Studii economici sulle monete di Milano
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STUDII ECONOMICI
SULLE MONETE DI MILANO 1.
I.
bontà dell’oro.
Vera ed unica nostra moneta in oro del medio evo è il fiorino che si cominciò a stampare dalla repubblica milanese circa l’anno 1260, siccome con ragioni plausibili crede il Conte Verri (Tomo I, pag. 297) avente S. Ambrogio da una parte e li Santi Gervaso e Protaso dall’altra, moneta che formava parte della sua collezione numismatica patria, e che non cessa di essere custodita nella sua famiglia.
Di quell’istessa repubblica che fu però per poco rediviva alla metà del secolo XV coll’estinzione della dinastia Visconti, abbiamo altro fiorino pubblicato dal Muratori esistente in ogni ben fornito gabinetto, e la sua metà facile a rinvenirsi ovunque anche nelle collezioni minori.
Ora, tanto questo fiorino Muratoriano che la sua rispettiva metà sono d’oro purissimo dimostrato sufficientemente ad occhio nudo dalla somma loro flessibilità per non dire che lo sono di sicuro per tutti li documenti istorici di quel tempo e per l’assaggio che ne feci istituire, padrone essendo di tutti due li pezzi, e non ho dubbio, che dell’egual tempra sia il Verriano più antico sia perchè l’ho avuto in mano a mio bel agio, sia per quelle molte altre ragioni che faremo valere alla rubrica dei tre fratelli Viscontei quando si tratterà per disteso del Fiorino d’oro coi primi due esemplari a quel posto che saranno da noi esibiti di una tale moneta.
Similmente puro fu l’oro posto in opera dai Visconti e dagli Sforza, e ciò mi consta dalle memorie non solo di quell’età, ma dagli esperimenti, che volli far eseguire sovra tutti quelli che conservo in copia, e che ascendono a più di una ventina. L’ottimo re di Francia, e nostro duca, Lodovico XII, mantenne l’antico rigore nei suoi doppi ducati, potendosene ognuno persuadere da me che ne posseggo, benchè assai rari, più di un esemplare.
La bella prerogativa comincia a venir meno con Francesco I suo successore, il quale nel mentre coniar fece nell’officina nostra, tuttochè diversamente sentisse, purissimi ducati doppi d’oro, vi introdusse, copiato nello stesso tempo di Francia, per buona fortuna (Le Blanc) in tenuissima quantità, lo scudo d’oro, che all’ultimo duca Sforza piacque pure in ristrettissimo numero di imitare.
Dell’imperatore Carlo V, che fu sì largo in coniare argento, non abbiamo si può dire monete d’oro, giacchè per tale non vi è il merito di nominare la doppia a 22 carati ed un ottavo che fu stampata in numero di 10 mila nel 1548 per farne regalo al principe Filippo suo figlio allorchè venne a Milano (Argelati, T. III in fine all’Appendice, pag, 31, nota 1, tav. I). Pure da quel tenue saggio si ricava la prava intenzione ch’egli aveva di guastare e togliere presso di noi l’antica, onorevole, utile purità italiana, prava intenzione, ripeterò, che largamente poi mandò ad effetto in Napoli, potendolo io assicurare per assaggio praticato sopra diverse monete in mio dominio di quella zecca.
I re di Spagna che vennero dopo, furono, propriamente parlando, se non li primi autori dell’abuso, quelli che coi loro scudi e doppie d’oro lo generalizzarono, e lo fecero trionfare in casa propria e per tutta l’Italia, tanto meno scusabili perchè ricchissimi di un tale metallo, in cui frammischiarono quasi una decima parte di lega, e tralasciando, eccetto una sola volta, di stampare zecchini (Arg. pag. 35, tav. IV) locchè avvenne con loro danno, notabil cosa osservata e ragionata dal profondo scrittore in materia monetaria Geminiano Montanari modenese. Grande fu la quantità di tali monete coniate dal 1579 per tutto il secolo dopo, come osservò il Conte Carli, e come può vedersi nelle sopraccitate tavole dell’Argelati. Ed il citato Montanari, vissuto nella seconda metà del 1600 ci assicura che l’Italia era inondata dall’oro delle doppie ispane, milanesi, napoletane e dei principi minori italiani.
Il lungo intervallo, sia imperatorio o regio di questo mezzo secolo di Carlo VI, abbastanza è che venga accennato per non aver egli che per debolezza proseguito nella imitazione del sistema, che aveva trovato in vigore.
Nella riforma monetaria di Maria Teresa del 1778 si ritornò a stampare zecchini con qualche per altro tenue e non lodevole facilitazione della scrupolosa purità antica, e si ritornò pure a coniar doppie della bontà ispana introdotte nel 1726, che meglio sarebbe stato di lasciar sepolte nell’obblio. (Veggasi la tariffa delle monete Napoleoniche, 21 dicembre 1807).
Il governo del regno d’Italia ne’ suoi pezzi da 20 e da 40 lire determinò la lega a 1/10 ossia a 0,900 il titolo dell’oro sull’esempio delle monete francesi, cui le nostre dovevano equipararsi in quel tempo per legge politica. Senonchè riflettendo io alla mente che fu sì magnanima ed illuminata di Napoleone, non posso non meravigliarmi, che non abbia concepito l’idea di batter moneta invece di puro oro, poichè allora avrebbe essa sicuramente fatto il giro della terra, come già fecero li zecchini veneziani, che allo scoprimento delle Indie Orientali, fatto dai Portoghesi, furono trovati dispersi in tutta l’Asia. La qual cosa, io credo, che sarebbe senza dubbio avvenuta con accrescimento della sua gloria e con guadagno de’ suoi popoli, se fra li suoi consiglieri di Francia o d’Italia, se ne fosse trovato uno della forte tempra dell’economista modenese. Tal uomo gli avrebbe detto, che il batter metallo della maggior finezza possibile regola dev’essere di ben ordinata zecca; che nella culla più antica che si conosca dell’umano sapere, in Egitto, furono coniate monete finissime; che della miglior sorta2 fu l’oro e l’argento dei Greci che insegnarono alle genti le arti e le scienze; che di puro oro furono i nummi dei romani padroni del mondo3, e che alla bontà pure di 1000 sono i denari d’oro degli Arabi che li emularono nella virtù e nella grandezza dell’impero. (Vedi la tavola a pag. 64 delle monete cufiche del nostro Museo, illustrate dal Conte Ottavio Castiglioni). La purità del denaro arabo nei primi 6 secoli dell’Egira vi è dimostrata; nè alcune piccole differenze che vi s’incontrano intaccano la proposizione, noto essendo che non sono calcolabili, e sono comuni a quasi tutte le zecche; difetto però del quale vanno esenti le Napoleoniche italiane, sì dell’uno che dell’altro nobile metallo, perchè per legge ad ogni fusione ne seguiva l’assaggio avanti di porle in circolazione.
Gli attuali sovrani d’oro austriaci di L. 20 e di L. 40 sono fabbricati nella misura napoleonica che sembra ora adottata dai Governi in generale d’Europa. E ciò è quanto può bastare a porger idea della qualità dell’oro adoperato per sette secoli nelle nostre officine.
II.
bontà dell’argento.
L’esame dell’argento diventa cosa più importante e più intricata, la sua composizione essendo stata coll’andare dei secoli maggiormente variata e massime nelle piccole monete ora più, ora meno frammischiata di parti eterogenee, di rame cioè ed altro vile metallo. Rimandando al capo seguente le monete erose, quelle vale a dire in cui prevale il rame al nobile metallo, entreremo a far conoscere i diversi impasti delle argentee.
Dell’epoca antica repubblicana del 1200 senza nome d’imperatore o re abbiamo superstiti due monete pubblicate dal Muratori, una delle quali fu posta in dubbio dal Conte Giulini (Tom. VI, pag. 140) e vittoriosamente rivendicata dal Conte Verri (Tom. I, pag. 143). In nostro potere esistono amendue in diversi esemplari; cosicchè ne posso dar conto sicuro per averne fatti squagliare a mio talento. Di prelibato argento e quasi si può nominar puro è la più grande, che diè segno replicatamente di 0,968; a 9/10 di fino è l’altra. Di queste eccellenti fabbricazioni sono pure le monete con impronto imperatorio e regio di Enrico VII di Lucemburgo e di Lodovico il Bavaro fra noi coniate nelle prime tre decadi del 300, le quali comechè monete appartenenti all’evo nostro repubblicano, benchè toccante alla sua fine e quindi alterato d’assai nelle sue forme, devono qui essere commemorate. Quelle segnate col nome dell’imperatore Federico I e di suo figlio Enrico VI stampato nei primi anni del nostro governo libero rassodato dalla pace di Costanza sono all’opposto scadenti, dì metà rame e metà argento, al titolo precisamente di 0,530; le calamità da noi sofferte lungamente nell’aspra lotta della libertà, che in 10 o 16 anni non si potevano riparare, ne saranno stata la causa. In apologia d’altronde di que’ nostri progenitori illustri si può notare, che da lunghissimo tempo la moneta che si coniava nella nostra zecca, e della quale avremo opportunità di trattare di passaggio, era inferiore di molto; gli impronti più buoni degli Enrici, che si conoscono per li precedenti immediatamente a questo VI ed a suo padre non segnano più di 0,318 e di 0,346; e le monete più antiche degli Ottoni, che si può credere dal loro numero non piccolo arrivato fino a noi avessero corso tuttavia nel secolo XII, non oltrepassano il limite di 0,554. Successa alla Repubblica la dominazione dei Visconti ha principio la decadenza della moneta, e invano si ricercherebbe il superlativo titolo di 0,968; il migliore impasto che si rinviene è a 9/10 di fino. A questo segno arrivano le grandi e piccole di Azone salito al soglio nel 1330; dopo del quale frammiste a soverchio rame le piccole entrano in concorrenza colle grandi per sconvolgerne li rapporti immutabili, che dovrebbero legarle insieme; quelle, a cagion d’esempio, grandi di Luchino e di suo fratello l’Arcivescovo che regnarono dal 1339 al 1364 sono a 0,909, mentre alcune piccole e piccolissime di questo secondo principe, che si potevano risparmiare, si abbassano a 0,500. Li due fratelli Bernabò e Galeazzo che arbitri per 20 e più anni dopo il 1354 furono della patria nostra, invilirono di più il sistema, poiché nel mentre ne fabbricarono a 1/10 di lega ne portarono non poche delle loro grandi egualmente a 0,650 e le piccole a meno di 0,400. Molto più mi ricorre di dire del primo duca Giovanni Galeazzo che figurò grandemente dal 1385 al 1402 nella scena politica d’Italia; avvegnacchè peggiorato egli abbia tutta la moneta sì grande che piccola indistintamente, e tanta quantità ne abbia coniato che tutti li gabinetti ne sono ingombri; la migliore non giunge che a 0,630 scadente, vale a dire, di 1/3 delle precedenti. Sotto Giovanni Maria e Filippo Maria suoi figli e successori si accrebbe il disordine e lo dimostrano da sé soli, senza ricorrere agli assaggi di zecca, li ripetuti e sempre vani editti di questi due principi contro l’alzamento ognor crescente del fiorino d’oro non mai mutato in peso ed in bontà. Dichiariamo però di non aver voluto ommettere questi assaggi, sia per togliere fin da questo momento gli scrupoli ai meno addottrinati, sia per arrecare pieno sviluppo, secondo abbiamo promesso nel proemio del capo presente, alle nostre idee, quando sarà tempo. Nel governo del secondo Sforza volgendo il 1474 in cui compariscono, come vedremo, li famosi testoni in ottimo argento alla lance approssimativa antica repubblicana del 200, ai quali d’appresso in giusta e legale corrispondenza vanno congiunti li pezzi minori, la scienza rinacque e trionfò pienamente degli abusi sofferti in Insubria per più di mezzo secolo con vantaggio in un del principe e della nazione. Le buone monete acquistano di prezzo, le cattive lo perdono. La verità di questa proposizione è stata dimostrata anticamente dal più volte nominato chiarissimo economista italiano Montanari, e da tutti gli altri scrittori, che vennero dopo, si nostri che d’oltromente. La bontà precisa di dette monete majuscole è a den. 11.13 corrispondenti a 0,962 decimali per ciò che asserir posso, e siccome emerge da pubblici documenti dissotterrati dall’Argelati (T. III, pag. 49). Continuarono li due re francesi nella riforma, che avevano trovata presso di noi, e per mallevadori ne abbiamo gli esperimenti da me praticati a tutto rigore in zecca, tuttoché ne dissenta alquanto il Le Blanc. Alcun poco decadette l’argento con Carlo V; sul decimo di lega fu però conservato. L’elevato impasto sforzesco ritoma in campo cogli spagnuoli che lungamente ci dominarono dalla metà del secolo XVI alla fine del XVII; i loro ducatoni e filippi coi rispettivi spezzati innumerevoli ascendono a titolo di 0,958 pari alla bontà di den. 11.12 a ragguaglio antico espresso nelle tavole dell’Argelati sopra detto (T. III, pag. 36, tav. V e seg.). Abbassò nuovamente l’argento col sistema monetario di Maria Teresa del 1778; quei scudi e loro metà segnano 0,896 (Tariffa del gov. italiano 1808, pag. 22). Sorpasso le due abortite repubbliche Cisalpina ed Italiana. A 0,900 per la ragione politica già fatta osservare regolate furono le monete del regno d’Italia maggiori dello scudo da Lire 5, fino alle più piccole da soldi 5. L’attuai governo austriaco scostandosi con sua lode dalla vecchia prammatica di Germania del secolo decorso che a 0,833 prescritto aveva i talleri di convenzione (ivi) adottò nel 1822 la miglioranza napoleonica per li nuovi, che comandò in Italia a Milano ed a Venezia, miglioranza che saggiamente estese anche alle zecche tedesche, se non che per un’anomalia, che non ha retta spiegazione, permise poscia e permette tuttavia (e siamo mentre scrivo all’anno 1838) la simultanea fabbricazione a titolo inferiore, laonde insieme corrono scudi buoni e meno buoni.
III.
monete erose e di rame.
Le monete erose dette altrimenti di billon già definite di sopra furono sconosciute agli antichi, utilissime per altro riescono per la minuta contrattazione, quando siano fatte a dovere, cioè in proporzioni delle argentee, e siano altresì limitate a numero discreto; che se arbitrario è il loro impasto, od eccedente la quantità, diventano dannose e vera peste del commercio e delle nazioni.
Il primo esempio che di moneta erosa abbiamo nella nostra raccolta è di una ahimè! appartenente alla seconda categoria, e consiste in una coniata nel 1219 col nome dell’imperatore Federico I già morto fino dal 1191 ma di cui continuava nella nostra zecca lo stampo, della forza non più che di 0,250 circa, la quale si vuole far correre per il prezzo d’altra d’argento dello stesso tipo stampata, come dicemmo, vivente quell’augusto, superiore del doppio in bontà e che produsse perciò una sollevazione popolare. Ripararono a questi errori fatali ben tosto in splendido modo li nostri progenitori repubblicani con aver pochi anni dopo, cioè nella seconda metà del secolo istesso battuti gli Ambrosini che dicemmo di ottimo argento ed insieme a loro li denari e li [2 duodecima e ventiquattresima parte del soldo a giusto ragguaglio dei primi. Legali furono pure li denari del principio del 300 coll’impronto del savio Enrico VII di Lucemburgo burgo che non allungò le mani in zecca, come sarà provato di Lodovico il Bavaro, o del suo ministro. Nella Signoria dei tre primi Visconti, Azone, Luchino e Giovanni Arcivescovo, il biglione regge con loro onore alla prova del fuoco. Non così è dei loro successori Bernabò e Galeazzo, dei quali sono buoni li denari e adulterati li mezzi soldi. Ma il sovvertimento vero del sistema accadde col primo duca Giovanni Galeazzo. Noi in parte l’abbiamo già accennato, ed ora aggiungeremo, che se l’arbitrio nelle argentee grandi fu di 1/3, nelle minori non ebbe confine, giunto essendo alla metà ed anche a qualche cosa di più. Per il rimanente evo Visconteo non fa bisogno, ch’io mi estenda in dettagli; ognuno può figurarsi qual sia stato il biglione di quel periodo di tempo dallo scadimento, che si fece ognora maggiore delle monete d’argento dimostrato, come dissi poc’anzi, all’alzamento del fiorino d’oro. Nominerò lo Sforza II del 400 per ripeterne gli encomj e tirerò un velo sopra gli altri di quella casa per le sciagure che pesarono sovr’essi e la patria nostra infelicissima di quella età consegnate nella storia generale d’Italia. Sorpasserò similmente una monetina irregolare della Repubblica, transitoria dal 1447 al 1450 meritevole di compatimento per le dure circostanze che l’afflissero. Ma mi farò lecito alzare francamente la voce contro del potentissimo imperatore Carlo V, che non ebbe vergogna di falsificare il biglione, componendone ragguardevol porzione, che tutt’ora riempie i gabinetti, di rame, ed inargentandolo al di fuori per farlo parere ciò che non era. Ma passeggeri più o meno erano stati questi abusi e cagionati da guerre o da principi malvagi, e nessuno fin allora si era immaginato di convertire la frode, che cautamente aveva serpeggiato fra le tenebre, in una teoria stabile ed aperta, e d’imprimerle il suggello sacro della legge. Questo avvenimento infausto è dei primi anni del secolo XVII, e noi lo dobbiamo in conseguenza agli spagnuoli. Gli stalli di quel governo erano occupati esclusivamente dai Giureconsulti, li quali sostenevano che la moneta vien dalla legge, e non dalla natura ed insegnavano che il principe poteva fabbricar monete buone, o meno buone ed anche cattive secondo i bisogni dello Stato, e tassarne il valore a suo arbitrio. E così si operava alla cieca; l’oro delle doppie era scadente, l’argento dei filippi e ducatoni superlativo coi loro valori fuori di proporzione, il biglione arbitrario e non corrispondente ai pezzi maggiori, e quasi che tante stravaganze e tanti mali non fossero sufficienti, si imaginò e si diede mano nei primi anni dello stesso secolo XVII precisamente nel 1603, cosa ignota ai secoli precedenti, al rame puro per ottenere più ingordo guadagno con questo vile metallo coniato colle massime dominanti (Argelati Tomo III in fine, tav. XX, pag. 58, annotazioni 34 e seguenti).
Se quei giureconsulti fossero stati veramente degni di questo titolo augusto, avrebbero consigliato ben diversamente il loro monarca, e dal celeste testo di Paolo nella Lett. I, de Emptione et Venditione, e dalla Lett. Aedis prætia, Cod. lib. 10, avrebbero conosciuto i loro gravissimi errori. Così classico ed elegante si è il primo testo che mi piace di qui trascriverlo per intiero:
Origo emendi, vendendique a permutationibus coepit. Olim enim non ita erat nummus, neque aliud merx, aliud praetium vocabatur; sed unusquisque secundum necessitatem temporum, ac rerum utilibus inutilia permutabat, quando plerumque evenit, ut quod alteri superest alteri desit. Sed quia non semper, nec facile concurrebat, ut cum tu haberes, quod ego desiderarem, invicem haberem, quod tu accipere velles, electa materia est cujus publica, ac perpetua aestimatio difficultatibus permutationum aequalitate quantitatis subveniret; eaque materia forma publica percussa; usum, dominiumque, non tam ex substantia prsBbet, quam ex quantitate; nec ultra merx utrumque sed alterum prætium vocatur. Usum dominiumque non tam ex substantia præbet quam ex quantitate.
Così adunque pronunziato aveva Paolo della moneta; colle quali parole non potevasi meglio, come dice il presidente Neri, definire gli attributi della moneta, e stabilire che il suo prezzo è proporzionale alla qualità ed alla quantità insieme del metallo esclusa ogni alterazione arbitraria. L’altra legge poi è di Arcadie e di Onorio riportata da Giustiniano, e stabilisce il prezzo, al quale si doveva accettare il rame nel tesoro imperiale in conto dei pubblici tributi, legge che doveva illuminare i Giureconsulti di quella età, e renderli avvertiti che non si poteva giustamente comandare, che il rame pagato per tale dal principe, e da esso trasformato in moneta, fosse poi speso per argento ed oro.
Auri magnus honor prætium tamen auri est aes anticamente aveva detto Ausonio, ed in quel tomo che i falsi interpreti delle sempre venerande LL. RR. fra noi spargevano le loro perniciose dottrine vi erano però ad onore d’Italia scrittori esimii. Serra, Turbolo, Davanzati, Scaruffl, Montanari, i quali avevano pubblicato il vero, e dimostrato che l’oro è prezzato dall’argento, ed il rame prezza l’argento e l’oro. Ma l’ignoranza accompagnata dall’adulazione e sostenuta dal potere la vinse sopra i lumi e gli sforzi di alcuni pochi savj di quel secolo, ed anche del susseguente, non avendo l’imperatore Carlo VI che regnò per li primi 39 anni tolto il disordine; i mali che produssero le cattive monete di biglione e di rame presso di noi furono infiniti; chi desidera di esserne informato appieno, legga le opere del presidente Neri, del Conte Carli, del Conte Verri, e dell’immortale autore del libro Dei delitti e delle pene; le monete buone crebbero di prezzo e scomparirono da noi, restarono le cattive ed altre molte di simil fatta si introdussero dai nostri vicini; il commercio fu incagliato, ed il cambio mercantile diventò passivo; una confusione infine s’introdusse nel valore di tutte le proprietà che non è del tutto ancora finita nella generazione attuale per qualche raro caso, che si verifica tuttavia nella restituzione di capitali in corso prima del 1777.
Maria Teresa, superando da donna magnanima una folla di ostacoli e di volgari pregiudizii, pose termine a questa pubblica sciagura con una moneta nuova che abolì l’antica. Fu elaborata questa moneta coi lumi del Presidente Neri in ispecie, e venne fabbricata dietro un principio semplice altrettanto vero ed immutabile, che il valore dell’oro e dell’argento monetato corrisponder dovesse al prezzo medio di tali metalli nei mercati d’Europa emerso in quell’epoca dagli assaggi di 14 e 1/2 : 1. Sotto a questo principio fu rigorosamente tenuto il biglione, considerato unicamente l’argento che in sé contiene e non calcolata la lega, e solo per il rame si usò facilitazione ma sobria, ch’io veramente non voglio giustificare, ma che non influì sul sistema.
Poco biglione, però difettoso di lo per [o abbiamo del governo italiano; la colpa è del ministro delle finanze Prina; Napoleone non lo segnò nelle sue gride primitive, laonde fu suo suggerimento dopo. Il rame soffre l’eccezione del Teresiano, e così è del l’austriaco attuale, essendosi a quanto sembra i Governi d’Europa intesi fra di loro su tale particolarità; in lode però sia detto del Conte di Saurau, che le redini governative saggiamente stringeva presso di noi, allorché si pensò alla nuova monetazione dopo la conquista del 1814, il biglione fu sottoposto al grande principio, che l’immortale Maria Teresa aveva fatto trionfare dopo la metà del secolo trascorso.IV.
valore delle monete.
Il valore nominale delle nostre monete ha origine da Carlo Magno, che in anno che non si può deternare preciso, avanti però che assumesse l’impero, divise, secondo Le Blanc, Zanetti, ed altri che io seguito a preferenza di Carli, di Liruti, la libbra o lira d’argento di 12 oncie di un nuovo peso comandato da quell’augusto, e che libbra gallica è detta, divise dissi, in 20 parti eguali chiamate soldi, ed ognuno di questi soldi in altre 12, che furono chiamate denari, dei quali in conseguenza ve ne volevano 240 a formare la lira. Questa libbra per altro e nemmeno i soldi non furono, attesa la loro grande massa e per la scarsità dell’argento in quei tempi, coniati allora, e solo lo furono, i denari che abbiamo nei Musei, non che verosimilmente altri pezzi minori, che si sono perduti di biglione e di rame e di bronzo per li bisogni del minuto commercio, pezzi che pare al Le Blanc di aver potuto discernere in qualche antica raccolta francese, e che due nostre pergamene del 803 e 853 inducono a credere essere stati presso di noi in corso col nome di quattrini ossia per ragione etimologica di quarta parte di denaro (antichità Longobardico-Milanesi, T. II, pag. 259). Un tale sistema monetario nominale, che la conquista sui Longobardi introdusse dalla Francia in Italia, e lo fece immediatamente a noi comune, se nacque dopo il 773, durò dalla fine del secolo VIII ai primi anni del XIX in cui subì modificazione per l’invenzione del computo decimale, che tutti conoscono, in forza del quale sparì il denaro, e sorse il centesimo per parte aliquota del soldo e della lira.
Dalla effettiva quantità di metallo contenuto nella moneta nasce ed è misurato il valore reale della medesima; siccome variabile per la volontà del Principe o della città o popolo che la fa coniare si è questa quantità, variabile in conseguenza n’è il vero valore. Il denaro di Carlo Magno coniato in Italia a Milano, a Pavia, a Treviso col tipo del monogramma che io prendo a testimonio, pesa fini grammi 33,180 a marco di Milano in regola di mischiati gr. 35 al titolo di 0,948 per quanto dimostreremo a suo luogo con tal pezzo alla mano, messi in disparte Le Blanc ed altri scrittori che ne parlarono qualche poco diversamente. Il soldo quindi constava di gr. 398,160 e la lira di gr. 7963,200. Ma coll’andar del tempo, per cagioni generalmente note, e che non sarebbe nel mio proposito di narrare, diminuito restò considerevolmente il peso dell’oro e dell’argento monetato oppure, anche fermo il peso, ne fu diminuita la sostanza coll’unione di parti eterogenee. Lungo, ed inutile sarebbe che io qui volessi dar conto dettagliato della decadenza cui soggiaque sotto questi due rapporti la moneta nel corso dei secoli che segna la raccolta nostra, poiché noi lo vedremo di mano in mano coi nostri monumenti lampanti dopo la loro descrizione e vedremo sorgere da quella causa i soldi effettivi e la lira istessa reale metallica in dimensioni infinitamente ognora più piccole in paragone dei tempi antecedenti, salva una sola eccezione accaduta ai nostri giorni colla lira di Napoleone. Non è poi a dire (che sarebbe cosa estranea al mio istituto), se io qui estendessi le mie ricerche oltre l’epoca che mi sono prefisso, e rappresentar volessi un quadro dei cangiamenti accaduti all’estinzione della schiatta dei Carlovingi, che immacolata o quasi, conservarono la monetazione del capo augusto della loro dinastia4, dando principio dal primo Berengario e continuando con sempre maggiore decadimento per tutti gli imperatori e re d’Italia, dal secolo X alla fine del secolo XII da cui abbiamo stabilito di prender le mosse5.
Tuttavolta, per non lasciar digiuno intieramente il mio lettore e per aprirgli l’ingegno nello studio in cui sta per entrare, gli farò sapere che dopo tre secoli, dalla fine cioè del X al cader del XII, da cui ha principio, come dicevo, il mio vero lavoro, il denaro di Carlo Magno dai puri grani 33,180 era già decaduto per l’abuso che ne fecero dapprima gli Ottoni e in seguito gli Enrici a meno di 1/3 vale a dire a 10 grani, solo di tal forza essendo un nummo argenteo di Federico I coniato fra noi del 1185, che per denaro si può sostenere e sosterrò al posto conveniente. E proseguendo soggiungerò che nel 1354 dubbio poi non avvi di sorta, che il denaro non fosse disceso si basso, che rinchiudesse in sé meno di 2 grani, esattamente gr. 1,830; che alla metà del 1500 per le continue sofferte diminuzioni era diventato tanto piccolo, che gli fu forza di sparire dal mondo numismatico, in cui aveva fatto da principio figura cotanto maestosa, per essere convertito in moneta immaginaria cioè di conto; che poco dopo la metà del 1600 subì l’eguale metamorfosi il soldo per resuscitar più tardi ai nostri giorni, privo d’onore, nel vile metallo; tanto che, per dir tutto in breve, la lira del grande imperatore, che cinse il suo capo del serto d’Occidente, nel corso di mille anni dai gr. 7963,200 d’argento, dei quali era grave presso di noi nella seconda metà del secolo Vili, verso la fine del XVII, regnando in Milano l’imperatrice
Maria Teresa, si trovò ridotta a gr. 67,712, vale a dire ad assai meno della centesima parte dell’entità sua originaria. Il che volendosi precisare, si può stabilire nella proporzione di 117,604166: 1 che è quanto a dire che una lira di Carlo Magno ne contiene di Maria Teresa 117 con di più soldi 12, danari 1, in peso d’argento puro; oppure ital. L. 90, cent. 27, mill. 1.
Per ciò poi che le lire ed i soldi non hanno mutato di nome col progredir degli anni, e che solamente se ne mutò l’essenza, sapientemente il Conte Carli ne dedusse il corollario, che nel calcolo degli antichi capitali, obbligazioni, depositi, prestazioni, restituzioni, e simili si deve guardare non già ai nomi delle monete, che nulla significano, ma al peso e quantità del metallo soltanto, che fu obbligato all’epoca dei relativi contratti. Dimostrato fu di sopra, che lire 117, soldi 12, danari 1 del 1778 pareggiano in peso d’argento una sola lira di mille anni avanti, e così potrebbe provarsi in diverse proporzioni di tante altre lire dei tempi intermedii, quando si volesse discendere a singoli calcoli per casi che si possono benissimo verificare tuttavia. Che se così è, quale non sarebbe la frode e l’ingiustizia, se si pretendesse di restituire 1 per 117 e più che fu ricevuto? Oppure lasciando le ipotesi ed i secoli remoti (che però servono a rischiarare la scienza nella sua totalità), ed afferrando l’epoca della dominazione ispana, di cui sono vive ancora le reminiscenze nella patria nostra, ingiusto sarebbe che uno credesse di poter fare quitanza oggidì della prestazione annua livellaria per esempio di 100 lire stipulata da suoi antenati nel 1604, con 100 lire di Maria Teresa, mentre ognuna delle lire del 1604 in ragione del filippo, che valeva in allora che fu coniato, solo lire 5 e non 7 e 1/2 come attualmente, manifesto è, che equivale ad una e mezza, per cui le lire 100 del 1604 divengono realmente ed equivalgono a 150 da pagarsi in adesso.
Verità così palmare, se conobbero, non abbastanza bene ed esattamente espressero i Giureconsulti, che statuirono sulle obbligazioni del mutuatario nei codici europei dei giorni nostri. Il codice francese benché obblighi, è vero, in generale il debitore alla restituzione delle cose nella stessa quantità e qualità, che furono date e, nella impossibilità di soddisfarvi, a pagarne il valore; con che sembra che sul famoso testo di Paolo riportato nel precedente Capo non che sugli scritti forse del celebre monetografo pubblicista, quei compilatori repubblicani abbiano avuto fisso l’occhio, certo sarà sempre, che per riguardo al danaro la questione non fu propriamente né considerata né definita, avvegnacché non vi si legge in parole esplicite obbligata la restituzione sull’equa base dell’intrinseco nobile puro metallo ricevuto, qualora manchi l’originaria moneta data. Nemmeno il codice vigente ha provveduto come doveva, in quanto che per le monete che cessarono d’aver corso prescrive la restituzione con altre che prossimamente si avvicinino, termine vago e sconveniente, che inchiude l’ignoranza della Docimastica, e che non é atto per niente a misurare esattamente il giusto ed a troncar le liti. Eppure la Francia é il paese più dotto d’Europa, e l’illustre Sacy vi fioriva nell’epoca in cui si pensò alla grand’opera di dar leggi al popolo nell’idioma che parla, onde conoscere le possa. Vienna similmente contava nel 1812, che fu l’anno della pubblicazione austriaca, un Eckel che spaziava da sovrano maestro negli immensi campi dell’erudizione greca e romana (Doctrina nummorum veterum, Tom. VIII, Vindobonæ 1802), e soverchio sarebbe di far riflettere, che non avvi né può esservi alcuno veramente grande numismatico, che non abbia dovuto penetrare addentro negli studj dei valori, e non fossero in conseguenza gli esimi scrittori, che ho nominati, capaci di dare, interpellati, responsi sapientissimi.
Anticamente del resto la dottrina esposta del Conte Carli, e che abbiamo voluto alcun poco parafrasare ai nostri bisogni, è stata conosciuta e praticata or più or meno. L’abbattimento delle monete si nobili che ignobili che n’è cagione, è stato perenne nel mondo, cominciando dall’asse librale romano, che si ridusse, come sanno i medaglisti, sul finire della repubblica ad 1/4 d’oncia da 12 che fu in origine, vale a dire ad una quarantottesima parte, discendendo ai danari quinari e sestersi d’argento, diminuiti gradatamente essi pure. In quanto a noi, di cui cade in acconcio il discorso, abbiamo frammezzo alle violenze ed agli inganni dei tre duchi Visconti, ed alle confusioni del primo Sforza, già diversi decreti, nei quali confessando quei principi tacitamente le loro colpe, stabiliscono il ragguaglio fra le nuove e le antiche monete di pregio maggiore, tuttoché di denominazioni sempre le stesse. Così di Maria Teresa abbiamo giusti e benissimo elaborati regolamenti analoghi, allorché diede fuori nel 1778 il suo sistema monetario, ed a tutti poi sono note e per le mani le tavole di riduzione del governo italiano del 1807 ed austriaco odierno del 1822, nelle quali epoche comparvero monetazioni differenti.
Ho dovuto tacere della Spagna, poiché quantunque gravissime alterazioni si siano date nell’entità della lira da Filippo II (1554) a Carlo III (1711), a segno che vedremo quest’ultima più leggiera di 1/3 dell’altra, nessun editto adattato registrano gli annali monetarii di quel periodo infausto sotto tutti i rapporti sociali.
Non può intender la ragione di questa lacuna, chi non è iniziato nella municipale nostra istoria. Eravi allora presso di noi un corpo pubblico detto Senato di Milano encomiato a torto dal Verri (Storia di Milano, pag. 105), magistratura d’origine francese, che riuniva; in sé la podestà legislativa, e giudiziaria, nonché parte dell’amministrativa.
Ad ogni lite, in conseguenza, padrone era di dare sentenza, come più gli piaceva, vincolato non essendo da alcuna legge. Le sue facoltà si leggono nel così detto editto perpetuo di Lodovico XII re di Francia e duca di Milano, dato in Vigevano li 11 nov. 1499 e sono: Damus et concedimus per præsentes potestatem seu auctoritatem decreta nostra ducalia confirmandi et infirmandi, dandi omnes quascumque dispensationes, statutorum et ordinatorum confirmationes, etc. e, rispetto alle concessioni del re medesimo, era detto: Nisi prius fuerint in dicto Senatu nostro præsentatæ interinatæ et verificatæ, nullius firmitatis effectus, vel momenti esse poterint; easque tam concessas quam concedendas decernimus per præsentes irritas et inanas (ivi pag. 104). Di sì sterminate attribuzioni quale uso a beneficio pubblico abbiano fatto que’ Padri Coscritti, le memorie nostre non ne rammentano uno solo, bensì ci hanno tramandato le storie brutali delle streghe, e della Colonna infame. Il grande imperatore Giuseppe II li congedò nel 1783 col plauso dei veri Giureconsulti, e degli uomini di Stato, che sanno dover essere la podestà giudiziaria affatto separata e indipendente dalla legislativa, ed anche, come volgarmente dicesi, dalla governativa.
V.
valore assoluto e comparativo coi giorni nostri
delle monete antiche.
Chiamo valore assoluto la quantità del metallo depurato dalla lega, che si contiene in una data moneta d’argento e d’oro, operazione che si ottiene coll’assaggio.
Come abbiamo più sopra dimostrato, la lira di Carlo Magno della fine del secolo VIII, da cui ha origine la lira milanese, si componeva di puri grani 7963,200 equivalenti a lire 117, soldi 12 e danari 3 di Maria Teresa del 1778, ovvero ad italiane L. 90, centesimi 27 e millesimi 1 del 1807.
I fiorini e ducati d’oro del medio evo ed i zecchini venuti dopo per essere stati ognora purissimi, non abbisognano di scandaglio, ma lo esigono le produzioni in generale dal 1600 in poi fino ai giorni nostri distinte per mischianza di parti eterogenee, cioè gli scudi, le doppie, i sovrani e napoleoni d’oro.
Quindi i primi patentemente additano col peso il loro valore assoluto, non così le monete della seconda fatta, dalle quali convien sottrarre il metallo ignobile per farsene giusto concetto.
Procedendo di sì fatto modo ognuno vede che facilissimo riesce il determinare con rigore matematico il valore di ogni moneta di qualunque epoca si sia, astrazione fatta dal nome che porta, e dalla tassazione per cui abbia avuto corso, e ciò sia detto in correlazione del grande principio esposto dal Conte Carli alla metà del secolo scorso, di cui trattammo non è guari, e che non fu inteso abbastanza bene dai legislatori dell’età nostra.
Ma molto più grave assunto, che non sia quello di decomporre le monete per scoprirne l’intrinseco, si è di fissarne il valore comparativo fra tempi e distanze diverse.
Se la natura non avesse prodigato al nostro pianeta che un solo nobile metallo, o che ad uno, gli uomini avessero data la preferenza per costituirvi sopra il simbolo della merce universale (che semplice e più equo ritrovato sarebbe stato), come si legge di alcuni popoli dell’antica zona torrida, e come fu di Carlo Magno e delle repubbliche italiane che per il concordato del 1264 (Carli, T. I, pag. 291) non altro ohe di monete d’argento pattuirono la fabbrica con norme comuni6 o come tentato aveva il nostro Ministro delle finanze Prina nel 1804, che l’oro demonetizzato aveva, nei progetti monetarii della Repubblica italiana, non vi sarebbe bisogno di prolungare più oltre la discussione presente. Ma la duplicità di cui fanno uso le nazioni involge in astruse ricerche scientifiche dalle quali emergere vedremo che la stessa quantità metallica cangia, e cangiar può realmente di valore sia in più od in meno da un dato tempo all’altro, e tostamente mi accingo a dimostrarlo.
Inconcusso principio fra gli economisti è che il valore dei metalli sta nel pregio che gli uomini che ne sono li possessori, danno all’uno in confronto dell’altro, locchè chiamasi proporzione. Ma poiché queste proporzioni sono soggette a variare grandemente per più cagioni, che furono altrove enumerate, così quegli s’ingannerebbe di lunga mano il quale credesse, che la Lira dei Carlovingi marcata di sopra corrisponda dopo mille anni al valore di teresiane L. 117,12,3. Durante la dominazione di quei monarchi la proporzione ossia il prezzo dell’argento all’oro era come di 1: 12 che è quanto dire che una libra d’oro si per mutava con 12 d’argento locchè sappiamo da un editto di Carlo il Calvo dell’854; (V. Le Blanc, pag. 121) all’incontro ai giorni di Maria Teresa era di 1: 14 e 1/2. Per la qual cosa, dovendosi, nel commercio del 1778 lib. 14 e 1/2 d’argento per conseguirne una d’oro, ne viene in conseguenza che le lib. 12 di Carlo Magno rappresentano ed equivalgono a 14 e 1/2 di Maria Teresa, e che le L. 117,12,3 non sono che il valore apparente della Lira Carolina, poiché essa equivale a L. 142,2,3 a formar le quali non bastano li puri grani 7963,200 d’argento fatti conoscere di sopra e altrove, ma se ne richieggono 9622,200.
A far vedere poi del tutto la mutabilità dei valori non solo in più, come è stato di Carlo Magno a fronte di Maria Teresa, ma ben anco in meno, mi servirò di un altro esempio tratto dalla Lira di Federico Barbarossa detta imperiale, coniata pure dalla città nostra sulla fine del secolo XII volgendo l’anno 1185 paragonandola colla stessa Lira di Carlo Magno. Ad italiane L. 28 e cent. 83 ammonta il valore assoluto della Lira di quel terribile imperatore per la massa argentea che in sé contiene, e la prova sarà data a suo luogo.
Ora la proporzione di 10 e1/2 e non di più vigente a quanto si può credere, esso vivente, per ciò che sicuramente sappiamo della metà del secolo dopo, in cui comparve il fiorino d’oro la proporzione dico di 10 e 1/2 fa si che una Lira di Carlo Magno verso il 1185 equivaleva a 1/8 di meno, cioè a soli puri gr. 6967,800 e così per il corso del medio evo, in cui l’argento resta caro ognora, l’oro non essendo asceso che verso 11 rimane chiarito che il valore reale della Lira Carlovingia si trovò costantemente diminuito.
In conseguenza per determinare il valore comparativo di una moneta dei tempi trascorsi con quello dei successivi, che è lo stesso che dire, il valor suo reale, indispensabile si rende scoprire le proporzioni rispettive.
Domandar forse più d’uno potrà a quale oggetto io abbia messo in campo la discussione dei valori comparativi dopo degli assoluti, intorno i quali le leggi hanno provveduto, e di cui nessuno che abbia senno può contrastare la giustizia, l’utilità, l’evidenza.
In poche, ma mi lusingo chiare, stringenti parole, rispondo al quesito.
Se vero è, come è verissimo, siccome fu notato di sopra, che il valore dei metalli in niente altro consiste che nel pregio rispettivo, che gli uomini danno all’uno in paragone dell’altro, che dicemmo nominarsi proporzione, e se queste proporzioni da un tempo all’altro sono soggette a rilevanti variazioni da un tempo all’altro tanto in più che in meno, non si rende egli evidente, che a calcolare con norme di rigoroso gius una somma di denaro sia d’argento o di oro in qualunque modo obbligata ad un tempo e da prestarsi in altro, si deve guardare non alla sola quantità pura metallica originariamente costituita, ma che il ragguaglio deve farsi col dato che risulterà dalla proporzione allora vigente?
Se libbre 12 d’argento di Carlo Magno erano diventate 10 e 1/2 al tempo di Federico I, e se le istesse libbre 12 di Carlo Magno pareggiano lib. 14 e 1/2 dell’imperatrice Maria Teresa, chi non vede l’utile che ne deriverebbe al creditore nel primo caso, o il danno al debitore nel secondo, qualora di tutte queste diverse quantità non fosse tenuto il debito conto?
Il nobile scrittore in conseguenza, che mi ha preceduto, non conobbe il vero che per metà quando trattò del giro del denaro, e stabili per unico elemento di parificazione il depurato peso metallico. Lode per altro e gratitudine ancora dobbiamo ad esso per avere di un passo forte fatto progredire la scienza, e spianata la strada ad altri per arrivare alla meta.
Mi si obbietterà, che propongo una nuova teoria di difficile applicazione e riescita nella pratica, arcano e di lunga lena essendo lo studio delle proporzioni. Sia pur questo, lo concedo; ma sacra è la scienza nostra, ed ufficio di cittadino degnissimo è d’investigare i nascosti recessi ad utilità pubblica, onde poscia la Giurisprudenza in felice accordo colla pubblica economia, cosa fin qui desiderata più che ottenuta, regolar possa con norme severe e giuste le proprietà, e non l’errore, né l’arbitrio, od il caso. D’altronde in ogni culta regione o presso ogni illuminato governo d’Europa non vi sono cimelii monetari e professori ad essi preposti, che coi loro responsi possono servire di guida ai privati, ed illuminare i Tribunali nella guisa istessa, che fanno i periti d’ogni altra scienza ed arte? Che se lecito mi fosse, farei sapere che per il periodo, che trascorse dal 1354 al 1778 in un opuscolo da me stampato nel 1842, e che qui unisco ad ogni buon conto, sulla Lira milanese nostra appellata in quel tempo imperiale, trovasi già una tavola redatta colla massima or ora stabilita, la quale tavola offre appunto le vicissitudini del valore della predetta lira cagionate dalle oscillazioni metalliche, lavoro che potrebbe facilmente impinguarsi de’ quadri de’ secoli antecedenti, ed essere compiuto con quelli dal 1778 in poi7.
VICISSITUDINI DELLA LIRA IMPERIALE MILANESE
nelle dodici Epoche sotto indicate, in ragione dell’Argento puro da essa rappresentato in ciascuna Epoca, giusta la rispettiva proporzione metallica dell’Oro e dell’Argento col confronto della Lira Nazionale, pure Milanese, creata nel sistema monetario del 1778, la quale, a peso di Marco, conteneva di Argento puro Grani 67,712, essendo di peso lordo Grani 122. 16/24, e della bontà di denari 6. 15, pari a millesimi 552, e ritenuta l’odierna proporzione metallica, che una parte d’Oro equivale a quindici parti e mezzo d’Argento.
Indica- zione di cia- scuna epoca dell’era vol- gare | ELEMENTI DI CALCOLO
per desumere la quantità dell’Argento puro, corrispondente alla Lira Imperiale in ciascuna fra le notate Epoche, colla indicazione della proporzione metallica rispettiva |
ARGENTO PURO CORRISPONDENTE ALLA LIRA IMPERIALE | |||||||||
Quantità giusta la proporzione dell’epoca | Valore appa- rente al prezzo del 1778 | Quantità giusta la propor- zione odierna | Valore effettivo al prezzo del 1778 | ||||||||
Anni | Grani | Mille simi di grani | L. | S. | D. | Grani | Mille simi di grani | L. | S. | D. | |
1354 | Il Grosso d’argento di Bernabò e Galeazzo, fratelli Visconti, Signori di Milano, valeva due Soldi Imperali, era del peso di Grani 51, i quali, alla bontà di 0,900, corrispondevano, a Grani 45,90 di argento puro: quindi la Lira Imperiale constava di Grani puri 459, quando la proporzione metallica trovavasi di 1 d’oro uguale a 10,590 d’argento. | 459 | 000 | 6 | 15 | 6 | 671 | 686 | 9 | 18 | 4 |
1400 | Il Grosso di Giovanni Galeazzo Visconti, Duca di Milano, valeva soldi uno e mezzo, ed era del peso di Grani 48, i quali, alla bontà di 0,630, davano di argento puro Grani 30,240: quindi la Lira constava di Grani 403,300, quando la proporzione metallica trovavasi di 1 d’oro — 11,630 d’argento. | 403 | 200 | 5 | 19 | 1 | 537 | 369 | 7 | 18 | 8 |
1450 | Il Soldo eroso di Francesco I Sforza Duca di Milano, era del peso di Grani 30, i quali, alla bontà di 0,368, davano di argento puro Grani 11,040: quindi la Lira Imperiale constava di Grani 220,800, quando la proporzione metallica era di 1 d’oro — 10,965 d’argento. | 220 | 800 | 3 | 5 | 2 | 312 | 120 | 4 | 12 | 2 |
1500 | Il Testone d’argento del Duca Galeazzo Maria Sforza, e continuato dai successori Giovanni Galeazzo e Lodovico Maria, valeva una Lira Imperiale, ed era dei peso di Grani 192, i quali alla bontà di 0,962, davano di argento fino Grani 184,704, quando la proporzione metallica si trovava di 1 d’oro — 10,975 d’argento. | 184 | 704 | 2 | 14 | 6 | 260 | 857 | 3 | 17 | – |
1548 | Il Testone, coniato nel 1474 sotto il Duca Galeazzo Maria Sforza, e continuato da’ suoi successori, di soldi venti che valeva nella sua origine, fu messo in corso, sotto Carlo V per soldi 30, il che ridusse l’argento puro della Lira a Gr. 133,136, quando la proporzione metallica era di 1 d’oro 10,833 d’argento. | 123 | 136 | 1 | 16 | 4 | 176 | 184 | 2 | 12 | – |
VICISSITUDINI della Lira Imperiale Milanese antica e moderna.
Indica- zione di cia- scuna epoca dell’era vol- gare | ELEMENTI DI CALCOLO
per desumere la quantità dell’Argento puro, corrispondente alla Lira Imperiale in ciascuna fra le notate Epoche, colla indicazione della proporzione metallica rispettiva |
ARGENTO PURO CORRISPONDENTE ALLA LIRA IMPERIALE | |||||||||
Quantità giusta la proporzione dell’epoca | Valore appa- rente al prezzo del 1778 | Quantità giusta la propor- zione odierna | Valore effettivo al prezzo del 1778 | ||||||||
Anni | Grani | Mille simi di grani | L. | S. | D. | Grani | Mille simi di grani | L. | S. | D. | |
1582 | Lo Scudo d’argento di lire 5.13 di Filippo II Re di Spagna e Duca di Milano, era del peso di Grani 631,166, i quali alla bontà di denari 11,13, pari a 0,958,339, davano di argento puro Grani 604,866: quindi la Lira Imperiale constava di Grani 107,056, quando la proporzione metallica era di 1 d’oro — 11,229 d’argento. | 107 | 056 | 1 | 11 | 7 | 147 | 775 | 2 | 3 | 7 |
1608 | Lo Scudo di Filippo III, eguale in peso ed in bontà allo Scudo precedente, era in corso per lire 5,15; quindi la Lira Imperiale corrispondeva a Grani 105,476, quando la proponi «ne metallica era di 1 d’oro — 11,917 d’argento. | 105 | 476 | 1 | 11 | 2 | 109 | 591 | 1 | – | 6 |
1650 | Lo Scudo di Filippo IV, non essendo variato né in peso né in bontà, né in valore di corso, conservava la Lira Imperiale allo stesso limite di Grani 105,476 ; ma la proporzione era di ragione di 1 d’oro — 14,918 d’argento. | 105 | 476 | 1 | 11 | 2 | 109 | 591 | 1 | 22 | 4 |
1672 | Il Filippo d’argento del Re Carlo II, Duca di Milano, valeva lire 6,10, ed era del peso di Grani 546, i quali, a la bontà di 0,958,333 davano d’argento puro Grani 593,94: quindi la Lira Imperiale constava di Grani 80,500, quando la proporz. metall. era di 1 d’oro — 15,752. d’arg. | 80 | 500 | 1 | 3 | 9 | 79 | 213 | 1 | 3 | 4 |
1700 | Il Filippo precedente non fu variato da Filippo V Borbone; ma portato a lire 7, il che abbassò la Lira Imperiale a Grani 74,750, quando la proporzione metallica era di 1 d’oro — 15,054 d’argento. | 74 | 750 | 1 | 2 | 1 | 76 | 149 | 1 | 2 | 9 |
1750 | Tutti gli indicati Filippi d’argento, sotto il dominio dell’Imperatrice Maria Teresa, divenuta Duchessa di Mila:io, furono portati al prezzo di lire 7.10: quindi la Lira Imperiale corrispose a Grani 69,766 d’argento puro quando la proporzione metallica era di 1 di oro – 14,783 d’argento. | 69 | 766 | 1 | – | 7 | 73 | 149 | 1 | 1 | 7 |
1778 | Col sistema monetario di questo anno 1778 si creò la Lira Nazionale Milanese del peso come si è detto, di Grani 122 16/24, i quali, alla bontà di 0,552, danno di argento puro Grani 67,713, quando la proporzione metallica era di 1 d’oro – 14,445 d’argento. | 67 | 500 | 1 | – | – | 72 | 657 | 1 | 1 | 5 |
Nè malagevole adunque, nè tanto meno insolubile è il tema da me proposto; tre scienze vi prestano certo sussidio, la Chimica coi suoi non fallibili processi, la Storia coi documenti, l’Aritmetica colle cifre incontrastabili.
Infranto ad ogni modo sarebbe, seppure esiste, l’intricato nodo per le generazioni almeno, che hanno da venire, e Temi, quell’augusta Dea, cui miriamo costanti in questa nostra opera, trionferebbe in tutti li casi, e di tutte le difficoltà ed imperfezioni del vigente sistema, che per desiderio di brevità ho tralasciate, se la duplicità dei nobili metalli cessasse e rimanesse un solo, quello dell’argento, come che suscettibile di maggior divisioni di parti, e quindi di valori per comodo della contrattazione.
Voto egli è questo, che faccio, e che appendo sulla tomba del ministro delle finanze del cessato Regno d’Italia il quale colla sua doppia d’oro della Repubblica italiana altrove accennata ne concepì fra noi il pensiero sublime nel 1804, onde dar pace a quell’ombra onorata e troppo a ragione di noi sdegnosa.
E sia questo altresì il suggello, che appongo alle attuali economiche monetarie prolusioni, che mi hanno occupato con amore a motivo della grande utilità, anzi dicasi necessità di questi d’altronde ameni studii, a torto sì poco coltivati, e che puro si collegano con bisogni tanto eminenti della civile Società, com’è il giro del denaro, e con una scienza nobilissima, la Giurisprudenza che fu definita dagli antichi sapienti di Roma Divinarum atque humanarum rerum notitia, jusi atque injusti scientia (Institut., lib. 1, tit. 1, pag. 1 de Justitia et jure).
Conte Giovanni Mulazzani.
Note
- ↑ Dobbiamo alla gentilezza del Conte Lodovico Molazzani la comunicazione e il permesso di pubblicazione di alcuni manoscritti del fu suo padre Conte Giovanni.
Quello che ora pubblichiamo nella Rivista e al quale abbiamo dato il titolo di Studii economici sulle Monete di Milano non è che un frammento del Discorso Preliminare che doveva servire di proemio alla Grande Illustrazione che il Conte Mulazzani aveva preparata per la sua celebre collezione, che doveva essere una Monografia della Zecca di Milano.
Il detto Discorso Preliminare sarebbe stato troppo lungo e in parte anche poco opportuno da pubblicarsi per intero in una Rivista. Può darsi che la pubblicazione generale s’abbia a fare in seguito; frattanto abbiamo creduto far cosa grata ai nostri lettori dando loro un saggio degli studii di uno dei più appassionati e serii cultori della Numismatica, il quale lasciò molti manoscritti inediti, non avendo pubblicato, vivente, che una piccolissima parte de’ suoi lavori.
I capitoli che pubblichiamo e che segniamo N. I a V corrispondono ai Cap. XV e seguenti del Discorso Preliminare. Sono scritti nel 1838 con correzioni e aggiunte posteriori.F. ed E. Gnecchi.
- ↑ Eckhel. Lezioni elementari, dove si comprende abbastanza essere stata dall’autore o traduttore, adoperata la voce lega per sorta.
- ↑ Legge Cornelia de falsis ist. lib. 48, tit. 10. Legge Julia Peculatus, tit. 18, per le quali il Dittatore Silla ed Augusto obbligarono i magistrati delle monete a batterle di oro fino.
- ↑ Nel mio museo stanno, a persuadere quanto asserisco, raccolti denari Carolingi italiani di Lodovico, di Lotario, di Carlo il Calvo, Carlo il Grosso imperatori, e di Carlomanno re, che assaggiati risaltarono di buon argento oltre li 0,900, eccetto Lotario di Milano e di Pavia, che di soli 0,720, e 0,774 diedero segno, ed eccone lo specchio compreso il loro prototipo annunciato indietro.
peso titolo Carlo Magno di Milano grani 85 0,948 Idem di Pavia » id. id. Lodovico, idem » 84 0,930 Idem col tempietto » 29 0,924 Lotario di Milano » 35 0,720 Idem di Pavia » id. 0,774 Carlo il Calvo, o Grosso » 34 Carlomanno » 87 0,926 - ↑ Inveterata opinione fra noi incolpa il secondo Berengario, mentre non era ancora pervenuto al soglio ma governava dispoticamente il regno d’Italia a nome del re Lotario, di avere indebolito la moneta, mischiando rame nell’argento per pagare gli Ungheresi che avevano fatto nel 947 una scorreria in Italia (Giulini, T, II, pag, 220), Ma, prescindendo dall’osservazione fatta indietro dell’imperatore Lotario fiorito dall’828 all’855, io sono in caso di assicurare che da qualche tempo avanti col primo Berengario imperatore fra il 915 e 924 il disordine si era già introdotto e il suo denaro di questi anni che mi venne fatto, quantunque rarissimo, di assaggiare a coppello n’è la dimostrazione, avendolo trovato del titolo di 0,746, che è quanto a dire scadente della calcolabile quantità di 1/4 e 1/2 del denaro di Carlo Magno, che arriva a 0,948 come dissi e proverò. Li pezzi consimili dopo l’888 sino al 915 con due tipi diversi rigorosamente pure esperimentati al fuoco in più esemplari, si possono considerare siccome coniati sulla prammatica antica dei Carlovingi, di cui era nato il successore immediato; avendo trovato l’uno di poco distante dalla bontà di 9jlO di fino, e riscontrato superiore l’altro d’assai. A superlativo grado oltre il 0,900 precisamente a 0,960 ho ravvisato eziandio il denaro, forse più raro di tutti, dell’imperatore Lamberto emulo per 6 anni, finché morte lo colse, nell’impero e regno italico del primo Berengario, moneta che per amore della scienza non ho dubitato di sacrificare. Dell’istessa forza, per quanto ho potuto discernere ad occhio, stimo il denaro di suo padre l’imperatore Guido giacente nel Museo di Brera.
- ↑ È cosa da far stupire ogni provetto economista dei giorni nostri, riflettendo alla sapienza di Carlo Magno, che in un secolo barbaro immaginò e ci diede il suo sistema monetario fondato unicamente sull’argento, assicurando per tal modo coll’esclusione dell’oro, la misura invariabile dei valori, che non sì può ottenere coll’uso simultaneo dei due nobili metalli soggetti ad oscillazioni continue nel loro apprezzamento.
Cosi similmente degno d’osservazione è il senno e la costanza mostrata da 7 nostre città circonvicine: Brescia, Bergamo, Cremona, Parma, Pavia, Piacenza, Tortona nell’ordinamento monetario stipulato nel 1254 due anni dopo l’invenzione del fiorino, la qual invenzione turbò e sconvolse fieramente i primitivi valori dei metalli durante la seconda metà del secolo XIII, ed il principio del XIV, come sarà narrato alla rubrica repubblicana dal f. 14 al 18, ed imperatoria e regia dell’evo repubblicano fascicolo 7, f. 9, pag. 4 e f. 10.
Lode singolare si merita pure il nominato concittadino Prina, per avere il primo in questi tempi moderni risuscitata l’idea e la possibilità di un vero, di un retto sistema monetario colla riforma dell’antico, annullando cioè i due instabili valori e perfezione anzi arrecando alla coniatura dell’oro in parti determinate di peso e bontà segnativi sopra per comodo, per garanzia, per estensione maggiore della contrattazione.
Il vanto di avere in Italia rinnovata la grand’opera di Carlo Magno è dovuta ad un altro italiano, Luigi de Medici ministro delle finanze del regno di Napoli; che nel 1818 colla mira (cosi leggesi in una sua ordinanza, 8 maggio di quell’anno, di corregge l’errore della proporzione costante fra l’oro e l’argento e ponendo per massima che la moneta sta la misura dei prezzi e d’ogni maniera di contrattazione, statuir fece dal suo re, che un sol metallo esser possa materia di moneta, e l’argento fu scelto di preferenza. Plauso ed onore adunque sia al forte economista napoletano che degno sarebhe stato di sedere per l’utilità di cento popoli, piucchè del Sire dell’estrema parte d’Italia, nei consigli dell’arbitro d’Europa, Napoleone.
In Inghiltera all’incontro domina l’oro per tipo legale con la lira sterlina pari a 25 di Francia decimali. Ma l’argento maggiormente divisibile è da preferirsi per la comodità delle contrattazioni, e perchè si presta, moltiplicati quanto si vuole i valori, all’uso delle ricche o meno ricche, delle grandi e delle piccole nazioni tutte del globo. - ↑ Quantunque, come l’autore qui accenna, la tavola sulle vicissitudini della Lira Milanese sia già stata pubblicata, crediamo opportuno di qui riprodurla a complemento di questo studio economico, tanto più che l’opuscolo in questione stampato in piccolissimo numero d’esemplari, è ora diventato estremamente raro e quasi introvabile. F. ed E. G.