Sul mare delle perle/Capitolo XXII
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CAPITOLO XXII.
La fuga del marajah.
Mentre gl’insorti, ormai vittoriosi dappertutto, non ostante l’accanita resistenza dei candiani rimasti fedeli al tiranno, e padroni quasi dell’intera città, s’incamminavano verso il palazzo reale per espugnarlo, il marajah, pazzo di terrore e di rabbia, dalla cima della sua cupola dorata, guardava l’avvicinarsi di quella folla che doveva travolgerlo.
L’insurrezione era scoppiata così improvvisa, che i suoi cortigiani ed i suoi mercenari non avevano avuto il tempo di prevenirla.
Il popolo, appena avvertito dello sbarco di Amali, pel quale aveva sempre nutrito nascostamente vive e profonde simpatie, prima perchè discendente dell’antica stirpe che aveva dato, duecent’anni prima, tanto splendore e tanta potenza al reame, poi perchè lo aveva conosciuto leale, generoso e cavalleresco, era insorto tutto d’un colpo, proclamando la decadenza del tiranno che da tanto tempo lo teneva sotto un giogo di ferro e di terrore.
Il marajah aveva spedito corrieri in tutte le città del suo territorio per far accorrere i suoi mercenari e per avvertire la flotta che gli era rimasta ancora fedele, credendo di soffocare facilmente nel sangue quei primi moti. Invece i progressi fatti dai ribelli erano stati così rapidi, da atterrirlo.
La sua guardia era stata respinta dappertutto e, dopo sanguinosi combattimenti, si era ripiegata verso il palazzo reale per tentare un’ultima e disperata resistenza.
Il marajah, dopo d’aver fatto barricare tutte le vie che conducevano al suo palazzo e occupare gli sbocchi della piazza, era salito sull’alta cupola per rendersi conto della situazione e dei progressi dei ribelli.
In preda ad una viva agitazione e ad una profonda amarezza, di lassù aveva udito prima le grida acclamanti Amali marajah di Jafnapatam e poi, con suo profondo stupore, quelle che proclamavano Maduri.
Un impeto d’ira tremenda lo aveva invaso.
— Maduri marajah! — aveva esclamato, volgendosi verso i suoi ministri ed i cortigiani. — Quel fanciullo occupare il mio posto!... Ah no, mai!...
— Altezza, — disse il suo nuovo primo ministro, che aveva occupato il posto di quello fatto divorare il giorno innanzi dai coccodrilli del lago.
— Si dice che Maduri sia alla testa dei ribelli.
— Quel monello!... Non era fuggito con Amali?
— Non lo so, Altezza.
— Si mandi qualcuno ad informarsi.
Alcuni cortigiani stavano per scendere dalla cupola per mandare dei messi, quando un capitano della guardia, coperto di polvere e di sangue, col viso sfregiato da un colpo di scimitarra, entrò sul terrazzino che girava intorno alla cupola, dicendo:
— Altezza le vostre truppe sono state respinte dappertutto.
— Siete dei vili! — urlò il marajah. — Dei miserabili solamente buoni a mangiarmi i denari!
— Abbiamo combattuto disperatamente, Altezza, e abbiamo lasciato la metà dei nostri uomini nelle vie della capitale. Ci piombano addosso da tutte le parti e sono più di ventimila perchè anche i cingalesi sono passati ai ribelli.
— Li farò trucidare tutti fino all’ultimo uomo. È vero che Maduri è fra gli insorti?
— Sì, Altezza.
— Come si trova qui?
— Una nostra banda l’aveva fatto prigioniero e stava per condurlo qui, quando i ribelli glielo strapparono di mano.
— Li farete gettare tutti nel lago a pasto dei coccodrilli. I miserabili! I traditori! I vili!
— Sono già tutti morti.
— E l’avevano in mano quel ragazzo! Canaglie! Dovevano condurmelo qui o per lo meno ucciderlo.
— E anche l’uomo bianco, Altezza, è coi ribelli.
— Il francese! — esclamò il marajah diventando livido.
— È lui che guida tutti, perchè anche lui è stato liberato.
— L’hai veduto tu?
— Sì, Altezza.
— E non l’hai ucciso?
— Era circondato da centinaia d’insorti.
— E hai osato presentarti a me!... Muori, cane!
Il marajah, che pareva impazzito, aveva estratto una pistola e aveva sparato a bruciapelo sul capitano, stendendolo al suolo senza vita.
— Così si puniscono i vili! — gridò.
I ministri ed i cortigiani, inorriditi e spaventati, non avevano osato fiatare, nè fatto alcun movimento per impedirgli quel nuovo assassinio.
Il marajah s’era messo a camminare pel terrazzino della cupola come una belva feroce, facendo gesti da pazzo.
Giù nelle vie, la moschetteria e le urla continuavano con un crescendo spaventevole, mentre dei quartieri interi bruciavano, mandando in aria nubi di fumo e lingue di fuoco.
I candiani, nel ritirarsi, avevano incendiato le case, credendo d’impedire in tal modo l’avanzarsi dei ribelli. Invece quella tattica era andata fallita, perchè, mentre parte della popolazione spegneva quei fuochi, l’altra si cacciava coraggiosamente in mezzo al fumo e alle fiamme, stringendo da vicino i mercenari e fulminandoli colle spingarde levate dai bastioni e dalle mura, colle carabine, coi fucili a pietra e coi tromboni.
Ad un tratto il marajah, che vedeva i suoi candiani ripiegarsi disordinatamente verso la piazza, si fermò dinanzi al suo primo ministro, chiedendogli:
— Arriveranno in tempo le truppe che abbiamo fatto richiamare? Se ti preme vivere e non vuoi far la fine del tuo predecessore, parla senza esitare.
— Altezza, io lo dubito. I pescatori di perle devono essere sbarcati e so che sono moltissimi, parecchie migliaia.
— Quindi tutto è finito per me, — disse il tiranno, digrignando i denti.
— Vi resta ancora la flotta e avete più di quattromila candiani sparsi pel reame. Con simili forze si può disputare lungamente la vittoria e forse riuscire a domare la rivolta.
— E se resto qui mi prenderanno.
— Io vorrei darvi un consiglio, se me lo permettete.
— Imbecille! È quello che aspetto da te, che sei il mio primo ministro.
— Lasciate questo palazzo, mentre i candiani spazzano le vie dai ribelli che le ingombrano, e fuggite verso la costa.
Il marajah lo guardò cogli occhi iniettati di sangue.
— Per impadronirti tu del potere? — gridò.
— No, altezza, — rispose il ministro, con voce tremante e tenendo gli occhi sulla destra del suo signore che si appoggiava già sull’impugnatura della scimitarra. — No, perchè io vi seguirò nella vostra fuga.
— Sarò in tempo?
— Sì, se vi spoglierete delle vostre vesti, onde non farvi riconoscere.
— E fuggire dove?
— Raggiungere la flotta.
Il marajah si era fermato, colpito da una improvvisa idea.
— Amali ama Mysora! — esclamò.
— Anzi si dice che vostra sorella sia decisa a sposarlo.
— La miserabile! Si troverà sempre alla rocca?
— Lo si crede.
— Colpirò Amali al cuore! Se tutti i pescatori sono qui, la rocca deve essere quasi sguernita di difensori! Ah! La bella idea! Perderò il trono, ma Amali perderà il cuore! Preparatemi un vestito da popolano! Ci fingeremo anche noi ribelli e faremo fuoco noi sulle nostre truppe. Muoiano tutti quei vili che non sanno difendere il loro principe!
Scese la cupola a precipizio e rientrò nei suoi appartamenti, dove già alcuni servi avevano portato numerosi vestiti da popolani.
Il marajah con pochi colpi di forbice fece cadere la sua lunga barba nera, si tolse gli orecchini d’oro, gli anelli e le preziose collane di perle, gettandole via con rabbia, si stracciò la lunga camicia di seta bianca ricamata in oro, la fascia ed i sandali ed indossò una blusa di stoffa grossolana e un paio di calzoncini di tela bianca.
I suoi quattro ministri e dodici cortigiani lo avevano imitato.
— Prendete dei fucili e delle scimitarre, stringetevi attorno a me per difendermi e andiamo. Hanno invaso la piazza i popolani?
— Non ancora, — rispose il suo primo ministro.
— Date ordine ai candiani che ci lascino passare e che non rispondano al nostro fuoco.
— Altezza, — disse il ministro — non approfitteremo del passaggio segreto?
— Dove mette?
— Nella pagoda di Budda. Di là potremo uscire inosservati e mescolarci ai ribelli.
— Ed i miei tesori? Dovrò lasciarli cadere nelle mani dei vincitori?
— Sono già stati sepolti fino da stamane nei giardini del palazzo.
— Guai a chi li toccherà!
Scesero in un salone a pianterreno. Il ministro aprì una porta segreta nascosta fra le tappezzerie e guidò il marajah attraverso un corridoio oscuro, illuminando la via con una torcia.
Gli altri ministri ed i cortigiani li avevano seguiti.
Per mezz’ora s’inoltrarono fra gallerie umidissime, poi il ministro fece scattare una molla che si trovava nascosta in una nicchia della parete e i fuggiaschi si trovarono in un tempio la cui porta era rimasta aperta.
Fuori si udivano urla selvagge e spari.
— Dove siamo? — chiese il marajah, che era diventato pallidissimo.
— Presso i bastioni, — rispose il primo ministro.
— Mi riconosceranno i ribelli?
— Siete bene trasfigurato, Altezza.
— Io ho paura che mi uccidano.
— Siamo qui noi per difendervi e poi nessuno farà caso alla vostra uscita. Avanti, Altezza, non è questo il momento di esitare.
Il marajah, che aveva cominciato a tremare, si decise finalmente ad uscire dal tempio.
La via era ingombra di popolani e delle case bruciavano, mentre in alto si udivano sibilare le palle.
I ribelli stavano respingendo una colonna di candiani che aveva tentato di aprirsi il passo per uscire dalla città.
Il primo ministro lasciò uscire tutti, poi chiuse bruscamente la porta dietro alle loro spalle e si slanciò nel corridoio segreto, dicendo:
— Mentre tu fuggi, io vado a derubarti. Ormai il tuo potere è finito.
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Mentre che il marajah si metteva codardamente in salvo, abbandonando le sue truppe alla loro sorte, Jean Baret e le sue due colonne combattevano ferocemente per forzare la piazza e prendere d’assalto il palazzo reale, dove credevano che si celasse ancora il tiranno.
I candiani, quantunque infinitamente inferiori ai ribelli e già demoralizzati, opponevano nondimeno una tenace resistenza.
Con carri rovesciati, con panconi di legno di tek, con mobili e con pietre avevano sbarrato gli sbocchi della piazza, armando quelle barricate con buon numero di spingarde tolte dalle terrazze e dai magazzini del palazzo reale, poi avevano incendiato tutte le case vicine per sbarazzarsi il terreno ed impedire agl’insorti di occuparle.
Erano ancora in seicento ed a loro si erano aggiunti tutti i servi del marajah, i valletti, gli scudieri, i conduttori d’elefanti, diventati di punto in bianco combattenti.
Alcuni avevano occupato le terrazze del palazzo e perfino il terrazzino della cupola, aprendo un vivissimo fuoco di moschetteria contro Conclusione (pag. 356). gl’insorti che si mostravano a tutti gli sbocchi delle strade.
Jean Baret, che non aveva ancora riportato alcuna ferita, quantunque avesse sempre combattuto in prima fila, s’accorse che la presa del palazzo non era così facile come aveva creduto dapprima.
I candiani, ben appoggiati alle loro barricate, sparavano terribilmente, abbattendo un numero infinito di avversarii, i quali dovevano lottare contro le fiamme e contro le armi da fuoco. Chiamò Durga ed il fratello di Binda e, in una casa risparmiata dall’incendio, tenne un breve consiglio.
— Se continueremo così, non riusciremo a nulla, — disse il francese. — I nostri uomini cadono come le mosche e non la spunteranno in modo alcuno. Bisogna sfondare quelle barricate, prima di slanciarci all’assalto.
— Abbiamo delle spingarde, signore — disse il fratello del capitano.
— Buone per cacciare le anitre, — disse Jean Baret alzando le spalle. — Ci vorrebbero dei cannoni per aprire delle brecce fra quelle barricate.
— Non ne possediamo, signore. Nemmeno il marajah ne ha mai avuti.
— Perdinci!... lo so.
— Signore — disse Durga — qui vi devono essere molti elefanti.
— E che ne vorresti fare?
— Voi possedete ancora quel veleno che li rende furiosi?
— Bravo Durga! — esclamò Jean Baret. — Asino che sono! Non ci avevo pensato! Chi resisterà ad una carica di quei colossi? La vittoria è assicurata!
— Quanti ve ne occorrono? — chiese il fratello del capitano.
— Una dozzina almeno.
— Tra dieci minuti li avrete.
— Noi intanto, Durga, facciamo ritirare le nostre colonne affinchè la via rimanga libera.
Quell’ordine era superfluo. I cingalesi, non ostante le loro cariche disperate, per la terza volta avevano dovuto ritirarsi dinanzi all’ostinata resistenza dei candiani, lasciando sul terreno un gran numero di morti.
Anche le altre colonne, che agivano in altre vie, non avevano avuto miglior fortuna e la piazza era rimasta ancora ai mercenarî del marajah.
— Vedremo se resisteranno agli elefanti, — disse Jean Baret. — Quei colossi, resi furiosi dal mio veleno, rovescieranno tutto e noi entreremo nella piazza dietro di loro.
— Non si rivolteranno dopo contro di noi? — chiese Durga. — Se continueranno la loro corsa faranno strage anche dei nostri.
— Li ammazzeremo subito, magari a colpi di spingarda.
Mentre le due colonne, completamente disorganizzate, si ritiravano, il fratello del capitano aveva fatto condurre dodici enormi elefanti guidati dai loro mahuts.
Udendo il rombo delle spingarde e lo strepito delle fucilate e vedendo le case e le capanne fiammeggiare, i pachidermi barriscono spaventosamente e cominciano a rinculare, tanto più che qualche palla li colpisce.
Jean Baret li fa disporre su due file, estrae la fiala e la lancetta e li punge rapidamente, poi comanda ai mahuts di ritirarsi.
I colossi continuano a retrocedere dinanzi al fuoco crescente dei candiani e stanno per volgere le spalle e gettarsi fra le due colonne che si accalcano nella via.
Il pericolo è tremendo.
— Sparate dietro a loro e gettate dei tizzoni! — grida Jean Baret.
Due case ardono a breve distanza, un po’ dietro agli elefanti. Cinquanta uomini raccolgono delle travi e delle canne ardenti e le lanciano addosso ai colossi, i quali, sentendosi bruciare le gambe deretane, partono al galoppo, colle proboscidi alzate.
Il misterioso veleno comincia a fare il suo effetto ed eccoli entrare in furore. La fucilata dei candiani non li spaventa più.
Precipitano la corsa, schiacciandosi nella via; urtandosi si rovesciano, bomba devastatrice, sulla barricata, la quale in un momento è sfondata, dispersa, distrutta, e si scagliano nella piazza, cominciando la strage.
I candiani, atterriti da quell’assalto che nessuna forza umana può arrestare, fuggono da tutte le parti, abbandonando anche le altre barricate, le quali vengono tosto occupate dai ribelli.
Jean Baret fa volgere le spingarde, gridando:
— Uccidete gli elefanti! Ai candiani penseremo poi.
Quattordici bocche da fuoco, che prima difendevano le barricate, tuonano contro i colossi, che percorrono la piazza a galoppo sfrenato, cacciando nei loro corpacci palle di due e di tre libbre, le quali fracassano costole e cranî.
Bastano cinque minuti perchè tutti cadano morti o moribondi.
I candiani, vedendo gli elefanti cessare l’inseguimento e stramazzare sulle pietre della piazza, riprendono animo, tentando contrastare ancora una volta il passo ai ribelli ormai trionfanti.
Dinanzi al palazzo del marajah s’impegna l’ultima battaglia. Jean Baret coi suoi due battaglioni si slancia, alla carica, rompe le linee dei mercenarî, e perviene al portone del palazzo che i servi non hanno avuto il tempo di chiudere e di barricare.
La resistenza cessa subito. Gli ultimi avanzi delle guardie reali si arrendono per salvare la vita consegnando le armi, mentre la popolazione, vittoriosa dappertutto e padrona dell’intera capitale, acclama il giovane Maduri marajah di Jafnapatam.