Storia di Torino (vol 1)/Libro V/Capo IX
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Capo Nono
Ragione con cui si governava il comune verso al principe.
Frattanto noi ricorderemo in breve alcuni dei conflitti che segnalarono questi periodi di transizione, ne’ quali conflitti non v’ha dubbio che la lettera e l’intenzione di quel contratto che regolava i rispettivi diritti erano molto spesso dal principe conculcati. Se non che alcuna volta violavasi una legge privata ed umana, per servire a quelle leggi eterne ed universali di morale e di giustizia, che Dio ha stampate nel cuor d’ogni uomo, e delle quali i sovrani debbono essere i primi vindici e custodi.
Non mi soffermerò a parlare delle cagioni di contrasto, cui dava luogo il citarsi, contra i privilegi, alcun Torinese innanzi al principe od al suo consiglio; il sostenersi in carcere quand’era pronto a dar cauzione; il francarsi, nell’occasione in cui qualche terra si rendeva alla divozione de’ principi di Savoia, tutti i borghesi di quella dai pedaggi per tutto lo Stato, col che veniva il principe a disporre di cosa non sua. Tacerò ancora de’ precetti con cui si violava la libera elezione degli ufficiali del comune, e parlerò solamente dei contrasti cui davan luogo il servizio militare ed i sussidi, procedendo per via d’esempi scelti fra molti.
Nel 1329 Filippo, principe d’Acaia, avea guerra con Federigo di Saluzzo e col re Roberto.
A’ 4 di maggio il comune di Torino ricevea un messaggio del seguente tenore: « Vi significhiamo che Federigo di Saluzzo questa notte, colle genti regie, entrò nella terra di Saluzzo, dove combatte di continuo e s’afforza conira le genti del signor marchese.
« Perciò comandiamo che le milizie di Torino si rechino a Villafranca il giorno di domani, con divieto a tutti quelli che hanno forza di portar armi di rimanersi; il che domandiamo, tanto come debito che come grazia: portando provvigioni per giorni dieci. Dicasi a nome nostro al vescovo di Torino che mandi le sue genti ».
Si fece in conseguenza di tal ordine esercito generale, e si comandò che i tribunali pigliasser vacanza.
A’ 9 di giugno si dovette fare altro esercito generale per giorni dieci. Ma la vigilia della partenza il principe comandò andassero i soli cavalli, il popolo stesse a casa (et populus remaneat).
A’ 24 dello stesso mese il principe raccontava in sue lettere che il siniscalco regio faceva il suo esercito di cavalli e di fanti a Cherasco, preparandosi ad invadere il suo Stato, al quale egli intendeva, colla guida di Cristo, di resistere pienamente, e però comandava di nuovo che tutti partissero.
A’ 10 di luglio il principe, essendo a Moncalieri, dava ordine verbale ai Torinesi di far nuovo esercito generale per tre giorni. Due giorni dopo volea esercito generale per giorni quattro, e volea che tutto lo sforzo giungesse a Carignano il 14.
A’ 28 il principe scriveva al comune: essere il siniscalco entrato a Sommariva di Perno, apparecchiarsi ad espugnar quel castello; perciò dava precetto ai Torinesi di marciar tutti e di raunarsi il 3 d’agosto a Carignano, fatto divieto ad ogni persona abile all’armi di rimanersi, o di mandar altro in suo luogo, a pena di 25 lire per ogni cavallo, di lire 10 per ogni fante che non obbedisse, con deroga per quel caso ad ogni grazia o privilegio, e con minaccia d’indegnazione perpetua.
A’ 17 d’agosto giunse un altro precetto d’andar con lo sforzo a Cavorre per giorni dieci.
A’ 31 d’agosto nuovo comando di marciare con fornimento di giorni venti e più.
In tutti questi casi il comune obbedì senza contrasto, ed io li ho esposti distesamente affinchè si veda quanto misera, agitata ed incerta fosse in tempo di guerra la condizione d’un comune suddito, nel quale anche più volte al mese là città dovea vuotarsi, dovean cessare i tribunali e le arti, mentre il popolo andava a questa o a quella impresa. Se in tali guerre un cittadino era preso, il ricomperarlo era carico e sollecitudine del comune e non del principe.1
La straordinaria frequenza di queste così incomode chiamate all’armi fece nascere il pensiero d’assoldar milizie, e di spedirle in luogo dell’esercito generale e particolare ai servigi del principe.
Nel 1339 s’accordò di dare al principe 200 clienti; ma poi essendovi gran difficoltà a trovarli, si supplicò Giacomo, allora occupato a ricuperar Rivarolo, che gli era stato tolto poco prima dai Monferrini, si contentasse che andasse in oste un solo quartiere della città. Ma venner lettere molto precise col pre cetto d’andarvi tutti.
Nel 1348 a’ 16 febbraio il principe domandava, di grazia speciale, trenta cavalli che lo servissero per cinque mesi, nel caso in cui si rompesse guerra tra lui ed il marchese di Monferrato. Il comune condiscendeva. Ma a’19 di marzo domandava cento clienti, al ventitré giugno chiedeva esercito generale.
A’ 23 d’aprile del 1353 il principe domandava che i Torinesi concorressero con Moncalieri, Carignano, Vigone ed altri comuni a mantener tre bandiere di cavalli per sei mesi. Il comune consentì per due sole bandiere e per tre mesi, con patto che il principe gli desse il possesso d’alcuni terreni, per cui v’era contestazione con Bonifacio di Cavoretto.
Dopo la morte di Giacomo d’Acaia, Amedeo vi, detto il conte Verde, come tutore de’ pupilli governò il Piemonte, nel qual tempo il suo consiglio risiedette spesso a Rivoli ed a Torino. Nel 1572, addì 20 d’aprile, il conte era a Torino e chiedeva esercito generale contro al marchese di Saluzzo ed ai Visconti, essendo egli capo di quella famosa lega che doveva attutare l’orgoglio de’ signori di Milano. Il comune nominava due ambasciadori a pregarlo si contentasse della metà dell’esercito, cioè di due quartieri della città, secondo l’accordo.
In maggio Inghiramo, sire di Coucy, nipote del conte Verde e suo luogotenente generale, ordinò ai Torinesi di mandar tutto il popolo all’esercito, sperando di poter presto operare qualche rilevata fazione. Il comune concedette solamente, di grazia speciale, venticinque clienti per venticinque giorni, pregando il sire di Coucy che volesse degnarsi di contentarsene. Sul finir di quel mese intendeva il Coucy d’andar a campo a Carmagnola, e nuovamente intimava ai Torinesi di far esercito generale. Il comune diè quaranta clienti per dieci giorni.
A’ 16 di giugno scendeva il conte Verde a Rivoli e di là comandava ai Torinesi di spedirgli due ambasciadori con ampie facoltà. Il comune deputò due ambasciadori per udire e riferire. Tornarono e dissero che il serenissimo conte volea gli si mandassero due deputati con ampio mandato di consentire cogli altri comuni a concedergli il servizio di 2000 briganti. Il comune mandò due ambasciadori investiti della facoltà di esporre le miserie e i gravami pubblici. A’ 26 dello stesso mese il conte Verde intimava ai Torinesi di trovarsi in termine di sette giorni a Chieri, con tutto lo sforzo. Il comune nominava altri ambasciadori a gridar miseria e mercede; e di grazia speciale concedeva 50 briganti per 15 giorni.
Nel 1395, in novembre, ad una domanda d’uomini d’armi fatta da Amedeo d’Acaia, la città di Torino rispondeva che avrebbe provveduto quando il principe avesse conceduto i due capitoli da lungo tempo desiderati, l’uno sui pascoli, l’altro sui commissari. Il 7 di gennaio successivo concedeva dugento clienti, ma col patto che non si mandassero se non dove ordinerebbe il maggior consiglio. Era il tempo della feroce invasione di Facino Cane.
E senza moltiplicar di soverchio gli esempli di questa lotta continua, nella quale il conte ed il suo consiglio, a stimolare la tarda obbedienza del comune, usavano impor pene, e cominciar inquisizioni, passeremo ad osservare che la medesima cosa succedeva in quanto al sussidio ed alle leggi.
Era il sussidio un dono straordinario che il paese faceva al principe per caso di guerra o d’altra spesa straordinaria, come per venuta dell’imperatore, pel matrimonio della figliuola, per la festa del cavalierato, per l’acquisto di novello Stato. Chiedevasi e consentivasi colla clausula di grazia speciale, perchè non era di stretto obbligo, ma bensì d’antica e cortese consuetudine. Il principe lo domandava o in somma capitale determinata, o a tanti fiorini per fuoco, sopportando il ricco la parte del povero (juvante divite pauperem). Prima cura della città era di riconoscere qual somma concedevano gli altri comuni coi quali credea di potersi paragonare. Poi s’ingegnava con buone parole e molta industria di dare il men che poteva.
A’ 16 di giugno del 1376 il conte Verde era a Torino, e chiedeva di grazia speciale tre fiorini per fuoco. Parve grave al comune, onde nominò otto deputati colla facoltà di convenire col consiglio del signor conte la concessione d’un sussidio più adattato alla sua possibilità.
Ai ventitré dello stesso mese i deputati riferivano ai savi del consiglio maggiore di non aver potuto ottener grazia d’un obolo (nullam graciam minus trium florenorum pro quolibet foco invenire potuisse). Onde, sebbene a malincuore, pur dovette il comune disporsi a concederlo. E però si vede quanto vana fosse la formola adoperata nel chiedere e nel consentire, se il principe comandava e il comune non poteva o non osava negare.
L’anno seguente finì la tutela del principe Amedeo d’Acaia. Il conte Verde lo accompagnò fino a Rivoli, e siccome le finanze del nuovo signore erano in cattivo stato, il Piemonte gli assegnò un dono di sessantamila fiorini buoni, de’ quali toccava a Torino la sesta parte. A’ 21 dicembre, non essendosi dai Torinesi pagato il primo termine, il principe di Acaia, che non amava andar per le lunghe, ordinava al vicario di porre in arresti il consiglio del comune finché avessero soddisfatto il loro debito. Molte altre volte adoperarono i principi d’Acaia e di Savoia simile argomento onde muovere a maggior vivezza il comune e ne) fortificar la città, e nel far esercito; più spesso nel riscuotere da’ cittadini, e recare alla cassa del principe il sussidio, che allora cominciò a chiamarsi tasso;2 ed una volta fu Ludovico d’Acaia tanto avventato e così poco misurato da tra scorrere ad adoperarlo in favore del proprio cuoco.3 Con maggiore ingiustizia il principe Giacomo aveva ordinato nel 1346 al vicario di Torino di domandare al prestatore di Torino trenta fiorini d’oro de’ quali avea sommo bisogno; ed in caso di rifiuto di serrarne e sigillarne il banco.
Ludovico, ultimo principe d’Acaia, nel tempo in cui la sua sanità notevolmente affievolita ne inaspriva il carattere, si dimostrò assai duro co’ Torinesi. A’ 21 dicembre del 1416 essendosi sparsa la voce di sua morte, il consiglio elesse, secondo l’uso, tredici savi che provvedessero a far buona guardia, onde cansare i pericoli che le mutazioni di signoria erano solite addurre. Pochi giorni dopo il principe fece porre in arresto l’intero consiglio per aver fatto provvisione sul supposto di sua morte. Quasichè egli non fosse mortale. Ed il consiglio non potè far altro che protestare di gravame e d’oppressione. Poco dopo nata questione per le spese dell’università, i Torinesi mandarono dicendo al principe provvedesse egli di suo proprio danaro le case per lo studio, e i banchi per le scuole. Ludovico fe’ carcerare i deputati. Infine in settembre del 1418 il consiglio era in arresto pel ritardato pagamento del sussidio. Ma tre mesi dopo finiva in Torino la linea d’Acaia colla morte del principe addì 12 di dicembre.
Non sempre per altro erano così spiacenti le corrispondenze del principe e del comune. Quegli si ricordava alcuna volta che la parola cortesia nacque da corte. O piuttosto se ne ricordavano i suoi consiglieri e segretarii, i quali avendo l’incarico di vestire la parola del principe, non di rado la travestivano e la travisavano.
Già nel 1378 e 1379 s’era chiesto al comune di Torino un aiuto di soldati per servire nella guerra che il primogenito d’Amedeo vi, chiamato Amedeo Monsignore, avea col sire di Belgioco; e, trattandosi di cosa affatto contraria ai privilegi ed agli usi della città, di spedir cioè le milizie cittadine non solo al di là dai monti, ma fin sulle rive dell’Eno, il comune se n’era scusato. Finalmente in marzo del 1380 avea dato venti clienti.
Rinnovò la richiesta quel gran principe e capitano, per sue lettere del 6 d’aprile dell’anno medesimo, protestando: di non domandar quell’aiuto per bisogno che ne avesse, ma sì per desio d’onore, poiché avrebbe voluto che quella nobile ed onorata milizia, che da rimote parti converrebbe per servire ad Amedeo Monsignore ed a lui, potesse vederlo da’ suoi sudditi e fedeli onorevolmente accompagnato.
Ad una richiesta fatta con tanta grazia, rispose il comune come sempre rispondono i popoli, quando il principe avveduto ne va sollevando gli affetti più generosi, e diè facoltà ad alcuni savi di spendere quanto occorreva per farsi onore.
Ott’anni dopo il principe d’Acaia era in guerra con Gian Galeazzo Visconti. Buccinavasi in gennaio del 1388 che vi fossero pratiche d’accordo. Il comune di Torino gli mandò a dire: Faccia la pace, se può farla con onore; se non può, si provvederà per la difesa e per l’onor suo contra la superbia del Visconti; essendo la stessa comunità apparecchiata a sostenere e difendere i vantaggi e l’onore del principe, secondo le proprie forze, fino alla morte.
Ecco esempi che consolano in mezzo a quel giostrare continuo, effetto di reggimenti politici che più non s’accordavan coi tempi. Intanto per altro le finanze de’ principi andavansi sempre più disordinando, e si venne al brutto spediente d’impegnar gli uffici. Nel 1382 la vicaria di Torino era impegnata a Ferrino Malabaila d’Asti per tremila fiorini. Con qual coscienza reggessero colesti uffizioli creditori del principe, non saprei dirlo.
Nelle guerre civili, minorità, reggenze che afflissero la monarchia di Savoia nel secolo xv, si provò un altro rimedio, e fu d’appaltare gli uffici al miglior offerente. Nel 1483 il nobile Carlo d’Arcour, scudiere, ebbe la vicaria di Torino con tutti i suoi proventi per l’annuo censo di 2m. fiorini di Savoia. Ma per buona sorte vegliava sull’interesse delle finanze la Camera ducale, la quale non ammise quel contratto, se non in quanto sarebbe utile al principe, veduto che avesse il conto de’ proventi. Ma lasciando questa materia passiamo ai contrasti cui davan luogo le leggi generali.
Ciascuna terra avendo i suoi statuti, ossia le sue leggi particolari, di rado accadeva che il principe deliberasse di far leggi generali. Puré alcuna volta ne promulgava o per reprimere il lusso, o per determinare come e qual moneta si spendesse, o in materia d’annona, affin di vietare o permettere l’estrazion del grano. Ma prima di farlo chiamava a sè i deputati dei comuni, e con loro e co’ dottori del suo consiglio consultava. Nel 1328 convennero i deputati dei comuni di tutta la patria, cioè di tutto il Piemonte a Pinerolo, e s’occuparono d’una legge suntuaria che non è a noi pervenuta. Ma nel 1391 volendo il principe vietar negli abili l’uso dell’oro, dell’argento, de’ vaj, e d’altri arnesi ed ornamenti di caro pregio, ed avendone scritto la sua intenzione al consiglio di Torino, il medesimo rispose deliberando « che ciascuno sia libero e franco di portar perle, oro, argento, ed altri ornamenti, siccome è usanza della città, uomini e donne, cittadini e abitanti ».
In fatto di monete gli abusi eran grandi; e dopo il reo esempio dato da Filippo il Bello, re di Francia, niuno si vergognava di coniar monete di valore molto inferiore al valor nominale, rubando con sì malvagia baratteria i popoli, e assassinando il commercio; e si vietava l’uso di monete straniere migliori spesso delle nazionali, e però più ricercate.
Nel 1527 Filippo d’Acaia chiedeva ai Torinesi qual provvisione fosse da farsi in fatto di monete. Risposero: per lo migliore consigliamo che non si faccia nulla.
In gennaio del 1580 Amedeo d’Acaia e il conte Verde vietarono si spendesse moneta straniera. Il consiglio protestò solennemente che non ade riva a quel decreto, e che bisognando n’avrebbe appellato. Di fatto i principi si contentarono di vietare quelle del Monferrato.
Si pubblicarono tuttavia senza contrasto i prudentissimi statuti generali d’Amedeo viii nel 1434.
Note
- ↑ [p. 437 modifica]Nel 1333 il comune mandò deputati a S. Giorgio prò redemptione hominum Taurini qui capti fuerunt. — Lib. consil.
- ↑ [p. 437 modifica]Lettera del 9 gennaio 1378 scritta dal principe d’Acaia a Filippo di Savoia, signor di Collegno, vicario di Torino, ed a Surleone di Mezzabarba, giudice: Mandamus vobis quatenus vini presentibus consilium civitatis Taurini arestetis et arestatum teneatis quamdiu ordinauerint cum effectu quod pecuniam taxi nobit debiti per dictam comunitatem infallibiliter habeamus. — Lib. consil.
- ↑ [p. 437 modifica]
PRINCEPS ACHAYE.
Salute premissa, mandamus tibi et expresse iniungimus sub pena nostre indignacionis, quatenus consilium comunitatis Taurini arrestes et teneas arrestatum continue donec solverint dilecto fideli magistro coquine nostre Philippo Alardi assignationem centum et quinquaginta florenorum sibi per nos novissime factam, sic quod ab eo ulterius ex hoc non recipiamus querelam. Vale.
Dat. Pinarolij, die xxvi februarij (1417).
Dilecto fideli locumtenenti vicarij nostri
Thaurini Justino de Guaschis.