Storia di Torino (vol 2)/Libro VI/Capo VIII
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Capo Ottavo
Nella strada della Posta s’erge l’Accademia Albertina di belle arti, dove è da notarsi la S. Anna, cartone di Leonardo da Vinci, restaurato dal professore Volpato; una raccolta di cartoni d’altri egregi autori dei secoli xvi e xvii; e la pinacoteca legata all’Accademia da monsignor Mossi di Morano.
La via del Cannone d’oro non ha memorie.
La via di Santa Pelagia s’intitola dalla chiesa di questo nome, costrutta nel 1770 sui disegni del conte di Robilanl. Vi era annesso un monastero di Agostiniane, fondato dalla pietà di alcuni cittadini nel secolo xvii.
Quando cessò d’essere uftiziata la chiesa di Sant’Antonio, fu allogata in Santa Pelagia l’opera della Mendicità instruita, il fine della quale si è:
1° Di dare ai poveri la religiosa istruzione, sovvenendoli contemporaneamente con danaro e pane.
2° D’ammaestrarli con apposite scuole ne’ primi erudimenti delle lettere.
3° Di far loro apprendere quell’arte per cui mostrano particolare attitudine ed inclinazione.
A Santa Pelagia conveniva il fior di Torino ad udir le prediche in dialetto piemontese del già lodato teologo Sineo, che qui abitava e qui morì.
Vicino a questa chiesa vennero, non ha molto, collocate le suore di S. Giuseppe, che si consacrano all’educazion femminile.
Nel sito dove ora sono le Rosine vedevasi lo spedale amministrato dai frati di S. Giovanni di Dio, chiamato ospizio del Santo Sudario.
Questi padri erano venuti da Milano ad offerirsi nel 1597, quarantasette anni dopo la morte del santo loro fondatore. La città li aveva accolti, ed avea fondato lo spedale. Doveva, secondo la regola di S. Pio v, esservi un solo sacerdote in ciascuno spedale, onde i frati potessero meglio attendere al pietoso uffizio d’infermiere. Molti di loro acquistavano eziandio profonde cognizioni mediche e chirurgiche, e si rendeano per più titoli benemeriti dell’umanità languente. Nell’isola di Sardegna i frati di S. Giovanni di Dio fondarono quasi lutti gli spedali, e conservarono lo spirito del loro instituto. A Torino pare che dopo la metà del secolo xviii il loro ministero più non riuscisse di pubblica soddisfazione, poichè Carlo Emmanuele iii li congedò, abolì lo spedale, e die la casa che occupavano a Rosa Govona.
Era questa una povera fanciulla di Mondovì, che ispirata dal Signore, e regolata dai consigli del venerabile padre Trona dell’Oratorio, avea nel 1742 ritirato in certe poche camere, in cui abitava, alcune figlie orfane, o nate di genitori che più non avean modo di nudrirle e di custodirle, indirizzandole nella via della pietà, e facendole applicare sì le une che le altre ai lavori, ai quali le conosceva più abili. Campavano le poverelle del prodotto di que’ lavori, giunto ad alcune poche limosine, che il detto padre Trona alle medesime procurava. Andossi mantenendo quell’opera così lodevolmente, che d’anno in anno crebbero le limosine, e crebbe il numero delle ricoverate a segno, che Rosa appigionò nel piano di Breo una casa capace di un gran numero di figlie, e nel 1752 cominciò a ritirare non solo fanciulle pericolanti, ma anche fanciulle già sviate e donne di cattiva fama, tenendole per altro in tre appartamenti separati.1
Rosa era agitata dal desiderio di propagare altrove un instituto, del quale avea colla sperienza di molti anni conosciuta l’utilità; onde venne in Torino nel 1755, ed ebbe ricovero in poche camere dai padri di S. Filippo. Ma il re già dal 1753 avea pigliato informazioni sull’opera delle Rosine, onde un anno dopo donò a Rosa Govona le case che aveano appartenuto ai frati di S. Giovanni di Dio. La prima parola che avea detto Rosa alla prima fanciulla che avea raccolta era questa: Mangerai del lavoro delle tue mani. Questo fondamentale precetto fu allora ed è sempre osservato, contenendo ogni casa di Rosine una o più manifatture ed opificii, comprendendo l’intero lavorio dallo sbozzare della materia prima fino all’opera perfetta.
Corse poi Rosa varie provincie, ed a Novara,2 a Fossano, a Savigliano, a Saluzzo, a Chieri, a S. Damiano d’Asti fondò simili instituti che tutti dipendono da quello di Torino, come da casa madre, e con esso corrispondono.
Non mancò a Rosa, per affinarne la virtù, il fuoco delle tribolazioni. Aveva essa un’indole alquanto risentita e sollecita che la spingeva continuamente all’operare; credevasi d’avere una missione da Dio, ed avea fede nella sua missione, e si credeva obbligata a compirla. E come potea non averla vedendo i frutti che la Divina Provvidenza avea per ministero di lei quasi miracolosamente prodotti, di lei meschina fanciulla, che ricca non d’altro che di santo zelo pel servizio di Dio, bisognosa di protezione, s’era fatta con tanto zelo guida e protettrice delle altre?
Quest’indole tumultuosa, quest’inquieta bramosia d’agire, questo avere sempre l’occhio e l’animo intento a cose nuove, dispiacquero al cavaliere Ferraris, segretario di gabinetto del Re, uomo onestissimo, e da principio tanto suo parziale, che Rosa andava tutti i venerdì a trovarlo, e stava a pranzo con lui. Ma era il Ferraris uno di quegli uomini di sangue freddo, che adoperano in ogni cosa la squadra; che seguono senza deviar d’un passo il solco che la burocrazia ha tracciato, quand’anche rovini il mondo; che non conoscono in ogni problema che una sola formola per risolverlo; che non sanno capire che le cose straordinarie si fanno per vie straordinarie e provvidenziali, non soggette al calcolo degli statisti; e che avrebbe pure dovuto comprendere, che se l’instituto di Rosa Govona si fosse dapprima intavolato a quel modo, non si sarebbe, come tanti altri della medesima specie, mai più compiuto, perchè l’operazione preliminare sarebbe stata quella di por mano ad un milione di lire, se si procedeva con mezzi umani.
La veemenza di Rosa Govona era ingrata ai nervi tranquilli del cavaliere Ferraris, il quale avrebbe voluto che Rosa, giunta a Torino, si contentasse di ciò che avea fatto, si sottoponesse a tutte le regole che i burocratici volevano imporle, nè più, nè meno, come se si fosse trattato dell’ispettor del Lotto, o del direttore della Dogana.
Non voglio dire con ciò che Uosa non avesse tra le molte sue virtù anche gravi difetti troppo consueti all’umana fralezza; ma dopoché nel 1759 questa fanciulla vedendosi por divieto d’accettar nel ritiro la contessa Pensa, nata S. Martino, virtuosa dama in cui sperava trovar chi le succedesse, ne fece risentimento col cav. Ferraris, questi non volle più vederla, non rispose più alle sue lettere, perseverò in una biasimevole durezza, pose in dubbio se fosse vero spirito di Dio quello che in lei parlava, affermando che la pace e la dolcezza del cuore e la perseveranza ne erano, secondo S. Francesco di Sales, i contrassegni: quasichè lo spirito di Dio non si fosse nei più gran santi in diversi modi, secondo la diversa tempera degli individui, manifestato, e quasichè il bene procurato in diciassette anni da una povera fanciulla senza mezzi non rivelasse abbastanza qual era lo spirito che in lei operasse.
Ma qual fosse il cuore di Rosa Govona lo manifesterà la lettera che scrisse il 4 dicembre 1759 al cav. Ferraris, e che rimase, come le altre, senza risposta.
Eccola:
Viva Gesù e Maria.
Ilustrissimo,
« Ero di sentimento di non più ricorrere da veruno, ma siccome mi sento come soffocata, finalmente ho risolto di dire a lui la mia tribolazione, perchè so che lui ha sempre lo stesso buon cuore che Iddio li ha dato per l’opera a ciò mi aiuti nelle tribolazioni in cui mi trovo, la maggior tribolazione che abbia mai avuto in diciassette anni che travaglio per i poveri. Io da me non voglio lasciare, perchè mi sono impegnata a Dio con voto; eppure non posso andare inanzi perchè sono impedita: a restarmene così è un stato così violento che vedo che non la posso durare: io credo di averlo altre volte detto a lui che il mio fine non è di solamente operare, ma di amare. La vista dell’amore fu la causa del mio operare. Conosco che fin ora non ho fatto niente e dinanzi a Dio vedo e sento quel molto che egli vorrebbe e che io devo fare e potrei fare per suo servizio. Ma se non posso operare secondo il disegno che Iddio mi ha inspirato e servendomi dei mezzi che la sua amorosissima provvidenza mi mette in mano, io mi sento come a tirar fuori de la strada in cui Iddio mi ha messa e sono come una figlia che è messa a fare il bindello che se li tagliano i fili della trama, allora non puole più andare inanzi nel suo lavoro; così sono io già che non posso servirmi delle persone che il Signore li ha dato lo spirito dell’opera per aiutarmi: resto indebolita di spiriti e non mi posso promettere di fare quello che ho promesso di fare perchè mi sono levali i mezzi disposti dalla provvidenza per poterlo fare: voglio dire, che per fare quello che Iddio mi ha mostrato che vuole da me devo andare in tutto secondo Dio; e se non posso andare in tutto secondo Dio non posso più fare quello che Iddio voleva da me; per un altra parte mi sento nel core che Iddio vuole anche adesso la stessa cosa. Mi dicono che in questo sono ingannata e che devo levarmi dalla testa che tutte queste cose vengano da Dio, Ma se sono ingannata adesso dunque lo sono sempre stata perchè da principio sino a quest’ora ho sempre avuto il medesimo sentimento; eppure lui sa quante volte che temevo di essere ingannata mi ha assicurata e mi ha fallo coraggio a operare così: se allora non ero ingannala ne meno lo sono adesso. Mi sono consultata per assicurarmi e per non mancare alla mia conscienza con altre persone che credo illuminate da Dio e tutti mi dicono come mi diceva lui. Ora veda come posso levarmi dal mio sentimento senza andare contro Dio. Posso lasciar di fare; e se così vogliono assolutamente, quanto al non fare di più, io sono contenta e tranquilla mentre mi pare di essere sicura di non aver in questo nessuno impegno mio naturale. Ma se posso lasciar di fare, come ho già lasciato di fatti non posso però lasciar di vedere e di sentire quello che vedo e sento: sento che Iddio lo vuole e potrei fare di più e vedo che tutto quello che mi hanno permesso con la -gratta di Dio tutto è riuscito: se dopo aver fatti esaminare i miei sentimenti da persone di Dio non fosero trovati secondo Dio io sarci prontissima a deporti subito e non pensarvi mai più; anzi se senza aver mancato io, mi leuassero da tutto come possono di autorità assoluta e così non potessi più far niente del tutto io son prontissima a lasciare in un momento tutti i ritiri e tutte le creature; e assicurata che Iddio non volia più servirsi di me o Dio caro Signor cavaliere allora sì che la povera Rosa giubilerebbe di potersi dar tutta sola a Dio solo e al solo suo amore! Ma sentirmi come mi sento e fare quello che faccio o Dio che martirio! Io non mi lamento ma mi sfogo un poco con lui che può intendere la mia pena. Ora per ubbidire io mi vado restringendo e per far luogo alle esposte che vengono devo mandarne via di quelle che avevo preso abbandonate: le esposte anderanno crescendo benchè non sieno secondo la mia prima idea; cosa ho da fare, me lo dica per carità; se io potessi far tutto io mi sento coraggio come prima per tutte e vedo che di fatto il Signore mi aiuta perchè avendone di quattro classi nel ritiro, delle pericolanti, delle cadute, delle esposte, e delle civili tutte riescono e prendono spirito; ma se vogliono che mi restringa a una cosa sola cosa ho mai da fare e quali ho da prendere? Le povere che sono abbandonate io non le posso lasciare e così mi terrò a queste sole e farò quel che posso fin che vivo e non penserò più al avvenire. Ne patirò ma pazienza: forse il Signore mi farà finire più presto; basta che se le cose non vanno innanzi e non si stabiliscono io non abbia da rendere conto a Dio non sia stato per mia colpa se non è fatto quel bene che sicuramente si può fare. Chi ha da pensare vi pensi, perchè questa non è causa mia ma dei poveri e di Gesù Christo; ma intanto bisognerà che pensino a dare qualche provvedimento: io sono pronta ugualmente e a lasciar tutto e a far tutto perchè quello che veramente voglio niuno non me lo può impedire; perchè non voglio altro che croce e amore. Fin che posso voglio sacrificarmi alla croce; quando non possi più mi sacrificherò all’amore; vorrei tutto insieme ma luno o laltro non può mancarmi. Viva Gesù Crocifìsso. Lui io lo guardo sempre come quando abbiamo uniti i nostri cuori per la sua gloria e al suo amore e lo prego sempre che li dica al cuore quelo che io non saprò dirli bene per farli intendere il mio afflittissimo cuore che è tutto croce ma non è ancora amore; lo lascio nelle santissime piaghe di Gesù. »
Sua indegna serva
Rosa Govona.3
Questa illustre e pia donna, benefattrice singolar del Piemonte, morì d’anni 60 addì 28 di febbraio del 1770, ed è sepolta nella chiesa delle Rosine accanto all’altare.4
Le strade che seguono e che s’aprono a destra e sinistra della piazza Vittorio Emmanuele, non hanno ancora memoria per cui sien degne d’essere qui ricordate.
Note
- ↑ [p. 753 modifica]Lettera del prefetto del Mondovì del 1753. Archivio di corte.
- ↑ [p. 753 modifica]Quello di Novara più non esiste.
- ↑ [p. 753 modifica]Dall’Archivio di corte.
- ↑ [p. 753 modifica]Una mano maestra ha descritto la vita di questa benefattrice della umanità negli annali della società francese Monthiou e Franklin.