Teresa/III
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III.
molle, lungo il fiume cintato da malinconici boschi, che novembre sfrondava.
Caramella, lo zoppo, che abitava in principio del paese, dove ci aveva l'ortaglia, incominciava il suo giro mattutino, spingendo avanti la carriola carica di mele cotte e di pere.
— Oh! le belle pere... pere... pere!
La via di San Francesco era affatto spopolata, tutte le case silenziose, un vapore grigio nell'aria, ancora qualche cosa di tenebroso e di addormentato.
Caramella si fermò dal tabaccaio, abbandonando la carriola sul marciapiede, ed entrò a bere un bicchierino di grappa.
— Vuol venir presto l'inverno — disse la tabaccaia, alzandosi sulla punta dei piedi, per togliere dalla scansia la bottiglia.
Il fruttaiolo non rispose subito, intento ad assicurare i calzoni intorno alle reni. Prese poi il bicchierino in sul vassoio di latta, e lo tracannò d'un colpo, spalancando la bocca e facendo poi scoppiettare la lingua.
— Ma! — disse allora — il peggiore di tutti gli inverni, è quello che ci sentiamo sulle spalle.
Diede un'occhiata, fuori, alla carriola e un'altra al cielo bigio.
— Mele per la vostra bambina non ne volete?
— Oggi no; la tengo a letto, che la voglio purgare.
Caramella si fece sulla soglia, colle mani in tasca. La tabaccaia gli venne presso, con una faccia misteriosa, sorridendo in pelle in pelle.
— Voi che andate in casa Portalupi non sapete niente?
— Di che?
— Della seconda... dicono le faccia la corte il sottoprefetto.
— Crederci!
Lo zoppo non disse altro. Abbrancò la carriola, lentamente, col muso per aria, l’occhio intento alle finestre.
La tabaccaia lo vide allontanarsi, e lo seguì collo sguardo distratto, pensando a tutt’altro, finché un nuovo avventore la fece rientrare nella sua botteguccia.
— Oh le belle pere!... pere!... pere!...
Al palazzo Varisi, Caramella non guardò neppure; e non guardò la casa attigua, dove stava la Calliope, quella stramba, nemica degli uomini, a cui faceva gli sberleffi come un monello, dietro le ferriate del piano terreno.
Si fermò invece dirimpetto all’abitazione del pretore, e bussò alla porta, come uomo sicuro. Là difatti gli comperavano sempre le sue pere, perché il pretore aveva sei o sette marmocchi da mandar a scuola, e le pere cotte fanno bene ai bambini.
Anche nel palazzo Portalupi, l’emulo del palazzo Varisi, lo zoppo aveva le sue entrate libere; forniva la dispensa dei signori Portalupi, marito e moglie, ricconi, con tre ragazze da marito; e serviva la vecchia Tisbe, una cameriera in ritiro, alla quale i Portalupi avevano ceduto due camerette al secondo piano.
Niente da fare con don Giovanni Boccabadati, don Giovanni di nome e di fatto, la cui vita misteriosa ed equivoca lo additava alla curiosità delle donne e all’invidia degli uomini.
Nella casa dove egli viveva, solo, con un vecchio servitore, si vedevano qualche volta entrare ed uscire ombre femminili, sulle quali la vecchia Tisbe appuntava invano i suoi occhiali, e che le tre ragazze Portalupi guardavano sdegnosamente, mordendosi le labbra.
Fra la casa Boccabadati e quella del pretore, stavano i Caccia; e anche lì lo zoppo fece una breve sosta, poiché la signora Soave, udendolo passare, aveva detto a Teresina: — Compera un paio di pere per le gemelle.
Teresina, mezzo assonnata ancora, tirandosi su i capelli colle mani, aveva mandato la serva sulla porta, e lei erasi messa alla finestra, guardando Caramella che sceglieva le pere, delicatamente, e le poneva sulla bilancia — belle pere piccoline e dolci, dalla buccia liscia, che si era indorata cuocendo, e che fumavano ancora in un bagno di brodetto denso.
— Oh le belle pere!... pere!... pere!...
Lo zoppo si allontanava, giù, verso piazza, colla carriola che si lasciava dietro un buon odore, e quasi come un dolce calore di famiglia, di focolari accesi, di bambini allegri col grembialino aperto e teso; odore e calore che si fondevano in una sensazione complessa di benessere, spandendosi lieve, salendo, in quella rigidità bigia di mattino autunnale.
Teresina, alla finestra, seguiva coll’occhio la carriola, e quando non la vide piú, rimase ancora a guardare la strada lunga, colle sue case allineate — quella bianca della Calliope; quella dei Varisi, annerita, e dei Portalupi, tutta gialla, colle cimase delle finestre ad uso marmo; la casaccia larga e bassa, dipinta in rosa, dove abitava il pretore colla sua numerosa famiglia; la casina misteriosa di don Giovanni colle gelosie verdi e la porticina stretta; e poi tutte le altre, in fila, serrate, perdentesi a destra ed a manca, sotto la linea irregolare dei tetti, nella striscia di cielo pallido che appariva in alto.
Sulle braccia, coperte appena da un abitino di percallo, Teresina si sentiva scorrere un brividuccio punzecchiante, non molesto, simpatico quasi; e i suoi capelli giovanilmente scomposti le danzavano sulla fronte e sul collo, producendole un solletico gradito, come di carezza. Se la brezza cessava, ella scuoteva il capo per sentire ancora quelle lievi ondate attraverso il collo, e ne prolungava l’impressione con una ingenuità infantile, collo sguardo sempre errante nella lunga via, osservando con interesse l’acciottolato fitto e la rada erbetta e i due marciapiedi rossicci, fatti di mattonelle posate in costa, avvallate in molti punti.
In fondo, dalla piazza, spuntò il portalettere trascinando di mala voglia gli scarponi a punta quadrata, colla borsetta di pelle nera sul fianco, la faccia burbera. Sparve un momento. Teresina pensò subito che fosse entrato in farmacia. Riapparve, facendo la strada a biscia, da destra a sinistra e da sinistra a destra, lasciando La Mode nouvelle, alle signorine Portalupi e il Corriere di Cremona, al loro babbo; tre lettere a don Giovanni Boccabadati. Passò davanti alla sua casa senza fermarsi; posò una grossa lettera gialla e alcuni stampati alla porta del pretore; poi riattraversò la strada, e andò a sollevare il battente irrugginito della casa della Calliope.
Un sentimento incompleto, indeterminato ma nuovo, si impadroní di Teresina; una specie di mortificazione e di dispiacere.
Tutti quei giornali, tutte quelle lettere portavano a chi erano destinati un mondo di sensazioni.
Nella borsetta nera del procaccio c’erano gioie, dolori, speranze, ebbrezze, promesse, curiosità, fantasia, affetti — tutto l’ignoto, il desiderato, quello che la fanciulla non sapeva. C’era la vita lontana, i fili simpatici che uniscono gli assenti, il principio di storie future, l’ultima parola di cento storie passate. In quella borsetta volgare che un indifferente portava in giro di porta in porta, mille cuori sussultavano; mille interessi si incrociavano; affari e passioni, arte e fame, nobili sacrifici, raffinate vendette, viltà ignobili, santi eroismi.
Ogni segreto della vita era là. Teresina non disse tutto ciò a se stessa, ma lo pensò vagamente con un recondito senso di invidia, con una avidità ignota che sorgeva in quell’istante dentro a lei, per la prima volta, e che le gonfiava il petto di un sospiro lungo, amaro.
La casa della Calliope continuava a restare sbarrata, silenziosa, al pari di un sepolcro.
Il procaccio, appoggiato al muro, sceglieva intanto le lettere, cavandole dal fondo della sacca: lettere larghe, colla soprascritta breve, chiara, a caratteri allungati, commerciali: lettere bianche linde, accurate, scritte su falsariga, col francobollo simmetrico, come sogliono mandarle le educande: lettere chiuse in una busta inglese, di carta consistente, color perla, profumate, misteriose: lettere con inchiostro violetto, scritte bene, a larga iniziale dorata, corrispondenza da donna a donna: grosse lettere, mal piegate, coll’inchiostro dilatato, con traccie di mani poco pulite, due righe di soprascritta e quattro errori.
E la falange delle cartoline scritte verticalmente, orizzontalmente, diagonalmente; moltissimo, molto, poco, pochissimo, quasi nulla, una parola; le circolari, gli annunci, gli inviti, gli opuscoli — tutto passava rapidamente sotto la mano esperta del procaccio, che rimetteva ogni cosa nella borsa, tenendo solo una lettera in mano, e bussando per la terza o la quarta volta all’invincibile porta.
Teresina non conosceva Calliope; non l’aveva mai veduta bene, ma solamente intravista tra una sbarra e l’altra della finestra, colla faccia seminascosta sotto un ampio fazzoletto giallo, parlando da sola e dicendo improperi a tutti gli uomini che passavano. Da troppo poco tempo Teresina si era fatta donna, per aver considerato la Calliope diversamente da quello che la consideravano i ragazzi del paese: una matta che faceva ridere. La sua storia l’aveva sentita raccontare a brandelli, con molte lacune tra un episodio e l’altro; lacune che l’immaginazione sobria della fanciulla non si era mai data la briga di colmare.
Sapeva che era stata accolta, piccina, da una contessa, ed allevata quasi come figlia. E qui le si affacciava la prima lacuna; essendovi parecchie persone le quali affermavano che Calliope fosse veramente figlia della contessa — affermazione che sembrava assurda a Teresina — ma, comunque, la contessa le aveva voluto bene, e l’aveva fatta istruire da un vecchio prete occupandosi ella stessa di quello che poteva mancarle per la parte femminile.
Vivevano allora tutte e due in un podere solitario, e già si sapeva che la Calliope aveva gusti bizzarri, uscendo sola per le campagne, coi capelli sciolti sulle spalle, un piccolo fucile ad armacollo; ardita, violenta, selvaggia. I pochi che avevano occasione di traversare il podere, la udivano zuffolare nei boschi di pioppi, imitando il canto degli uccelli, e qualche volta la vedevano correre sfrenata attraverso i campi, saltando le siepi, colle mani graffiate dalle spine e gli abiti strappati.
Era stata bella, di una bellezza virile e forte.
Il dottor Tavecchia, che l’aveva curata una volta, in occasione che cadendo da un albero si era fratturata un braccio, la diceva una delle più belle donne ch’egli avesse mai viste. Gli abiti bizzarri che portava, si addicevano al suo corpo da amazzone, robusto e snello. Quando si copriva il capo, lo faceva con un cappello da uomo, nero, ampio; non portava mai trine, nastri, gioielli; vestiva di nero o di bianco; spesso si cuciva tutto in giro alla gonna dei fiori freschi e tutta di fiori si fabbricava una acconciatura strana, originale, che sarebbe stata goffa per chiunque, e nella quale ella appariva incantevole.
Seconda lacuna: Teresina aveva udito sussurrare misteriosamente, di un ufficiale francese, di fuga, di tradimento, di altre cose che non capiva bene e che non l’avevano mai interessata fino allora.
Poi balzava fuori la Calliope monaca. Era stata in convento due anni, modello di abnegazione e di penitenza; improvvisamente, alla vigilia di pronunciare i voti, era sparita.
Terza ed ultima lacuna; la quale abbracciava una quindicina d’anni e che aveva condotta la strana donna — rimasta sola al mondo — a chiudersi in quella casa da cui non usciva mai, e dove il paese le usava la carità di non occuparsene, lasciandola in pace colla sua pazzia inoffensiva.
Ma tutta quella storia, arruffata e inverosimile, si presentava ostinatamente al cervello di Teresina, intanto che il procaccio aspettava; e quando finalmente si apersero le persiane della solita finestra a pian terreno, e che la testa stralunata della Calliope apparve tra le sbarre, la fanciulla la guardò intensamente, con una pietà nuova.
Non ebbe agio di osservarla molto, perchè, presa sgarbatamente la lettera, la mattoide rinchiuse subito le gelosie scagliando due o tre grosse invettive contro il procaccio.
Teresina rimase cogli occhi fissi come magnetizzata, sulla finestra chiusa della Calliope; lasciandosi cullare in quel fenomeno comune della mente, per cui sembra di sognare, desti.
Giù, sotto i raggi del sole che si mostrava lentamente, la via usciva dalla nebbia grigia del mattino, per entrare in un bagno di luce. Qualche porta si era dischiusa. La vecchia Tisbe, fedele alle abitudini mattiniere della sua antica carica, aveva distese sul davanzale della finestra le coperte del letto; e tratto tratto appariva nel vano, grattandosi la cuffia, gettando di sbieco occhiate sospettose alla casina dirimpetto, dove le gelosie verdi restavano assolutamente chiuse, nell’isolamento tiepido e dolce di misteri ignoti ai profani.
Passò il dottor Tavecchia, un po’ curvo per gli anni, colla palandrana di panno scuro e il bavero di velluto; passò a capo basso, pensando a’ suoi ammalati.
Passò la cuoca di Monsignore, una grossona, ruvida, burbera, che pareva lei la padrona di tutto il paese, e pretendeva dai bottegai la roba migliore perché, diceva: era per Monsignore.
Passò Luzzi, il segretario di Prefettura, snello, arzillo, con un soprabito di mezza stagione di un bel colorino chiaro, attillato alle reni; guardò in su a tutte le finestre, voltando un po’ la testa per osservare Teresina.
Passò la moglie del sindaco, tutta imbacuccata in un velo nero tenendo fra le mani un grosso manuale color pulce, spellacchiato negli angoli; andava a messa a San Francesco.
Si spalancarono con gran fracasso le finestre di casa Portalupi — la vecchia Tisbe, dalla finestra in alto, ritirò subito le sue coperte — e le signorine Portalupi apparvero, l’una dopo l’altra, in mezzo alle tende di pizzo, sfoggiando tutte e tre una cuffietta rosa. Si assomigliavano in modo strano, brutte tutte e tre senza rivalità. Accennarono lievemente col capo a Teresina, tenendo la bocca stretta, le spalle alte, le braccia serrate alla vita, l’occhio socchiuso, in una posa nobile e dignitosa. Stettero un momento appoggiate al davanzale — o più precisamente a un guancialetto lungo, imbottito, ricamato dalle loro preziose mani — e poi si ritirarono l’una dopo l’altra, com’eran venute.
Dalla porta del pretore irruppero quattro bambini, seguiti dalla mamma, la quale, povera signora spettinata e in ciabatte, si affannava a rabbonire il più piccolo, che non voleva andare a scuola, e piangeva come un rubinetto aperto.
La vista dei bambini fece fare un salto a Teresina. E le sue sorelline? Ella le aveva dimenticate.
Corse subito al letto delle gemelle, e le trovò che si mettevano le calze, alla rovescia, litigando per le pere di Caramella, perchè ognuna pretendeva la più grossa.
Le aiutò a vestirsi in fretta, le lavò, le pettinò, fece recitar loro le orazioni, preparò le pere nel panierino, ponendovi accanto due grossi pezzi di pane.
— Io non voglio quel pane lì!
— Perchè non lo vuoi?
— Non mi piace.
— Ed io voglio il cacio insieme alle pere.
— La mamma non lo ha detto.
— Lo voglio, lo voglio...
— Zitte, non gridate, che la mamma dorme; poverina, non ha mai chiuso occhio tutta notte in causa dell’Ida, ma l’Ida è piccina piccina, ha appena due mesi e non sa di ragione. Voi altre dovete essere buone, capite? Avete otto anni, e otto anni son molti.
Le mandò a scuola, raccomandando loro di essere bravine, baciandole sulle guancie, con una tenerezza composta di giovane madre.
Le guardava allontanarsi, ferma in piedi, lasciandosi riprendere da un torpore fantastico che la spingeva, quel mattino, a sognare desta.