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portando una tavola riccamente imbandita, che collocarono in mezzo alla sala.

I cuochi del capitano dovevano essere famosi. Avevano preparato manicaretti squisiti, pasticci d’ogni specie e salse d’ogni qualità!

Vi erano persino dei quarti di selvaggina arrostiti interi e collocati su enormi piatti d’argento.

— Dopo una corsa così lunga in mezzo ai boschi, questo pranzo era quello che ci voleva, — disse il francese. — Amico Durga, è il momento di approfittarne e di lasciare in pace il marajah, il re dei pescatori e tutti gli altri.

Jean Baret, che non perdeva mai una linea del suo inalterabile buon umore, si mise a tavola assaggiando tutto e anche molto gustando e facendo i più stravaganti paragoni fra la cucina cingalese e quella francese.

Era anzi tanto entusiasmato di quei pasticci, che per poco non proclamava la supremazia della prima sulla seconda.

Quand’ebbe saziata la fame, accese una sigaretta e si sdraiò pacificamente sopra un divano, invitando Durga a fare altrettanto.

— Giacchè siamo diventati i padroni di casa, facciamo il nostro comodo, — disse.

Parlava ancora e già dormiva, invitato dalla frescura che regnava in quella sala marmorea e dal silenzio che nessun rumore turbava.

Erano trascorse quattro o cinque ore, quando fu svegliato da una voce che gli diceva in un orecchio.

— Signore, non avete un momento da perdere