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per la prima volta, e che le gonfiava il petto di un sospiro lungo, amaro.

La casa della Calliope continuava a restare sbarrata, silenziosa, al pari di un sepolcro.

Il procaccio, appoggiato al muro, sceglieva intanto le lettere, cavandole dal fondo della sacca: lettere larghe, colla soprascritta breve, chiara, a caratteri allungati, commerciali: lettere bianche linde, accurate, scritte su falsariga, col francobollo simmetrico, come sogliono mandarle le educande: lettere chiuse in una busta inglese, di carta consistente, color perla, profumate, misteriose: lettere con inchiostro violetto, scritte bene, a larga iniziale dorata, corrispondenza da donna a donna: grosse lettere, mal piegate, coll’inchiostro dilatato, con traccie di mani poco pulite, due righe di soprascritta e quattro errori.

E la falange delle cartoline scritte verticalmente, orizzontalmente, diagonalmente; moltissimo, molto, poco, pochissimo, quasi nulla, una parola; le circolari, gli annunci, gli inviti, gli opuscoli — tutto passava rapidamente sotto la mano esperta del procaccio, che rimetteva ogni cosa nella borsa, tenendo solo una lettera in mano, e bussando per la terza o la quarta volta all’invincibile porta.

Teresina non conosceva Calliope; non l’aveva mai veduta bene, ma solamente intravista tra una sbarra e l’altra della finestra, colla faccia seminascosta sotto un ampio fazzoletto giallo, parlando