembrava volesse mangiarsela cogli occhi; aveva dei baci sulle cime delle labbra, ed ogni parola che ne usciva, volava a lei come una carezza, calda, fluente, tiepida per ardori repressi. Pareva che la sua testa, le sue mani, i suoi ginocchi fossero muniti dell’ago calamitato; si volgevano sempre a quel punto, trattenuti solo dal rispetto.
Per tacito accordo, intorno alle sedie dei due fidanzati, si formava il vuoto. La signora Soave non si moveva dal divano, circondata dalle altre tre figlie, tutte curve sul lavoro, affrettate, attente, rispondendo brevi parole ai dolci lamenti della madre.
Dall’angolo dei fidanzati, in una lieve penombra, veniva il mormorio sommesso delle paroline, dei sospiri interrotti: sfumava in un irradiamento giulivo, egoisticamente trattenuto nel cerchio della penombra; finché all'arrivo del signor Caccia la conversazione si faceva generale.
Alle dieci, regola invariabile, si spegneva la lucerna.
I fidanzati si salutavano con una lunga stretta di mano, guardandosi negli occhi, e Teresina, chiudendo l'uscio della sua camera, pensava tristemente al tempo in cui, dopo una serata di noia, Egidio l'aspettava alla finestra.
Il signor Caccia era fermamente persuaso che sua figlia non avesse piú alcuna relazione con Orlandi; la continuata assenza di costui gliene confermava la sicurezza, ed ella avrebbe preferito scomparire nella profondità della terra anziché essere scoperta per la terza volta.
Pazientava per questo le intere settimane, non osando scrivergli sovente, temendo sempre uno smarrimento delle lettere.
La pretora che riceveva in suo nome quelle di Orlandi, gliele consegnava a malincuore; avrebbe preferito che Orlandi non scrivesse piú. Anzi, una volta, si decise a scrivergli ella stessa, esortandolo a non intrattenerla con vane speranze.
Il giovane rispose in modo evasivo. Disse che egli aveva già tentata questa separazione, scorgendo troppo lontana la possibilità di un matrimonio; ma che Teresina non voleva acconsentire, né egli aveva il coraggio di essere il primo a lasciarla.
La pretora spiegazzò la lettera: Bel coraggio quello di restare, a cento chilometri di lontananza e con tutte le distrazioni possibili a guisa di consolazione!
Per mezzo delle Ridolfi, e col pretesto del corredo, le gemelle avevano introdotto in casa alcuni giornali di moda; dietro a quelli fece capolino un giornale politico del mondo elegante, sul quale Teresina leggeva curiosamente i resoconti delle prime rappresentazioni, dei balli ai quali sapeva che Egidio interveniva. L'elenco delle belle signore, la descrizione degli abiti, qualche aggettivo di soverchia ammirazione, le mettevano il tossico nel sangue.
Non dormì una notte per questa frase: “La signora A. dalle forme giunoniche, artisticamente esposte in un elegante costume di Diana cacciatrice, era accompagnata da uno de’ nostri piú brillanti giornalisti, il signor O.”.
Ella non aveva la certezza che quell’O. volesse dire Orlandi; eppure si tormentò per gelosia. Con uno sfogo dell’immaginazione, riuscì a crearsi la figura della signora A., e le sembrava di vederla colle sue forme giunoniche appena velate, appoggiata al braccio di Egidio.
L’articolo, descrivendo la festa, soggiungeva: “Non si può ideare nulla di piú splendido, se non pensando ai giardini d’Armida. I fiori dai profumi acuti, dai larghi calici vellutati, dalle corolle frementi, si intrecciavano a festoni, a ghirlande sovra le coppie che passavano dolcemente attirate dall’ebbrezza della musica, dai vapori olezzanti, dal barbaglio di mille e mille lumi; e quando, dopo cena, l’ardore del ballo si calmò per qualche istante, dietro ogni cespuglio, nel vano d’ogni finestra, sotto i rami fioriti delle azalee, le coppie trovarono dolci e voluttuosi riposi, che l’orchestra blandiva coi notturni piú delicati di Chopin, colla inebbriante serenata di Gounod”.
La povera martire chiudendo gli occhi, sognava, sognava con una lucidità spaventosa, tutti quegli splendori, quel lusso, quelle morbidezze della vita. E lui godeva tutto ciò!
Oh! quelle donne che lo vedevano sorridere, che gli stringevano la mano, quelle donne che egli teneva serrate col braccio, che gli tributavano i profumi della loro bellezza, quelle donne vicine a lui come erano felici!
Ma perché egli andava ai balli? Poteva divertirsi? Poteva sorridere ad altre, stringere altre?... Ella non lo avrebbe potuto.
Durante le sette, otto ore che egli aveva trascorse in quelle sale incantate, fra gli strascichi di raso e lo scintillio delle gemme era mai possibile che avesse pensato a lei? La dimenticava dunque per sette, otto ore; mentre ella non lo aveva mai dimenticato un’ora sola!
Milano era diventata la meta tormentosa dei suoi pensieri. Ogni avvenimento che accadesse nella grande città, aveva per lei interesse speciale. Se si trattava di risse, di ferimenti, temeva sempre che Egidio vi fosse compromesso. Se erano divertimenti, cene, teatri, pensava che egli vi assistesse e si informava dei piú minuti particolari, con un’ansia tormentosa, gelosa, che la rodeva mezza.
Spesso il giornale recava le notizie del tempo: “Oggi abbiamo avuto una giornata splendida” — oppure — “La pioggia minaccia di eternizzarsi”. Teresina correva subito col pensiero ad Egidio, seguendolo nelle vie a lei ignote sotto il sole e sotto l’acqua, facendosi la di lui compagna, seguendolo passo a passo.
Qualcuno disse una volta in sua presenza che le milanesi sono molto simpatiche, e Teresina ne ebbe dispiacere; un dispiacere muto, profondo, al quale si univa, come gli altri suoi dispiaceri, il sentimento umiliante di persona legata, che non può difendersi, e le cresceva sempre piú quel livore, quel fermento del cuore insoddisfatto che, mal pago dell’amore, sente la tentazione dell’odio.
Ma poi veniva la reazione, veniva il pentimento. Erano i momenti in cui si confessava a Dio, come una grande colpevole, e, non volendo accusare nessuno, si reclinava su se stessa, piangendo a calde lagrime.
XX.