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cap. xxii. — la fuga del marajah | 337 |
sorti che si mostravano a tutti gli sbocchi delle strade.
Jean Baret, che non aveva ancora riportato alcuna ferita, quantunque avesse sempre combattuto in prima fila, s’accorse che la presa del palazzo non era così facile come aveva creduto dapprima.
I candiani, ben appoggiati alle loro barricate, sparavano terribilmente, abbattendo un numero infinito di avversarii, i quali dovevano lottare contro le fiamme e contro le armi da fuoco. Chiamò Durga ed il fratello di Binda e, in una casa risparmiata dall’incendio, tenne un breve consiglio.
— Se continueremo così, non riusciremo a nulla, — disse il francese. — I nostri uomini cadono come le mosche e non la spunteranno in modo alcuno. Bisogna sfondare quelle barricate, prima di slanciarci all’assalto.
— Abbiamo delle spingarde, signore — disse il fratello del capitano.
— Buone per cacciare le anitre, — disse Jean Baret alzando le spalle. — Ci vorrebbero dei cannoni per aprire delle brecce fra quelle barricate.
— Non ne possediamo, signore. Nemmeno il marajah ne ha mai avuti.
— Perdinci!... lo so.
— Signore — disse Durga — qui vi devono essere molti elefanti.
— E che ne vorresti fare?
— Voi possedete ancora quel veleno che li rende furiosi?
— Bravo Durga! — esclamò Jean Baret. — Asino che sono! Non ci avevo pensato! Chi resi-