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'abitazione dell'esattore era posta a mezzo della via di san Francesco, la così detta via dei signori; non che il signor Caccia fosse un signore, ma sua moglie che apparteneva ad una buona famiglia, aveva portata in dote la casa, quando si era innamorata di lui, e lo aveva voluto sposare ad ogni costo.

Era una casa piccola, dall'apparenza modesta e [p. 16 modifica] provinciale in confronto alle case signorili della via di San Francesco; la schiacciava soprattutto il riscontro del palazzo Varisi, tutto nero, imponente, colle finestre sempre chiuse, perché il marchese viveva a Cremona, ma con uno stemma inquartato al di sopra del portone, quasi a mostrare la presenza, in ispirito, del proprietario.

Altri palazzi, piú o meno antichi, sfilavano a destra ed a sinistra, mettendo capo da una parte alla piazza maggiore, perdendosi, dall’altra, nei campi.

La casa dell’esattore aveva le finestre al primo piano illuminate, e s’indovinava, attraverso le tendine a rete, un certo movimento.

Nella camera nuziale, la signora Soave Caccia, adagiata in un seggiolone, coi gomiti sui bracciuoli, si lagnava dolcemente.

— Che notte, signora Caterina, che notte!

La signora Caterina, un donnone dalla faccia pletorica sotto una cuffia di tullo nero a nastri arancione, la consolava alla meglio, girando per la camera, facendo dei preparativi.

— E mio marito che ha voluto andare sull’argine...

— Che vuole? Un uomo è un uomo; ci sono tutti laggiú; il sottoprefetto, il sindaco, il tenente...

— E la campana, mio Dio, se suonasse la campana d’allarme... come farei a fuggire? [p. 17 modifica]

— Si dia pace; già, questa della campana è una precauzione, ma non succederà. Nel caso, suo marito che si trova sul posto, avrà tempo di provvedere. Braccia e persone di buona volontà non ne mancano. Si figuri che perfino i cantanti, quei poveri cantanti che erano venuti qui nella speranza di poter fare una buona stagione nel nostro teatro, ebbene, anche quelli furono requisiti. L’impresario li ha minacciati di non pagarli, se non prestavano la loro opera; il tenore ha preferito fuggire, rinunciando al quartale, ma tutti gli altri rimboccarono le maniche, e fin da questa mattina lavorano sull’argine. Carlino è in casa, non è vero?

— Oh! sí. Voleva andare anche lui sull’argine, ma suo padre non ha voluto. È di là con Teresina. Le due gemelle si sono coricate belle e vestite... a un bisogno... ma che notte, che notte! Ah, signora Caterina, sono proprio sfortunata.

La signora Caterina, fermandosi nel mezzo della camera con una fascia in mano, atteggiò il volto a severità a quella severità imperiosa e brusca che riusciva sempre a calmare le sue clienti:

— In verità le dico che, se continua ad agitarsi a questo modo, la vuole finir male. Non ci pensi, lei, al Po; pensi a’ fatti suoi.

La signora Soave non rispose altro che con un gemito, lasciando scivolare le mani dai bracciuoli della poltrona, e stringendosele sul ventre, rassegnata. [p. 18 modifica]

Era, la moglie del signor Caccia, una donnina sui quarant’anni gracile, patita, con una faccia lunga e terrea, pallidamente illuminata da due occhi neri, opachi, senza lampo; occhi buoni e tranquilli che avevano pianto molto, che piangevano ancora facilmente, con una debolezza rassegnata e dolce. Mai nessun nome s’era attagliato cosí bene ad una donna. Quando si diceva in paese la signora Soave nessuno poteva scompagnare quel nome dal volto malinconico della moglie del ricevitore. E qualche cosa di stanco, come di catena lungamente trascinata, si appalesava in tutti i suoi [p. 19 modifica] movimenti. La parola aveva breve e titubante, avvezza a tacere davanti alla voce fessa, ma imperiosa, del signor Caccia. Senza slancio nel reagire, senza spirito per rispondere, convinta che la prima virtù di una donna deve esser l’ubbidienza. Sulla sua fronte piccolina scendevano, divisi in mezzo, i capelli del colore di caffè bruciato, e spesso, con un movimento languido accompagnato da un sospiro, ella sollevava la mano per lisciarli. Si vedeva allora una manina magra, scolorita, come di cera vecchia, stretta ai polsi da certi braccialettini di crine intrecciato, sormontati da una rosetta.

— Saranno quindici anni appunto il mese venturo — disse ancora la signora Soave, dopo aver seguito per un pezzo, in silenzio, il corso de’ suoi pensieri.

— Quindici anni, che cosa?

— Da che è nata la mia Teresa.

— È vero.

— E l’anno dopo, subito, Carlino. Se ne ricorda, signora Caterina?

— Eh! altro. Si diventa vecchi.

Un secondo silenzio.

— Le gemelle hanno otto anni... non credevo proprio di averne ancora...

— Ma! Chi va al mulino si infarina.

— È il volere di Dio — concluse, sospirando, la signora Soave.

Il donnone grande e grosso si pose a ridere, forte, facendo traballare la persona massiccia. [p. 20 modifica]

— Almeno fosse un maschio! — sospirò ancora la signora.

— Non ne ha abbastanza di Carlino?

— Oh! non per me; ma le ragazze, poverette, che cos’hanno di buono a questo mondo?… Un grande sconforto le piegò gli angoli della bocca, e i suoi occhi neri, opachi, si velarono di lagrime.

— Su, su, lasci stare le malinconie. Siamo donne, ma, diavolo, non c’è stato nessuno che ci abbia mangiate. Tre ragazze le ha già, una piú, una meno... così il suo Carlino non va soldato.

Il silenzio si rifece, grave, tormentoso; rotto a tratti da’ gemiti della sofferente.

— Vede, signora Caterina, in questa camera io son nata; in questa camera... presto... forse oggi, chi sa non abbia a morire.

— Ma ne devo sentire ancora? — interruppe la signora Caterina, ponendosi le mani sui fianchi — si crederebbe, a darle ascolto, ch’è una bambinetta senza giudizio, e non la madre di quattro figli, a momenti cinque! Perché deve morire? Tanto può morir lei, come posso morir io, sul colpo, di accidente. Ha sentito ieri? Il fratello del sindaco, quel pezzo di uomo che pareva il ritratto della salute?... In un jesus, nemmeno il tempo di dire amen; stava leggendo una lettera, paf, era morto. Non si deve pensare alla morte; quando viene, è perché deve venire; del resto noi donne abbiamo [p. 21 modifica] sette anime e un animino... allegra dunque. Fra un’ora, un’ora e mezzo al piú tutto sarà finito. Guardi, l’ho detto a mia cognata Peppina prima di uscir di casa: aspettami all’alba, che la signora Caccia si sbriga presto. Non è il primo giorno che ci conosciamo, eh! Si fidi.

La signora Soave, un po’ calmata, girò attorno per la stanza uno sguardo carezzevole, quasi per trovare degli amici nei due canterani di legno di noce a pancia rigonfia; nel letto, mezzo nascosto sotto una bella coperta di filugello giallo a fioroni verdi, colle lenzuola rimboccate, guernite di una gala di mussolino; nell’inginocchiatoio, tutto pieno di libri, col predellino incavato dalle lunghe genuflessioni; nello specchio piccolo, verdognolo, appeso troppo in alto, dove non si vedeva che la faccia; nelle tende della finestra, lavorate da lei, a rombi, con un uccellino e una palma alternati per ogni rombo; nei due unici quadri, in cornice di legno nero, rappresentanti il matrimonio di Maria Vergine.

Ma piú che tutto, lo sguardo della signora Soave si arrestò con compiacenza sopra un bambinello di cera coperto da una campana di vetro. Quel bambinello giallino, con due puntini neri al di sopra di un piccolo rialzo che simulava il naso; quel bambinello dall’espressione dolce e rassegnata, coricato da piú che vent’anni in mezzo ai fiori di carta e alle striscioline d’argento che gli ornavano [p. 22 modifica] la culla; quel bambino nudo e santo attirava in modo particolare la tenerezza della signora che si sentiva struggere di amore e di rispetto; con una voglia di piangere, una voglia di baciarlo, e una voglia di raccomandarsi alle sue manine benedette. La grandezza di Dio, rappresentata da quel piccolo bambino, la colpiva di uno stupore pietoso e devoto. Si alzò, e, movendosi a stento, andò a deporre un bacio sulla campana di vetro; restando poi immobile, colle mani giunte, assorta in una contemplazione dolorosa.

L’uscio, di fianco al letto, si aperse pian pianino, e una testa di fanciulla, passando tra la fessura, domandò: — Mamma!

La signora Soave si scosse:

— Che vuoi Teresina? Non ti sei coricata un poco?

— Oh! com’è possibile? Sto alla finestra con Carlino; aspettiamo il babbo. È passato Caramella, [p. 23 modifica] mi ha detto di stare tranquilli, che pericolo per il momento non c’è. Papà verrà presto.

— Dio sia lodato! Va’ a letto, Teresa, va’ a letto.

— E tu mamma?

— Or ora ci vado.

La fanciulla fece atto di ritirarsi; ma, prima che l’uscio fosse chiuso, la madre le si avvicinò, perplessa, ponendole una mano sulla spalla e dicendole a bassa voce con accento tremante:

— Prega per me...

— Mamma... mamma...

Ella si pose un dito sulle labbra, composta, con una solennità misteriosa e dolce:

— Questa notte avrai un altro fratellino... sono cose che capirai piú tardi... ma già sei la maggiore tu, devi pur saperlo. Ora va a letto.

La pose fuori con amorevolezza, e chiuse l’uscio.

Dall’altra parte, in uno stretto corridoio, che divideva la camera nuziale dalla camera delle ragazze, Teresina rimase immobile, appoggiata allo stipite dell’uscio, con una oppressione in gola e un turbamento improvviso.

Aveva quindici anni. Era cresciuta nell’ambiente tranquillo della famiglia, in quella cittaduzza di provincia, lontana da tutte le emozioni. Era il primo anno che stava a casa da scuola, e ne’ suoi doveri di giovane massaia aveva ancora l’incertezza della inesperienza; ma si sentiva compresa [p. 24 modifica] della sua missione di aiutare la mamma. Il suo temperamento la portava alla serietà, e il suo cuore all’affetto.

Le poche parole della madre, pronunciate lì sull’uscio, nel turbamento di quella notte, l’avevano profondamente impressionata. Si sentiva a un tratto fatta donna — con un presentimento improvviso di dolori lontani, con una responsabilità nuova, con un pudore bizzarro, misto di una straordinaria dolcezza.

Sembrava che in quel momento, solamente in quel momento, ella riconoscesse il proprio sesso, sentendosi scorrere nelle vene un’onda di languore non mai avvertita prima, e, nel cervello, sorgere una curiosità viva, pungente, la quale cessò di colpo davanti al rossore che le invadeva le guancie.

Tutto ciò durò lo spazio di cinque minuti, come fosse ricaduto il lembo di velo che le aveva squarciato il futuro. Ella si rifece calma, di una calma piú malinconica, piú intensa; rientrò nella propria cameretta; il fratello che l’aspettava, appoggiato al davanzale della finestra, guardò con una intuizione nuova, ed avendo egli pronunciata qualche parola, trasalì al suono di quella voce d’uomo, e lo guardò, alla sfuggita, temendo ch’egli potesse leggerle sul volto il suo segreto.

Ma Carlino non si occupava che della piena. Avrebbe voluto trovarsi anche lui sull’argine, [p. 25 modifica] insieme agli altri, e si sporgeva fuori dalla finestra per vedere se passava qualcuno a cui domandare notizie.

Qualche altra finestra, come quella dei due ragazzi, era aperta; donne spaurite vi si affacciavano origliando, temendo sempre i rintocchi della campana che doveva avvertirle di fuggire.

— Sai? — disse Carlino, col riso un po’ melenso dei fanciulloni di quattordici anni — la vecchia Tisbe è in piedi da due ore, colle sue posate d’argento nel grembiale e il cagnolino sotto il braccio.

Teresina non rise.

— Se potessi... — tornò a dire Carlino, ponendo una gamba a cavalcioni del davanzale — solamente una scappata, tanto da vedere. Credi che non sarei capace di scendere dalla finestra?

— Andiamo, via, ci mancherebbe altro.

Gli rispose cosí, a fior di labbro, dritta dritta [p. 26 modifica] nel vano della finestra, collo sguardo fisso ostinatamente nel buio.

A un tratto si accostò a suo fratello, passandogli un braccio intorno al collo, chinandosi lievemente, fino ad accarezzare colla guancia i capelli di lui corti ed ispidi come le setole di una spazzola.

Egli non avvertì la carezza. Tutto sporto fuori colle braccia, guardando in direzione della piazza, diceva:

— Se venisse giù di lì! giù! giù! uh! che fracasso...

Non lo sgomento del pericolo lo agitava, bensì l’emozione di quel divertimento nuovo. Tutto il fiume giù in paese! uh!... E rideva, pensando ancora alla vecchia Tisbe, col cagnolino sotto il braccio e le posate nel grembiale.

— Che grossa disgrazia! — mormorò Teresina, rabbrividendo, stringendosi contro al ragazzo con un bisogno irresistibile di tenerezza.

— Auf! — fece egli, dando una crollata di spalle — mi soffochi.

E si sciolse dall’amplesso, sbuffando.

La fanciulla, mortificata, si ritirò in fondo alla camera, dove c’era il suo letto. Sedette sulla seggiolina, accanto al capezzale, e lasciò cadere la testa fra i cuscini.

Lì presso c’era il letto delle gemelle; coricate l’una da capo e l’altra da piedi, vestite, con un [p. 27 modifica] scialle buttato a traverso dei loro corpi. Dormivano saporitamente.

Di lí a poco, un andirivieni, un movimento insolito in camera della madre, fece risollevare il capo a Teresina, che si portò accanto all’uscio, origliando.

Successe un breve silenzio. Ella stava per riprendere il suo posto, accanto al letto, quando un vagito di bimbo le trasse una esclamazione; e subito, senza riflettere, obbedendo ad uno slancio del cuore, entrò nella camera attigua.

— Mamma, mi permetti?

La signora Caterina si fece sull’uscio, seria, con un dito sulle labbra.

— La lasci entrare — mormorò fiocamente di sotto la coperta a fiorami, la voce della signora Soave.

Teresina entrò in punta di piedi, commossa, rattenendo il fiato. La signora Caterina le presentò una bambinetta appena nata, tutta rossa, avvolta in un pannicello.

— Oh! com’è piccolina.

Voleva prenderla in braccio, ma la signora Caterina non lo permise.

— Dopo, quando sarà fasciata.

Teresina la baciò adagio sui capelli; poi, avvicinandosi al letto di sua madre, vi si chinò sopra, riverente, piena di tenerezza, con un senso recondito di timore. [p. 28 modifica]

— Lasciala stare la mamma — disse bruscamente la signora Caterina.

— Sto bene — tornò a mormorare la signora Soave, ricambiando con uno sguardo le carezze della figlia; e soggiunse: — Teresa è la mia donnina, dovrà fare da seconda madre...

— Sí, sí — rispose la fanciulla, tanto commossa, che quasi singhiozzava.

La signora Caterina, senza dir altro, la prese per un braccio, e la pose fuori della camera.

Carlino venne incontro a sua sorella, gridando:

— C’è qui il babbo. Ora sentiremo le notizie; mi ha già detto che hanno atterrato tutte le case vicine a San Rocco.

Teresina non capì nulla; aveva anche lei la sua notizia e la disse al fratello, tremante, tutta pallida: [p. 29 modifica]

— Ci è nata una sorellina.

— Ah! sì? — fece Carlino — lo sapevo che doveva nascere.

E scese le scale di corsa, per incontrare suo padre.

Teresina rimase immobile, colpita dalle ultime parole del fratello. Come mai egli lo sapeva?