Storia di Torino (vol 2)/Libro VI/Capo VII

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Capo Settimo


Via Bogino e via degli Ambasciadori. — Palazzo Graneri. — Famiglia Graneri. — Nobile fermezza del presidente Maurizio Ignazio Graneri. — Aneddoti sul conte Bogino. — Il conte Prospero Balbo.— L’imperatore Giuseppe ii a Torino nel 1769.


La seconda via a destra della strada di Po chiamasi da principio via Bogino, dal nome del gran ministro che vi abitava; sul fine piglia il nome di via degli Ambasciadori.

Sul principio della strada che percorriamo, a sinistra, attragge lo sguardo lo stupendo palagio dei marchesi Graneri della Roccia, costrutto nel 1683 e negli anni seguenti, sui disegni dell’ingegnere Gianfrancesco Baroncelli, da Marc’Antonio Graneri, abbate d’Entremont e primo elemosiniere del Duca di Savoja.

Il salone, che è forse tra i privati il più vasto che sia in Torino, fu abbellito nel 1781 sul disegno [p. 725 modifica]del conte Dellala di Beinasco, ed ornato di scolture dei fratelli Collini.

La famiglia Graneri è originaria di Ceres nella valle di Lanzo; in principio del secolo xvi era già chiara per antica civiltà, quando uno de’ suoi membri condusse in moglie la figliuola del sig. di Pingon, segretario ducale.

Nel secolo seguente pervenne a più grandi onori. Gaspare, morto nel 1667, fu presidente della Savoja, meritò il titolo assai più bello di padre dei poveri, e fondò l’eremo di Lanzo. Carlo Emmanuele fu conte di Mercenasco e marchese della Roccia, ed ebbe in eredità il bel palazzo costrutto dall’abate d’Entremont suo zio.1 Il conte Maurizio Ignazio, presidente del Senato di Piemonte, fratello di lui, segnalò la sua virtuosa fermezza in un difficile incontro che mi fo a narrare.

Sul finire del secolo xvii l’ordine e la tranquillità pubblica non aveano ancor fatto in molte parti del Piemonte sufficienti progressi. In ogni terra v’erano sette. I signorotti feudali invece di procurar l’impero della giustizia, armavano a servizio delle proprie passioni quel pessimo genere di sgherri chiamati bravi, gente perduta, senza fede e senza legge, a cui era un gioco intinger la mano nel sangue e levar la vita al fratello. Per ovviare a tanti mali, Vittorio Amedeo ii nel 1699 vietò sotto severissima pena il porto d’armi, e vegliò perchè la legge fosse [p. 726 modifica]eseguita con lutto il rigore. Santo fu il pensiero, benedetta l’opera.

Nel 1722 fu preso per porto d’armi Carlo Francesco Revello, fiscale di Monastero di Vasco, e condotto nelle carceri senatorie. Il Re, invece di abbandonare, come dovea, alla giustizia del Senato la causa, sollecitava con molta premura la condanna; ed avendo presentilo che il Senato dubitava che il divieto del porto d’armi non s’estendesse ai fiscali, gli fe’ dire che sua mente era stata di non escludere quegli uffiziali, e che badasse a non fare falsa applicazion della legge.

Vittorio Amedeo, principe grande, ma principe di voglie assolute, s’altri mai fu, dimenticava che l’indipendenza de’ magistrati è la guarentigia del trono: che la delegazione ai medesimi fatta d’amministrare la giustizia in nome e luogo del sovrano, non può più ammettere restrizioni circa alla pienissima liberta del voto; che un consiglio diretto o indiretto è già un oltraggio alla coscienza del giudice ed alla illibatezza della giustizia; che pubblicata una volta una legge, debbe il giudice interpretarla secondo il senso naturale delle parole, non secondo l’intenzione, qualunque sia stata, del legislatore, finchè questi non si faccia ei medesimo a dichiararla nelle forme prescritte dalle leggi fondamentali dello Stato.

Ma il Senato non dimenticò esso già i proprii [p. 727 modifica]doveri; e non ostanti i replicati comandi del Re, pronunziò sentenza assolutoria.

Grandissima alterazione ne pigliò Vittorio Amedeo; che rilegò il presidente Graneri alla sua villa di Carpenetto, e sospese d’ufficio i senatori. A chi l’informava dello sdegno del Re, e della severità di cui intendeva far prova, rispose con gran dignità il Presidente: « Ch’egli aveva tutto il rincrescimento di vedere che S. M. si mostrava risentita per la sentenza renduta; ma che il suo maggior dolore consisteva nel conoscere che il Senato avea ragione, e che non potea dipartirsi dal suo sentimento senza lesione dell’onore e della coscienza. »2 Questo è veramente il caso di dire che chi resiste sostiene.

Ma per quanto fosse Vittorio Amedeo, come tutti i principi guerrieri, conquistatori, e riformatori, usato a non sopportar contrasti, la maggior colpa di tale errore noi crediamo doversi ascrivere a quei ministri cortigiani, che per rendersi necessarii al principe usano d’adularne le passioni, e invece di temperare con rispettosi consigli le ire tanto pericolose di chi può ciò che vuole, e indugiar l’esecuzione de’ partiti violenti, e dar tempo al tempo, usano all’incontro inasprirne la fierezza, armarne di più velenose punte gli sdegni. Costoro si studiano di render sospetti tutti quelli, che, zelanti della vera gloria del principe, non considerano come volontà. [p. 728 modifica]di lui fuorchè ciò che s’accorda colla giustizia, e non concedono valor di legge all’impulso momentaneo d’una passione. Costoro in ogni più legittima rimostranza travedono un principio di sedizione; interpretano a loro modo i discorsi, interpretano il silenzio; dalle amicizie, e ciò che è più strano, dai parentadi, traggono talvolta materia d’accuse; a un principe di poco giudizio persuadono che la stampa fu un’invenzione diabolica, che le lettere e le scienze covano macchine fatali ai regnatori, e si fanno apostoli dell’ignoranza: a un principe debole empiono il capo di paure, il cuor di sospetti, e facendolo temere lo fanno per necessaria conseguenza incrudelire, e mentre si danno l’aria d’essere i più saldi sostegni del trono, quelli sono invece che ne picchiano, e ne addentano con maggiore stoltezza e pertinacia la base: imperocchè la paura fa i tiranni, e la tirannia le rivoluzioni.

A’ 7 di settembre del 1706, dopo la sconfìtta dei Francesi e la liberazion di Torino, v’ebbe nel palazzo Graneri, dove abitava il vecchio generale Daun, una suntuosissima cena, a cui intervennero Vittorio Amedeo ii, il gran principe Eugenio, i principi di Saxe-Gotha e d’Anhalt, e gli altri principali dell’esercito Austro-Sardo.

Nella seconda isola a destra, dietro al palazzo del principe di Carignano, sorge ora, per munificenza del re Carlo Alberto, il nuovo Collegio [p. 729 modifica]delle Provincie, sui disegni del professore Alessandro Antonelli, celebre architetto dell’altar maggiore del Duomo di Novara.

In principio della seconda isola a sinistra era la chiesa del B. Amedeo collo spedale della carità. Fu ufficiata alcun tempo dai Somaschi, i quali prima ebbero casa a destra di Porta Nuova. V’ebbe sede eziandio, come abbiam veduto, la compagnia della Misericordia. Ora v’abitano gli ebrei.

Nella terza isola a destra la prima casa è nobilitata dalle memorie dei conti Gian Lorenzo Bogino e Prospero Balbo.

Bogino, a dir vero, morì nella casa Alliaudi di Tavigliano (ora San Giorgio) che è l’ultima della via degli Ambasciadori; ma questa di cui parliamo fu sua propria, avendola avuta nel modo che racconteremo da un suo zio prete, e lasciata con altra parte notabile di sua eredità al conte Prospero Balbo, di cui avea sposato l’avola Paola Benzo, e che educò ed amò sempre qual figliuolo.

Bogino era figliuolo d’un notaio. Ottenuta la laurea, erasi dato all’avvocazione, e sebbene giovanissimo, levava già chiara fama di se.— Vittorio Amedeo ii, quando nel 1719 volendo ristorar le finanze molto assottigliate dalle passate guerre, richiamò al demanio tutti i feudi e beni feudali, tassi, pedaggi che n’erano stati in qualunque tempo dispiccati per titolo non oneroso, conoscendo benissimo che tale [p. 730 modifica]provvedimento sapea di violenza, o almeno di troppo rigorosa giustizia, e che egli avrebbe addosso quasi tutta la nobiltà dello Stato, la cui sostanza pericolava; creò dapprima un magistrato straordinario, solito mezzo d’ottener giustizie straordinarie; poi congedò l’intero magistrato della Camera, e ne creò con novelli ordini e giudici, per la gran parte nuovi, un altro, a cui abbandonò la cognizione di quelle cause, che già di sua natura gli apparteneva; e volendo minorare agli avversarii i mezzi di difesa, pigliò uno de’ più famosi tra gli avvocati provetti del foro torinese, Cotti, e lo nominò avvocato generale; uno dei più distinti fra gli avvocati giovani, Bogino, e lo deputò sostituito del suo procurator generale. Bogino servì varii anni in tale ufficio, e corrispose pienamente alla aspettazione del Re, il quale rivolgendo già nell’animo il pensiero d’abdicar la corona, e di ritirarsi a far vita privata, e volendo, prima che ciò seguisse, deputare ottimi ufficiali alle prime cariche dello Stato, chiamò a sé l’avvocato Bogino, e gli disse che era contento di lui, e che per dargliene una prova lo avea nominato consigliere di Stato e referendario; e volendo Bogino ringraziare, S. M. gli accennò di tacere, e ripigliò: Primo consigliere di Stato e primo referendario. Gli disse quindi che continuando a regolarsi bene perverrebbe col tempo alla carica di ministro; ma che la convenienza richiedeva che un ministro avesse una discreta [p. 731 modifica]sostanza, e che per dargli mezzo di acquistarla onestamente, essendo allora vacante l’ufficio di guardasigilli, gli affidava la custodia de’ sigilli, e gliene lasciava i proventi. Stimò quanto valeano annualmente tali proventi, quanti anni si ricercavano per raggranellare un capitale di qualche riguardo; poi soggiunse: Non imaginatevi dopo ciò di diventare guardasigilli o gran cancelliere. Passato questo tempo, mio figlio vi darà un impiego di due migliaia di lire. Bogino molte volte s’era inchinato ed aveva aperto bocca per ringraziare il Re di tanta bontà. Ma questi gli avea sempre imposto silenzio. Continuò Sua Maestà dicendo, parergli conveniente che un ministro avesse casa in Torino; ricordarsi che Bogino aveva uno zio prete, che possedeva una casa, e che bisognava che lo zio cedesse la casa al nipote. Rispose Bogino che credeva che fosse intenzione dello zio di lasciargli, quando morisse, la casa. Non basta, non basta, disse il Re, voglio che ve la ceda subito; e suonato il campanello, mandò a chiamare il prete. Venne il medesimo, e il Re accarezzandolo gli disse: Voi avete un nipote che fa grande onore alla famiglia; io l’ho fatto primo consigliere di Stato e primo referendario, e mio figlio lo farà ministro. Ma conviene che anche i parenti facciano qualche cosa per lui. Voi sapete bene che vostro nipote non ha patrimonio. Vorrei che almeno si potesse dire che ha casa in Torino. Non intendiamo certamente che vi spogliate, come si [p. 732 modifica]dice, prima d’andar a dormire. Riservatevene l’usufrutto finchè vivrete, ma fategliene donazione, affinchè si possa dire che la casa è sua. È una questione di parole che muta la sua condizione agli occhi del mondo. Il prete non seppe che dire, e fece quello che al Re piacque. Intanto S. M. conchiuse col Bogino il suo discorso in questo modo: So che voi lavorate molto, anzi troppo; badate a curar la salute, a darvi qualche ricreamento. Comprate una vigna sulla collina; andatevi a dormir la sera, tornate in città la mattina. Un po’ d’aria pura e il moto bastano a mantenervi in ben essere. Fate queste gite a cavallo. Il cavalcare giova grandemente alla sanità. Spenderete la tal somma in un cavallo. Tanto per fieno e biada. Tanto per fornimenti. Colla provvigione che avete potete farlo.3

Niun mercatante intendeva meglio l’economia e il prezzo delle cose che Vittorio Amedeo ii.

La profezia del Re s’avverò. Bogino fu ministro, ed ebbe gran parte in tutti i provvedimenti che onorarono il regno di Carlo Emmanuele iii, e massime in quelli mercè i quali la Sardegna fu tolta alle tenebre dell’ignoranza, e di spagnuola che era, restituita all’Italia.

Il conte Bogino beneficò anche dopo morte lo Stato, lasciando nel conte Prospero Balbo, suo figliuolo d’adozione, chi degnamente lo rappresentava. Imperocchè non meno altamente di Bogino egli [p. 733 modifica]sentiva nelle dottrine politiche; non era punto men nobile e dilicata, scevra di rispetti umani e costante l’indole sua; ed avea di più maggior dolcezza di modi e copia di dottrina, senza comparazione, maggiore.

Ma la prepotenza dei tempi non permise che tale e tanto ingegno portasse frutti corrispondenti alla sua virtù; sebbene l’opera sua ed il suo consiglio abbiano giovato assai; e quando ambasciadore presso al direttorio ritardò (altro non potendo) la caduta della monarchia; e quando, rettore dell’università di Torino, prepose all’insegnamento uomini scelti tra i migliori per dottrina e per bontà di costumi, e riaperse con gran coraggio l’insegnamento teologico, mentre ancora passeggiavano trionfanti per le strade l’empietà e l’ateismo; e ricompensò molti di quelli che poco prima erano perseguitati e carcerati per la fede e la devozione ai loro legittimi re; e riaprì la cappella dell’università e vi deputò un sacro oratore (Sineo), dalle cui labbra pura ed eloquente, e piena di dolci attrattive scendea la sposizion del Vangelo; e quando, presidente capo di questa stessa università che ben poteva chiamar sua figlia, di nuove cattedre l’otteneva decorata d’Economia pubblica, d’Antichità, di Paleografia; e ne celebrava la centenaria fondazione con una esposizione di belle arti non mai qui per l’addietro veduta; e quando, ministro dell’interno, in men di due anni di ministero, preparava la riforma della legislazione, secondo il disegno di que’ codici [p. 734 modifica]francesi, che mutando un centinaio d’articoli, e un altro centinaio aggiungendone, avrebbero potuto e dovuto conservarsi nel 1814 e adattarsi ai nostri bisogni, alle migliori condizioni della scienza idraulica in Italia, ai maggiori progressi della civiltà; e quando cominciando dalla parte che avrebbe veramente dovuto precedere ad ogni altra, faceva approvar dal re Vittorio Emmanuele la legge organica e le basi di tutta la legislazione, che sarebbe stata pubblicala sol che fosse stata ritardata di pochi giorni la rivoluzione puerile ed imbelle del marzo 1821, seppure può chiamarsi rivoluzione; e quando, presiedendo una sezione del Consiglio di Stato, continuava a proclamare i più giusti principii economici, alla luce dei quali appena adesso si comincia ad aprir l’occhio; e quando e come privato, e come Presidente dell’Accademia delle scienze, e com’uomo pubblico, in tutta l’operosissima sua vita, si faceva agli amici, ai discepoli, ai giovani, che davano qualche indizio di virtù, insegnatore, propagatore degli ottimi principii. morali e politici, di pensieri generosi e liberali, d’un santo ardor di giustizia, d’affetti caldi di patrio amore, lontani da ogni grettezza, da ogni intolleranza, da ogni spirito di setta, riputando tutte perniciose le società segrete anche instiluite a fin di bene, poichè in quanto a religione ogni slromento di perfezione e di progresso trovasi nella Chiesa cattolica romana; e in quanto a governo; in niuno teneva potersi più facilmente conciliare la [p. 735 modifica]giusta e tranquilla libertà coll’esercizio del potere, il ben essere materiale col sentimento d’onore e di amor patrio, come nelle monarchie temperate. Il bene pensava egli doversi pocurare per vie aperte, colla persuasione e non colla forza, perchè la verità è tal diva, che il suo culto più s’abbella e più cresce, quanto più è palese, ed ha per degna lampa il sole; e perchè ogni nazione ha un centinaio o un migliaio d’uomini, la cui opinione, quando sia ben ferma, e altamente professata, trae seco le opinioni di tutti, dico di quelli che sono in grado d’averne. E quel centinaio o migliaio di cittadini sa distinguere il vero bene dall’apparenza del bene, e quando l’opinione dei principali e più virtuosi e più esperti cittadini si presenti densa, uniforme, costante agli occhi dell’autorità, intorno ad un miglioramento da introdurre, ad un male da schivare, un governo che non sia cieco, non indugia troppo a dare a questa opinione la sanzione di legge. Quest’uomo sommo che io venero come padre, e che pel corso di quindici anni mi fu quasi quotidianamente amorevole guida e maestro, morì il 14 marzo del 1837; ma di lui rimane per conforto di tanta perdita e per onor delle lettere Italiane, il mio amico e collega conte Cesare Balbo.

Il palazzo de’ marchesi San Giorgio, rifatto dal conte Ignazio Alliaudi Baronis di Tavigliano che fu discepolo del Juvara, e recentemente ornato di’ facciala, è memorabile, come abbiam detto, perchè ivi [p. 736 modifica]ebbe dimora e mancò di vita il conte Bogino. Richiama esso ancora un’altra memoria, poichè fu stanza di Giuseppe ii, quando venuto nel 1769 a Torino, destò la pubblica curiosità non solo per l’altissimo suo principato, ma per la singolarità di sua persona, andando attorno in abito dimesso, coi proprii capelli appena impolverali, mentre tutti usavano coprirsi d’enormi parrucche incipriate, e vestir abiti pomposi. Il Re suo zio fe’ aprire in onor suo il gran teatro, gli mostrò privatamente la S. Sindone, gli fe’ veder soldati e fortezze.

I due principi erano ambedue riformatori; ma Carlo Emmanuele era un riformatore misurato e lento, che adattava le riforme ai bisogni ed ai desiderii della nazione. Giuseppe ii, un riformatore precipitoso che precorreva d’assai tempo l’opinione pubblica, non si curava d’andar a salti, dal proprio cervello, e non dai desiderii de’ popoli misuravane l’opportunità, ed infliggeva le sue riforme allo Stato collo stesso vigore con cui avrebbe inflitto un gastigo; nondimeno principe di gran mente, e d’ottime intenzioni, che era persuaso di poter educare il popolo con una legge, di abbatterne l’ignoranza con un rescritto; senza pensare che l’educazione dei popoli è lenta, e che la pubblica opinione si può qualche volta ed anche si dee prevenire dai legislatori, quando appena comincia a formarsi, ma non si può creare ad un tratto per virtù d’un decreto imperiale.

Note

  1. [p. 741 modifica]Notizie favoritemi dalla molta cortesia dell’eccellentissimo sig. conte di Sonnaz, gran mastro della Real Casa, vedovo d’Enrichetta Graneri, ultima di quella stirpe.
  2. [p. 741 modifica]Archivi di corte. Materie criminali.
  3. [p. 741 modifica]Questa conversazione mi fu più volte minutamente raccontata dal conte Prospero Balbo, di venerala e cara memoria, quale egli l’avea raccolta dalle labbra del conte Bogino.