Sul mare delle perle/Capitolo XI

XI. Il capitano della guardia

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CAPITOLO XI.

Il capitano della guardia.

Jafnapatam nel 1818 — epoca in cui si svolge questa istoria — era ancora una delle più notevoli città della costa occidentale dell’opulenta isola di Ceylan.

Non era molta popolosa, sebbene avesse una superfice notevolissima, bellissimi edifici, pagode in gran numero dedicate a Buddha, il dio dei cingalesi, palazzi grandiosi di marmo e anche robusti bastioni in mattoni e pietra armati di molte grosse spingarde e protetti da fossati pieni d’acqua.

Si distingueva sopratutto per la sua magnificenza il palazzo del marajah, un edificio colossale con cupole, terrazze, gallerie, minareti e cortili così spaziosi da potervi far manovrare dentro qualche migliaio di soldati.

Jean Baret e Durga, attraversato uno dei ponti levatoi, erano entrati in città senza trovare opposizione, anzi rispettosamente salutati dai guerrieri o guardie della porta, perchè anche in quel tempo l’europeo esercitava un profondo prestigio sugli isolani. [p. 148 modifica]

Il luogotenente di Amali, che conosceva la città, condusse il suo compagno per alcune vie poco frequentate, onde non destare troppo la curiosità della popolazione e dopo una mezz’ora si fermava dinanzi ad una palazzina di bell’aspetto, tutta di marmo bianco, col tetto piramidale e vaste gallerie riparate da stuoie dipinte.

— È qui che abita il capitano? — disse Durga.

— Volete vederlo subito?

— Se non trovi alcun inconveniente.

— Ben pochi ci hanno notato e poi un uomo bianco ha accesso in qualunque casa.

— Vediamo innanzi a tutto se c’è.

— Se vi è la sentinella dinanzi alla porta vuol dire che Binda è ritornato dal palazzo del marajah.

— Andiamo a trovarlo.

Durga assunse l’aspetto d’un personaggio importante e ordinò alla sentinella di andare ad avvertire il suo padrone che un europeo desiderava vederlo, avendo da fargli delle comunicazioni urgenti.

Il soldato, deposta la lancia, entrò nella palazzina, battendo una lastra di rame che aveva staccato dalla parete.

— Ci riceverà? — chiese il francese, il quale si sentiva battere il cuore.

— Non oserebbe fare un affronto ad un uomo bianco, eppoi basterà che dica il mio nome alla sentinella. Binda non deve averlo scordato, anzi!...

Erano trascorsi appena due minuti, quando quattro servi si presentarono sulla gradinata, pregando l’europeo di seguirli presso il loro padrone. [p. 149 modifica]

— Andiamo — disse Jean Baret.

I servi gli fecero attraversare un bellissimo corridoio di marmo e lo introdussero in una sala coperta di tappeti e ammobiliata sontuosamente, con divani e cortinaggi di seta e immensi vasi indiani istoriati.

Un uomo che indossava una lunga camicia di seta azzurra, senza ricami, e che aveva il capo stretto da un fazzoletto di raso rosa, stava seduto sopra una piccola sedia di bambù, tenendo fra le mani una ricca scatola di lacca contenente del betel e delle noci d’areca.

Era un po’ attempato, al di sopra certo della cinquantina, di statura bassa, come lo sono generalmente i cingalesi, colla pelle un po’ bruno-dorata, due occhi piccoli e furbi ed il mento coperto da una folta barba ancora nera.

Vedendo entrare il francese si alzò, poi indietreggiò, facendo un gesto di stupore. Aveva veduto Durga comparire dietro a Jean Baret.

Con un gesto accennò ai servi di andarsene, chiuse la porta, poi, tornando verso il francese, disse:

— Perdonate, signore, questa mia mossa prima di salutarvi, ma voi siete seguito da un uomo che mi ha profondamente turbato.

— Me lo immaginavo — rispose Jean Baret, stringendo la mano che il capitano della guardia gli porgeva. — Non aspettavate di certo Durga!

— Chi ti manda? — chiese con vivacità Binda, avvicinandosi al luogotenente di Amali.

— Il mio padrone. [p. 150 modifica]

— Dove si trova egli?

— A non molta distanza da qui.

— Perchè?

Durga accennò il francese, dicendo:

— È a lui che tocca rispondervi, perchè è il suo migliore e più fidato amico.

— Voi, signore! — esclamò il capitano, volgendosi verso Jean Baret.

— Ho avuto questo incarico dal re dei pescatori di perle.

— Che cosa desiderate? Parlate: io sono come un fratello per Amali.

— Una cosa semplicissima, capitano, — rispose Jean Baret. — Siamo venuti qui per concertare con voi il rapimento del piccolo Maduri.

— Mi chiedete una cosa impossibile.

— Può sembrarvi tale per ora; io invece sono di parere contrario.

— Ditemi innanzi tutto dove si trova Amali.

— Nascosto in una palude, o meglio in un lago, a bordo del suo Bangalore e con buona scorta.

— Se lo scoprissero? — disse Binda con terrore.

— È la laguna dei coccodrilli — disse Durga.

— Voi sapete quale terrore inspira a tutti quel luogo.

— E dov’è Mysora, giacchè si sa che è stata da lui rapita?

— È al sicuro sullo scoglio, — rispose Durga.

— E che cosa vuole ora Amali?

— Sottrarre al marajah anche il fanciullo, — disse Jean Baret. — I pescatori di perle sono [p. 151 modifica]impazienti di invadere gli stati di Jafnapatam e altro non attendono che l’ostacolo sia tolto per aprire le ostilità.

— Rapire il fanciullo! — esclamò il capitano, spaventato. — E d’altronde sarà necessario, se Amali vorrà vendicare suo fratello e riconquistare il trono. Il momento sarebbe anzi propizio, perchè io ho già raccolti molti partigiani, i quali, più o meno, hanno avuto tutti di che lagnarsi del marajah e che sarebbero pronti a prendere le armi.

— Non ritenete la cosa possibile?

— Se non impossibile, almeno estremamente pericolosa, perchè, ora che il marajah sa che Amali ha in sua mano Mysora, ha raddoppiato la vigilanza intorno al fanciullo. Egli credeva che Amali gliela avesse rapita per proporgli uno scambio.

— Tale infatti era la sua idea, anzi egli voleva venire qui in persona — disse Jean Baret.

— Non avrei risposto della sua vita.

— Ho fatto bene a sconsigliarlo e ne sono contento. Vediamo, capitano, non si può tentar nulla?

— Pensavo.

— Io ho un piano da sottoporvi.

— Voi?

— Sì, e mi pare ottimo.

— Parlate, signore.

— Il marajah è amante della caccia?

— Moltissimo.

— Se lo consigliaste di fare una battuta ai coccodrilli del lago, vi pare che accetterebbe?

— È probabile. [p. 152 modifica]

— È in questo che dovreste riuscire. Quando va a caccia conduce sempre con sè il fanciullo?

— Non lo lascia mai, perchè sa che, finchè rimarrà nelle sue mani, Amali nulla tenterà contro Jafnapatam.

— Benissimo.

— Perchè dite ciò?

— Amali ed i suoi uomini sono nascosti nel lago e una sorpresa può riuscire.

— È qui che v’ingannate, signore, — disse il capitano. — Il marajah quando caccia non conduce mai meno di due o trecento uomini con sè.

— Ne conducesse anche mille, non mi importerebbe affatto, — disse Jean Baret. — Con un po’ di astuzia e di coraggio si può, approfittando d’una notte oscura, entrare nella tenda del fanciullo e portarlo via.

— E le sentinelle?

— Si uccidono.

— Che uomo siete voi?

— Uno che ha giurato di rendere un gran servizio al re de’ pescatori di perle e che manterrà la parola. Potreste voi decidere il marajah a mettersi in caccia?

— Farò il possibile per riuscire.

— Non vi chiedo altro pel momento. Ah! una cosa ancora.

— Dite pure.

— Potrei io, nella mia qualità di europeo e di cacciatore, far parte del seguito del marajah?

— M’incarico io di ottenervi questo permesso.

— Grazie, capitano. [p. 153 modifica]

— Ditemi, rimarrà prigioniera Mysora?

— Amali non ha per ora alcuna intenzione di lasciarsela sfuggire perchè....

— L’ama, — disse il capitano.

— Come lo sapete?

— Ne avevo il dubbio.

— Sì, l’ama molto.

— Peccato! Sarebbe stato meglio che non avesse pensato a quella giovane.

— Eh! Andate a dirlo ad un innamorato. Credo d’altronde che sarebbe meglio che le due famiglie si imparentassero, radunando sotto un solo scettro i partigiani dell’una e dell’altra. Sarebbe buona politica.

— Ed in tal modo il marajah sfuggirebbe alla sua punizione, — disse il capitano con accento feroce. — Io però non sono innamorato.

— Le vostre parole nascondono mia grave minaccia e non vorrei trovarmi nella pelle del marajah.

Il capitano fece col capo un cenno che pareva una affermazione, poi alzandosi disse:

— Debbo recarmi ora dal marajah. Contate su di me, e, durante la mia assenza, consideratevi come i padroni di questa casa.

— Ne approfitteremo, essendo molto stanchi e anche affamati, — rispose Jean Baret. — Quando vi rivedremo?

— Prima di questa sera. Vi raccomando di non pronunciare il nome di Amali nemmeno dinanzi ai miei servi. Sarebbe pericoloso per me e più specialmente per voi.

Era appena partito, quando i servi rientrarono [p. 154 modifica]portando una tavola riccamente imbandita, che collocarono in mezzo alla sala.

I cuochi del capitano dovevano essere famosi. Avevano preparato manicaretti squisiti, pasticci d’ogni specie e salse d’ogni qualità!

Vi erano persino dei quarti di selvaggina arrostiti interi e collocati su enormi piatti d’argento.

— Dopo una corsa così lunga in mezzo ai boschi, questo pranzo era quello che ci voleva, — disse il francese. — Amico Durga, è il momento di approfittarne e di lasciare in pace il marajah, il re dei pescatori e tutti gli altri.

Jean Baret, che non perdeva mai una linea del suo inalterabile buon umore, si mise a tavola assaggiando tutto e anche molto gustando e facendo i più stravaganti paragoni fra la cucina cingalese e quella francese.

Era anzi tanto entusiasmato di quei pasticci, che per poco non proclamava la supremazia della prima sulla seconda.

Quand’ebbe saziata la fame, accese una sigaretta e si sdraiò pacificamente sopra un divano, invitando Durga a fare altrettanto.

— Giacchè siamo diventati i padroni di casa, facciamo il nostro comodo, — disse.

Parlava ancora e già dormiva, invitato dalla frescura che regnava in quella sala marmorea e dal silenzio che nessun rumore turbava.

Erano trascorse quattro o cinque ore, quando fu svegliato da una voce che gli diceva in un orecchio.

— Signore, non avete un momento da perdere [p. 155 modifica]e avete fatto bene a dormire. Non so se ne avrete il tempo più tardi.

Era il capitano della guardia che così gli parlava.

Jean Baret si era alzato subito.

— Ah! Siete voi! — esclamò.

— E vi reco una buona nuova.

— Quale?

— Fra un’ora partiamo.

— Per dove?

— Per la foresta.

— Oh!...

— Sì, signor uomo bianco. Avevo appena fatto al marajah la proposta di intraprendere una battuta nelle foreste, che già dava gli ordini opportuni per preparare la spedizione. Ha accettato sopratutto l’idea di andar a purgare il lago dai coccodrilli che lo infestano, anzi ha trovato l’idea assai originale.

— E partiamo fra un’ora!...

— Il marajah desidera accamparsi nella foresta. È un po’ bizzarro il principe, e poi, prima di recarsi al lago, vuol provare i suoi nuovi elefanti, ammaestrati recentemente dai mahuts.

— Contro chi?

— Contro le tigri della jungla.

— Cosicchè avremo doppia partita di caccia! — esclamò Jean Baret, con aria trionfante. — Gli avete detto che desideravo anch’io seguire la spedizione?

— Anzi il marajah ha messo a vostra disposizione un elefante, affidando a me la vostra sorveglianza. Desidera vedervi alla prova. [p. 156 modifica]

— Procurerò di farmi onore, capitano. Questo marajah è un principe gentilissimo.

— Quando non diventa invece molto pericoloso.

— Anche verso di me?

— Oh no! Non oserebbe toccare un europeo; sa che dietro di voi verrebbero gl’inglesi.

— Sapete, capitano, che abbiamo avuto una bella fortuna! Verrà anche il ragazzo?

— E dormirà vicino alla tenda del principe.

— Se si potesse tentare il colpo questa notte!

— Non pensateci, — disse il capitano. — Aspettiamo di giungere sulle rive del lago per aver l’appoggio di Amali e dei suoi uomini.

— Durga! In piedi, si parte.

— Così presto? — chiese l’indiano, alzandosi.

— Il nostro elefante già ci aspetta dinanzi al mio palazzo, — disse il capitano. — Venite subito, così assisteremo alla sfilata del corteggio, uno spettacolo imponente, che merita di esser veduto.

Jean Baret e Durga seguirono il capitano e trovarono dinanzi al palazzo un enorme elefante marghee, uno dei più alti della specie, colla sua cassa sul dorso, posata sopra una ricca gualdrappa di seta rossa a frange d’argento, montato dal suo conduttore, il quale sedeva sul collo, fra le due orecchie.

Salirono la scala di corda e si sedettero sui cuscini della cassa.

L’elefante, docile agli ordini del suo conduttore, si mise in moto, attraversando con passo pesante e lungo la città, fermandosi presso una delle parti dove si era radunata una folla enorme, in attesa del corteggio reale. [p. 157 modifica]

Vi era appena giunto, quando si udirono suonare trombe e tam-tam e si videro comparire numerosi soldati, che sventolavano banderuole bianche, sulle quali erano dipinte in rosso delle figure che rappresentavano il sole, l’elefante, la tigre, il drago ed altri animali.

Seguivano drappelli di suonatori che battevano triangoli di ferro, lastre di bronzo, tamburi e tam-tam, poi soldati armati di sferze senza manico, formate di corde di canapa intrecciate, che agitavano senza posa, facendole fischiare agli orecchi della folla.

Veniva quindi un ricco palanchino, carico di ornamenti d’oro e d’argento e ricco di sculture, sorretto da otto uomini, vestiti sfarzosamente di seta a vari colori.

Adagiato sopra un cuscino di velluto, stava il marajah, il quale indossava una specie di giubba di stoffa di broccato e larghi calzoni di seta bianca che gli scendevano fino ai talloni, e scarpe rosse a punta ricurva.

In testa portava un berretto di velluto a quattro corna, adorno d’un mazzo di penne rosse, e al fianco una spada coll’elsa d’oro. In mano invece aveva una canna a varî colori, col manico d’argento cesellato ed incrostato di perle preziose e di diamanti.

Era un uomo ancora vegeto e robustissimo, di tinta quasi biancastra, che negli occhi e anche nei tratti del volto rassomigliava un po’ alla bella Mysora. Aveva invece una espressione feroce e sdegnosa sul volto. [p. 158 modifica]

— Non mi piace affatto quella faccia, — disse Jean Baret.

— Non fatevi udire se vi preme la vita, — disse il capitano della guardia. — Il marajah è molto suscettibile, e nemmeno la vostra qualità d’uomo bianco vi salverebbe.

— Ah! già, mi dimenticavo che quell’uomo è un potente.

Dietro la lettiga del marajah ne veniva una seconda, sulla quale si trovava un bel ragazzo di dodici o tredici anni, ben sviluppato, colla pelle un po’ bruna, gli occhi grandi e nerissimi dall’espressione malinconica, e la capigliatura lunga e abbondante.

Era anch’egli vestito di seta bianca con guarnizioni d’oro ed aveva una ricca fascia a più colori.

Intorno a lui stavano otto guerrieri armati di lancie e di scimitarre, i quali non gli staccavano mai di dosso gli sguardi.

— È Maduri? — chiese Jean Baret.

, il nipote di Amali, — rispose il capitano sottovoce.

— Un bel ragazzo, in fede mia. Il re dei pescatori di perle può essere orgoglioso di lui. Oh! se potessi renderglielo!

— Non vedete come è guardato?

— Che cosa sono otto uomini?

— Sono stati scelti fra i più forti del marajah.

— Li uccideremo, — rispose il francese, che trovava tutto facile.

— Quattro a me e quattro a voi — disse Durga. — Le nostre pistole ridurranno subito il numero. [p. 159 modifica]

Dietro le lettighe venivano sei enormi elefanti da caccia, montati da uomini armati di fucili, poi un gran numero di bracconieri, che tenevano a guinzaglio dei cani, quindi battitori, servi, soldati e cavalli carichi di provvigioni, di tende e di arnesi diversi.

Il capitano lasciò che l’intero corteo sfilasse, poi ordinò al conduttore di mettersi in coda.

— Dove si accamperà stanotte tutta questa gente? — chiese Jean Baret.

— Nella jungla — rispose il capitano.

— Spaventeranno le tigri.

— Se ne troveranno egualmente perchè i battitori impediranno loro di fuggire.

— Sarà una caccia grandiosa. Vi prenderanno parte tutti?

— Dal marajah all’ultimo servo.

— Quanti saranno?

— Circa quattrocento, signore.

— Che battaglia! Compiango quelle povere tigri.

Annottava quando l’immenso corteo giunse sull’orlo dei boschi. Per aprire il passaggio, furono mandati innanzi sei elefanti, i quali si misero subito all’opera, atterrando gli alberi e spazzando via i cespugli che ingombravano il suolo.

Che terribili lavoratori! Nessun albero resisteva alle loro proboscidi ed alle loro zanne. Quando qualche tronco era troppo grosso vi si mettevano in due od in tre e anche quel colosso della vegetazione, dopo pochi minuti, rovinava al suolo con immenso fracasso.

Gli altri sollevavano il tronco e lo gettavano da [p. 160 modifica]una parte, affinchè la lettiga del marajah potesse avanzare liberamente.

Intanto, a destra ed a sinistra, battitori, servi e guerrieri, armati di scuri, tagliavano rami, fracassavano radici, spazzavano via foglie e piante parassite, con una rapidità fulminea, e la strada era fatta.

Alle dieci di sera, quando il corteo giunse presso la jungla che il francese e Durga avevano attraversato al mattino, i tam-tam, i tamburi e le trombe diedero il segnale della fermata.

Cinquanta uomini si precipitarono in mezzo alle canne spinose, abbattendole su uno spazio di quattrocento metri quadrati ed innalzarono la tenda reale, un padiglione in forma di cono, di seta rossa, adorno di bandiere.

Intorno ne rizzarono altre pei ministri, per gli alti dignitari e pei parenti del marajah, poi vennero accesi immensi fuochi per preparare la cena.

— Rizziamo anche noi la nostra tenda — disse il capitano, facendo fermare l’elefante. — L’umidità che regna nelle jungle è talvolta pericolosa; essa produce delle febbri inguaribili.

Quattro servi s’occuparono della cosa, poi allestirono la cena pel loro padrone e pei suoi ospiti, servendola su piatti d’argento.

— Per bacco! — esclamò il francese, sempre ilare specialmente quando vi era da mangiare. — Tondi d’argento nel regno delle tigri! È un lusso inaudito, che cosa ne dici, Durga?

— Che tutto va per il meglio, signore.

— Anche i nostri progetti, è così? [p. 161 modifica]

— Fino ad ora sì.

— E cammineranno meglio ancora, te lo assicuro. Hai veduto dove hanno messo il ragazzo?

— Occupa una tenda vicina a quella del marajah.

— Che paura ha di perderlo!

— Da quel fanciullo dipende la sua corona, signore.

— Gli prenderemo l’uno e l’altra, — rispose Jean Baret.

— Vi sono molte guardie.

— Approfitteremo di qualche trambusto per tentare il colpo. Ho un certo progetto pel capo! Gli elefanti! Bravi animali, quando non diventano furiosi!

— Che cosa c’entrano gli elefanti col fanciullo, signore? — chiese il capitano, che aveva ascoltato il dialogo senza prendervi parte.

— A suo tempo ve lo dirò. Eccellente questo cosciotto di antilope! Avete un cuoco famoso, capitano. E quest’anitra in salsa di banani! Ah! Squisita! Gli elefanti! Brave bestie, sì, bravissime!

— L’avete con quei colossi questa sera, — disse il capitano, ridendo.

— Sono entusiasmato di loro.

— Mi immagino che si tratti invece d’altro. Voi pensate a giuocare qualche tiro birbone a quegli animali.

— Silenzio, capitano. Non è ancora il momento di parlare. Seguo un’idea che darà risultati stupefacenti e che farà ridere molto Amali.

Terminata la cena, il francese e Durga fecero [p. 162 modifica]un giro pel campo, mentre il capitano si recava a ricevere gli ordini dal suo signore.

Soldati, servi e battitori erano tutti in movimento per preparare la caccia che doveva aver luogo allo spuntare del giorno.

Duecento uomini, seguiti dai cani, erano già partiti per circondare la jungla a fine d’impedire che le tigri, spaventate da quel frastuono e da tutti quei fuochi, si rifugiassero nei boschi vicini.

Alcuni colpi di fucile indicavano che qualcuna di esse aveva già cercato di prendere il largo.

— Con tutta questa gente nascerà una confusione enorme — disse Jean Baret a Durga. — Preferisco cacciare da solo.

— Tutti i marajah cacciano a questo modo, signore — rispose il luogotenente d’Amali.

— Si perderanno anche molte persone.

— Non vi è spedizione che ritorni intatta. Le tigri, approfittando della confusione, fanno sempre molte vittime.

— Se potessimo approfittarne anche noi per rapire il ragazzo!

— Il marajah lo terrà presso di sè, sull’elefante.

— Chi te lo ha detto?

— Un servo del capitano.

— Non importa, riusciremo egualmente quando saremo giunti al lago.

— Avete un progetto?

— Non te lo nego, Durga.

— Contro gli elefanti?

— Te lo sei immaginato! Voglio rendere furiosi quegli animali. [p. 163 modifica]

— Con che cosa?

— Con una puntura.

— Non la sentiranno nemmeno, signore. La loro pelle è troppo grossa.

— Eppure un giorno, nel Pengiab, ho veduto uno di quei colossi diventare così terribile, in seguito ad una goccia di un certo liquido injettato sotto la sua pelle da un indiano, che lo si dovette uccidere per impedirgli di fare un massacro.

— E voi possedete quel veleno?

— Sì, me lo ha dato quell’indiano a cui avevo reso un servigio.

— E l’avete con voi?

— L’ho in tasca. Contavo di regalarlo ad un marajah del Coromandel, il quale va pazzo per la lotta degli elefanti e che si lagnava di non poter rendere i suoi animali abbastanza esaltati. Non avendo avuto occasione di rivederlo, l’ho tenuto io.

— E lo userete per gli elefanti del marajah?

— Sì e noi approfitteremo del terrore e della confusione che spargeranno pel campo, per impadronirci del ragazzo.

— Un piano stupendo, quantunque pericoloso.

— Non saprei trovarne uno migliore.

— Perchè aspettate quando saremo sulle rive del lago? Potreste tentarlo questa notte.

— Siamo troppo lontani da Amali. I soldati del marajah potrebbero inseguirci e prenderci subito. Sul lago invece abbiamo il Bangalore e la fuga sarà più facile e più sicura, non avendo qui il marajah nemmeno una barca. [p. 164 modifica]

— Voi pensate a tutto, signore. Quale fortuna per Amali l’avervi incontrato!

— Silenzio e torniamo nella nostra tenda.

Quando vi giunsero trovarono il capitano della guardia.

— All’alba si apre la caccia, — diss’egli al francese. — Sono state già segnalate cinque tigri ed il marajah mi ha incaricato di affidarvi il posto d’onore.

— Che gli prema di veder divorare un europeo? — disse Jean Baret, ridendo.

— Ritengo invece che voglia esperimentare il vostro coraggio.

— Cercherò di accontentarlo, capitano. Le tigri le conosco e qualcuna cadrà sotto le mie palle.

— Volete altri fucili? Il marajah è pronto a offrirvene.

— La mia carabina basta, — rispose Jean Baret. — Mi serve da dieci anni e non ha mai mancato una sola volta. La preferisco a tutte quelle che possiede il vostro signore.

— Dormiamo perchè colle tigri bisogna avere i muscoli ben riposati ed il polso fermo.