Storia di Torino (vol 1)/Libro III/Capo II

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Capo Secondo


Amedeo iii, conte di Savoia, s’insignorisce di Torino verso il 1130. — Sue discordie coll’imperatore Lotario. — Barbarossa, suo di­sprezzo pe’ dritti acquistati. — Doni e privilegi da lui conceduti al vescovo di Torino a pregiudizio de’ terzi. — Lega de’ Torinesi coi marchesi di Romagnano. — Guerra civile nel 1191 tra i cittadini ed il vescovo. — Pace del 1195. — Guerra con Chieri e Testona. — Pace del 1200.


Abbiam parlato finora d’un comune liberò, cioè di quello che non riconosceva altra superiorità che la imperiale: ma spesso o per via di conquista, o di propria volontà, per attutare le intestine discordie recavansi i comuni od a tempo, o per sempre alla divozione d’un principe. La costituzione comunale e l’autonomia rimaneano intatte. Nè altro per l’or­dinario v’era di mutato, se non che il podestà era proposto dal comune ed eletto dal principe; e que­sti avea ragion di chiedere una certa quantità di tributo in somma, ed ai tempi determinati, ed un [p. 192 modifica]numero di fanti e di cavalli, similmente in numero ed al tempo convenuto.

Più spesso ancora accadde che, prevalendo come più perfetta l’idea dell’ordinarsi a comune, ed es­sendone universale il desiderio, il principe, parte a prezzo d’oro, parte ancora per evitar moti popolari, o per sedarli se già eransi sollevati, largisse alle città e terre suddite il privilegio di reggersi a co­mune; e ciò con maggiore o minor larghezza, se­condo che si trattava di città nobili e popolate, e meglio ancora di città trafficanti e marittime in cui fu sempre più vivo l’amore ed il bisogno d’indipen­denza; o di picciole terre mediterranee.

La città di Torino si rimase libera da ogni sog­gezione principesca fin verso il 1130. A quel tempo Amedeo iii, conte di Savoia, bisnipote della contessa Adelaide e zio di Ludovico il giovane re di Fran­cia, se ne insignorì, e in diploma del 23 d’agosto 1131 pigliò il titolo, datogli anche dagli storici con­ temporanei, di conte Torinese. Questo principe ri­cevette sotto la sua protezione la badia di S. Solutore, confermò i doni fatti alla medesima da’ suoi prede­cessori in Giaveno, Col S. Giovanni, Coazze e Cunzano, rinunziò a tutte le usurpazioni che alcun suo visconte o gastaldo avesse fatto ne’ luoghi predetti e le vietò per l’avvenire.1

Pochi anni dopo cambiaronsi le sorti di Torino. Amedeo in essendo nemico a Lotario, che dal ducato [p. 193 modifica]di Sassonia era nel 1126 dopo la morte d’Arrigo v stato sollevato all’imperio, la città di Torino e molte terre e castella del dominio di Savoia furono assai maltrattate dalle anni imperiali. Amedeo non avendo forze bastanti per-resistere a quell’urto, si ritrasse probabilmente in Savoia, e Torino, ridive­nuta libera e devota a Cesare, ottenne per inter­cessione dell’imperatrice, con diploma dato al castello di Sta Maria presso a Borgo S. Donnino nel 1136, la confermazione di tutti i privilegi che Arrigo v avea concesso o confermato ai Torinesi; volendo, così il diploma, che, secondo il diritto loro creato ab antico, godessero la medesima libertà che gode­ vano le altre città d’Italia, salva in tutto la ragione dell’impero, o di quel conte a cui Cesare avrebbe commesso le sue veci.

Questa seconda condizione scemava d’assai il va­lore del beneficio precedente. Non è poi noto se cotal clausola si riferisse al conte di Savoia, e se questi abbia ricuperato un’altra volta il perduto dominio della città di Torino.

Ad ogni modo se pervenne a ricuperarlo, non pare che lo conservasse lungo tempo, sia perchè fu spesso impacciato in guerre oltramontane, sia perchè presela croce e andò due volte a Gerusa­lemme, la prima pellegrinando, la seconda con Luigi vii suo nipote e coll’esercito de’ crociati, i cui infelici successi amareggiarono gli ultimi tempi [p. 194 modifica]del viver suo, essendo morto a Nicosia di Cipro mentre tornava in Occidente nell’anno 1148.

Nè potè racquistare la signoria di questa bella città Umberto iii succeduto al padre in tenera età, il quale dall’indole propria e dalla tutela del santo vescovo Amedeo d’Altariva non attingeva spiriti bel­licosi, se non quanto era indispensabilmente richie­sto al suo dover di sovrano; e che cresciuto in età non fu mai molto accetto all’imperadore Fede­rigo Barbarossa, principe d’ambiziosi e smisurati concetti, di volontà assoluta e d’indole in somma troppo aliena dalla sua.

Questo monarca era uno di quelli i quali non ammetteano prescrizione fuorché per le tasse fiscali le quali, una volta introdotte con ragione precaria e per un momentaneo bisogno, mettean radice e duravano perpetue; ma che in quanto alle libertà, agli acqui­sti, alle prerogative de’ popoli negava ogni autorità al trascorso del tempo, ai fatti quietamente consu­mati per l’incessante progredir del pensiero, a cui segue più o men lento, ma inevitabile, l’alto con­forme; e con uno squillo di tromba ed un bando si pensava di poter richiamar le cose allo stato in cui erano uno o due secoli prima. Per tener dietro a questo vano concetto si diè ad abbassare i grandi comuni, a favorire i piccioli, a spogliare i principi che possedeano terre o castella che aveano ap­partenuto alla Chiesa, e ad investirne i vescovi, dei [p. 195 modifica]quali per la natura elettiva dell’ufficio meno adom­brava.

Note sono le conseguenze di questo sistema. Due antipapi creati e mantenuti dal favor imperiale contro al vero pontefice, la distruzion di Milano, la lega delle città Lombarde formatasi a difesa della libertà d’Italia contra l’avarizia e la crudeltà Tedesca, in fine la gloriosa battaglia di Legnano (1176) in cui la croce e il carroccio delle città confede­rate volsero in fuga le aquile delle legioni impe­riali; onde s’aperse la via alla pace di Costanza per cui Barbarossa pose il suo suggello al fatto preesi­stente della libertà Italiana (1183).

Il periodo d’anni ventotto che trascorsero dalla prima venuta di Barbarossa in Italia fino a questa pace fu pieno di varii successi, trionfando or l’una or l’altra parte, ora dandosi alla fuga, or pigliando aspre vendette l’imperatore; e secondo cotali al­terni trionfi, le paure, le passioni, le gelosie, la necessità del momento, accostavansi alla lega Lom­barda, o se ne dispiccavano, comuni, principi e baroni; dimodoché alla distruzion di Milano (1162) cooperarono, laido è il fatto ma vero, tutte quasi le altre città, eccettuata Piacenza. V’ebbero ancora città che furono sempre imperiali. Tale fu Genova. Intorno a Torino poche memorie rimangono di quel tempo. Venne la prima volta Barbarossa nel 1154, e quindi si mosse a guastare ed ardere Chieri ed [p. 196 modifica]Asti. Tornovvi cinque anni dopo nel mese di gen­naio onde riformarne il governo ad onore di Dio e dell’imperio, e fu incontrato dai monaci Benedittini di S. Solutore che processionalmente con inni e can­tici lo condussero nella loro chiesa, e lagrimando gli donarono parte delle reliquie de’ santi Solutore, Avventore ed Ottavio e del patriarca S. Benedetto; perlocchè l’imperatore ricevette quel monastero sotto la sua protezione confermandone i privilegi e gli acquisti.2 A spiegar queste lagrime, se non sono un fior di rettorica di chi scrisse il diploma, convien rammentare che pe’ deboli l’imperatore com­pari va come l’universale ristoratore e vendicatore dei torti, e che quindi immenso era il desiderio della sua venuta prima che il conoscessero, come immenso era poi d’ordinario, o l’odio oil disprezzo dopoché l’aveano conosciuto.

Dopo d’aver ordinata la città di Torino a suo talento, Barbarossa con un diploma del 26 di quello stesso mese di gennaio dato ad Occimiano nel Ver­cellese, per crescere smisuratamente le ricchezze e l’autorità di Carlo i, vescovo di Torino, turbò, sconvolse, annichilò tutti i diritti acquistati e le legittime giurisdizioni del conte di Savoia, del co­mune, delle chiese e monasteri dell’ampia sua dio­cesi. Imperciocché se. gli altri imperatori si conten­tavano di confermare alle chiese come ai principi e baroni tutto ciò che legittimamente e quietamente [p. 197 modifica]possedevano, Barbarossa confermò ai vescovo di To­rino non solo tutto ciò ch’ei possedeva, ma anche tutto ciò che da qualcuno de’ suoi predecessori era stato posseduto; dimodoché disfaceva con un tratto di penna e per quanto stava in lui il beneficio di tutte le prescrizioni intermedie e degli altri modi legali d’acquisto. E di fatto, tra le cose nominativa­mente confermate al vescovo, vedesi la badia di san Michele stata sempre indipendente da ogni giurisdizion vescovile, e sulla quale i vescovi torinesi vantavano pretensioni piucchè veri diritti, e tutta la decima di Val di Susa, il terzo della quale da oltre un secolo apparteneva alla badia di S. Giusto.3

Nè contento di ciò Barbarossa cedette ai vescovo tutte le ragioni dell’impero sulla città e sul terri­torio per dieci miglia all’intorno, e così le mura, le case pubbliche, la dogana e la giurisdizione, sicché egli solo diveniva il giudice supremo della città e di quel distretto, levata ogni giurisdizione ai conti e fino ai messi imperiali; e tutti i diritti camerali e fiscali e comitali doveano intendersi tras­fusi nella persona del vescovo.

Questa concessione così sfrenata pregiudicava mas­simamente il conte di Savoia ed il comune di Torino. Il conte, oltre al dominio che aveva avuto e che sperava di poter ripigliare sulla città, esercitava senza contrasto la sua giurisdizione sul territorio, e possedeva varie terre che avevano appartenuto, chi [p. 198 modifica]sa in qual tempo, al vescovo, e che trovavansi specificate nella confermazione come Rivalla, Pianezza, Carignano, Avigliana.

Il comune avea acquistato per concessione impe­riale la giurisdizione della strada Romana fino ad Avigliana, e di essa con quel diploma veniva ingiu­stamente spogliato. Aveva inoltre conseguilo la li­bertà, e questa libertà che si facea, com’ è detto, consistere nell’avere diretta dipendenza dal solo im­perio, pativa notabile diminuzione colla signoria at­tribuita al vescovo, che, avendo sua residenza in città, ed essendo già troppo influente e per la su­blimità ed i privilegi del sacro suo ministerio, e pe’ molli domini! temporali posseduti, riusciva il più incomodo de’ signori.

Per sentenze di due messi imperiali, Gottifredo e Marcoardo, il conte Umberto iii, il quale, benché a malincuore, seguiva pur sempre i vessilli imperiali, fu spogliato de’ castelli di Pianezza, d’Avigliana, Rivalta e della metà di Carignano (1184, 1185, 1186) che vennero aggiudicati al vescovo Milone di Car­dano, terzo nell’ordine de’ succeduti a Carlo i.4

Qual efficacia abbia poi avuto rispello alle con­dizioni della città di Torino l’immane diploma del 1159, noi vedo per sicure notizie, e probabilmente i cittadini non s’acquetarono a perdere a un tratto ciò che aveano con si lunga e sì generosa industria acquistato. [p. 199 modifica]

Ha solamente che nel 1176 si confederarono co’ marchési di Romagnano, stirpe antica e potente che poi fiorì ne’ primi seggi della repubblica e della monarchia. I patti furono che l’una parte dovea sal­ vare e difendere all’altra le persone, i beni, i di­ritti e le buone usanze contra tutti, eccettualo l’imparatore ed i suoi messi, il conte di Savoia ed i suoi messi, ed eccettuati gli altri signori che hanno. Dalle quali parole intendiamo che Umberto iii avea ripigliato o conservato qualche parte di signoria nella città; e che del vescovo non si giudicò nep­pure di fare espressa memoria.

Se i Cheriesi offendessero i cittadini od i mar­chesi, nè volessero fare ammenda, si facesse guerra ai Cheriesi.

I Torinesi farebbero due volte all’anno esercito in favor de’ marchesi, e starebbero a loro posta in arme quindici giorni tanto colle proprie loro forze, che colle genti a loro soldo;

Il medesimo obbligo avrebbero i marchesi.

Nè i marchesi, nè i consoli ed il comune di Torino potrebbero cominciar guerra senza il consiglio del­l’altra parte.

Tali patti doveano rinnovarsi e giurarsi ogni cin­que anni.5

Così per via di leghe cominciava a batter l’ali la libertà de’ Torinesi, ai quali pare non desse gran fastidio il vescovo Milone di Cardano per voler usare [p. 200 modifica]le prerogative state dal Barbarossa concedute al suo predecessore. Trasferito poi Milone al seggio arcivescovil di Milano nel 1188, e surrogatogli nella cattedra torinese Arduino di Valperga, questi, come avviene de’ nuovi in ufficio che si credon tenuti a vincer di zelo i loro predecessori, e meglio fareb­bero a vincerli di prudenza, cominciò a muover pretensioni, a far novità, ad inquietare gli ufficiali del comune. Ma non erano i rettori de’ comuni d’I­talia, dopo la pace di Costanza massimamente, uomini da lasciarsi svolgere collo spauracchio d’un mono­gramma imperiale, o con altre autorità o paure; Erano ben risoluti d’avanzare nell’opera della indipendenza, non d’arrestarsi, mollo meno d’indietreggiare.

Levalo rumore nell’anno 1191, vennero alle mani i Torinesi co’ loro aiuti da una parte, il vescovo co’ molti suoi vassalli dall’altra. Quante zuffe e quali seguissero, noi sappiamo. Il fine si fu che il vescovo rimase prigione de’ Torinesi, e che Ardizzone di Piossasco, uno de’ principali suoi vassalli, chiamato a soccorrerlo, stette duro e non venne, perlocchè fu condannato come sleale al suo signore in 500 marchi d’argento.

A quetar queste civili discordie s’intromise Tom­maso di Nono, messo o legato dell’imperatore, che era Arrigo vi figliuolo di Barbarossa.

Due trattati del mese di luglio 1195 mostrano come le sorti della guerra ed il favor imperiale non [p. 201 modifica]fallissero ai Torinesi. Per l’uno il vescovo s’acconciò co’ signori di Piossasco, Merlo ed Ardizzone. A Merlo di Piossasco diè il castello di Piobesi, e ne ottenne rinunzia dei dritti giurisdizionali e fiscali che avea sul castello e sulla terra di Testona, antico dominio della chiesa torinese. Il comune di Torino gli diè per tale rinunzia censettanta lire di Susa. Ad Ar­dizzone di Piossasco furono condonate le condanne patite per aver abbandonato il vescovo, ma fu co­ stretto a smettere il feudo che tenea da lui, del quale fu investito Merlo di Piossasco. Lo stesso Merlo promise di non chiamar in giudizio per anni xv il vescovo per la castellania di Rivoli che pretendea competergli in ragion di feudo.

Coll’altro trattato Arduino concedette al comune di Torino in perpetuo il militar governo di tutti i suoi castelli, e specialmente di Testona, Rivoli e Montosolo, castello ora distrutto, che s’alzava sul Monte Torinese poco sopra al villaggio del Pino, e, per dirla colle parole di quel tempo, diè facoltà al comune di farne pace e guerra a suo piacimento con qualunque persona e contra qualunque persona, senza che il vescovo pro tempore potesse mai farvi opposizione. Francò eziandio i Torinesi da ogni pe­daggio in quella terra. Per mercè di tale conces­sione i Torinesi diedero, onde agevolar là pace co’ signori di Piossasco, 207 lire ad Aimone e Biglione della Rovere affinchè smettessero al vescovo la [p. 202 modifica]giurisdizione che aveano su Piobesi; e 150 lire a Merlo ed Ardizzone di Piossasco, affinchè rinunziassero ad ogni loro diritto sopra Testona.6

Poco durò la pace. I Testonesi erano anch’essi già da lungo tempo ordinati a comune, e portavano con impazienza la signoria del vescovo, stretta forse oltre al dovere, confortala com’era da un castello che dominava la terra e teneva in rispetto gli abitanti. Ma il popolo che non pativa d’essere più indietro che i vicini nelle vie di libertà, contrappose al castello vescovile un’altra fortezza che si chiamò Castelletto, e protetto dai Cheriesi, venne in aperta discordia col suo signore e colla città di Torino.

I Cheriesi dall’altro canto credevano d’aver ra­gione sul castello e sul distretto di Montosolo posto, come abbiam veduto, al meriggio di Soperga in sul confine dei due territorii di Torino e di Chieri; onde anch’essi ruppero guerra al vescovo ed al comune di Torino. Ciascuna parte guerreggiante ebbe seguilo ed aderenti. Stavano per Torino i signori di Cavoretto e di Revigliasco, e quei conti di Biandrate, una volta così potenti, signori di ampio dominio in Chieri e nel territorio cheriese, poi tanto abbassati coll’abbassata fortuna del Barbarossa.

Parteggiarono pe’ Cheriesi e Testonesi Cavorre e Piossasco. Si fe’ guerra; non come le odierne che procedono grosse, continue, uguali secondo un di­segno d’operazioni discusso e concordato in comune; ma secondo l’uso d’allora, guerra saltuaria, di [p. 203 modifica]guasti e di depredazioni, in cui ogni frotta di genti agiva di suo capo e procurava di far al nemico il maggior male possibile, e soprattutto di non tor­nare a casa vuota; guerra insomma di brevi e rin­novate incursioni, nobilitata da qualche raro assedio, da qualche più rara zuffa campale; guerra di pochi contra pochi; guerra, per così dire, in miniatura, conveniente a quelle miniature di Stati e di nazioni.

A quetar que’ contrasti che disturbavano, se non altro, il commercio, giungevano gli ambasciadori d’Asti e di Vercelli, nelle mani de’ quali giuravano i contendenti d’acquetarsi al lodo che pronunzie­rebbero i podestà di Vercelli e d’Asti. Reggeano tale ufficio in sull’aprirsi de) 1200 Nicolò Visdonno ed Airoldo del Foro, i quali, chiamati a parlamento ne’ campi di Mairano i principali delle credenze di Torino, Chieri e Testona, insieme con Jacopo Vialardi podestà di Torino, Rolando Borgognino podestà di Chieri, Jacopo Pallio podestà di Testona e col vescovo, statuirono: le parti si rimettessero reciprocamente danni ed offese;

Il vescovo ed i Torinesi rinunziassero al comune di Chieri la castellata di Montosolo, vale a dire il territorio dipendente da quel castello, sul quale il vescovo non conservasse maggiori diritti di quelli che avea conservato su Chieri;

Promettesse con giuramento il castellano di Mon­tosolo di aiutar i Cheriesi, ai quali fosse lecito in caso di pericolo di ricoverarsi in quel castello; [p. 204 modifica]Il vescovo ponesse nel castello di Testone un castellano gradito ai Testonesi; e, non potendo cader d’accordo, quello che sarebbe eletto dai podestà d’Asti e di Vercelli; e non potendo essi neppur convenire nella scelta, il vescovo deputasse persona non ingrata ai Testonesi e la meglio acconcia a mantener amistà tra quel popolo e lui;

Rimanessero salve ed intatte ai Testonesi tutte le buone usanze, le consuetudini e le possessioni che aveano quando il vescovo Milone entrò per la prima volta nel castello vecchio di Testona;

E fosse salvo al vescovo il diritto di chiamar in giudizio i Testonesi innanzi ai podestà od ai con­soli d’Asti e di Vercelli pel castelletto dai Testonesi edificato; e se risultasse doversi per giustizia di­ struggere, fosse distrutto.

Ancora potessero i Testonesi levar una tassa al passo del castelvecchio di Testona, e nascendo quistione, si dovesse star al lodo dei podestà o consoli prementovati.

Finalmente ad un altro interesse, straniero alle parti, si provvide ad istanza de’ Cheriesi e de’ Te­stonesi, amici ed alleati del conte di Savoia Tom­maso i; s’obbligarono, cioè il vescovo ed il comune di Torino, a render ragione al detto conte in re­golare giudicio delle domande che proponeva centra di loro. Dal che sembra potersi attingere che d’ogni superiorità su Torino fossero i principi di Savoia stati prima di quel tempo spogliali. 7

Note

  1. [p. 213 modifica]Arch. di corte, badia di Rivalla, mazzo ii.
  2. [p. 213 modifica]Diploma dato da Rivoli a’ di 16 gennaio 1159. Arch, del R. economato gener.
  3. [p. 213 modifica]Monum. hist. patr., Chartar. i, 815.
  4. [p. 213 modifica]Ibid.; 329, 937, 943.
  5. [p. 213 modifica]Cibrario, Storia di Chieri, ii, 407.
  6. [p. 213 modifica]Monum. hist. patr., Chartar. i, 1003. — Storia di Chieri, ii, 29.
  7. [p. 213 modifica]Storia di Chieri, ii, 35.