Storia della rivoluzione di Roma (vol. I)/Capitolo XI

Capitolo XI

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CAPITOLO XI.

[Anno 1847]


Feste del primo dell’anno 1847. — Processione al Quirinale. — Nuovo coro del Magazzari. — Cantata la sera nella gran sala del Campidoglio. — Disposizioni governative. — Banchetti a Massimo d’Azeglio e Cobden. — Deputazione inglese al Santo Padre. — Discorso dell’Harford presidente della deputazione, e risposta di Sua Santità. — Ricevimento di Chekib Effendi inviato ambasciatore della Porta Ottomana al Santo Padre. — Suo discorso e risposta fattagli dal papa. — Altre disposizioni governative fino alla metà di marzo 1847.


Quella rivoluzione che narrando i fatti del 1846 vedemmo ancor bambina, quella medesima vedremo nel fiore della sua giovinezza l’anno 1847; del quale anno ora siamo per narrare gli avvenimenti. La vedremo poi matura nell’anno 1848, e finalmente, non pel peso degli anni, ma affranta dalle proprie intemperanze, la vedremo morire, ed assisteremo al suo funere nell’anno 1849.

Ricorreva il 1 di gennaio, giorno sacro agli auguri di un anno felice, che tale da molti ritenevasi in buona fede dovere riuscire l’anno 1847.

Come già accennammo in occasione della esaltazione al cardinalato di monsignor Marini, su di che può vedersi la data del 21 decembre 1846, preparavasi una festa popolare che la mattina, sul meriggio, si eseguì. Essa fu precisamente di quelle preordinate, e che costituivano l’agitazione chiamata festosa dal Farini, e qualificata poscia dal padre Ventura coll’appellativo di agitazione amorosa.

Il punto di riunione, al solito, la piazza del Popolo. I veri capi invisibili, ma i soliti. Dovevan farne parte tutti gli universitari, molti amnistiati, i frequentanti il caffè delle Belle Arti, parecchi artisti valenti, e alcuni [p. 174 modifica]manipoli di popolani. Uno dei capi visibili, fu l’amnistiato C. Matthey, ed uno il famoso Ciceruacchio.

Difilaron tutti pel Corso, in numero di oltre a cinquecento per drappelli, o come dicesi francescamente a plotoni. Recaronsi cantando sul Quirinale, ove sostarono; ivi si trovarono con una magna comitante caterva di Romani, i quali senza lo eccitamento della dimostrazione avrebber, come sono usi in siffatto giorno, seguitate le loro consuetudini.

Schieratisi sulla piazza, cantarono per la prima volta l’inno detto della Sacra Bandiera, perchè una bandiera recavan con loro. Detto inno venne cantato costantemente dopo, finchè fu supplantato da quello di Sterbini, come si dirà meglio in appresso. Le parole erano del romano Filippo Meucci, e la musica del maestro Gaetano Magazzari di Bologna, il quale durante tutta la rivoluzione (presente o assente il papa) fu il maestro di musica del movimento romano. Le parole dell’inno erano le seguenti:

Del nuov’anno già l’alba primiera
Di Quirino la stirpe ridesta,
E l’invita alla santa bandiera
Che il vicario di Cristo innalzò.
Esultate o fratelli, accorrete:
Nuova gioia a noi tutti s’appresta;
All’Eterno preghiere porgete
Per quel Grande che pace donò.
Su rompete le vane dimore,
Tutti al trono accorrete di Pio;
Di ciascuno egli regna nel cuore,
Ei d’amore lo scettro impugnò.
Benedetto chi mai non dispera
Dell’aita suprema di Dio,
Benedetta la santa bandiera
Che il vicario di Cristo innalzò.1

Il Santo Padre ricevette una deputazione di tre Romani ed un artista a Roma estraneo, per complimentarlo. Il [p. 175 modifica]concorso fu immenso, e il pontefice impartì a tutti la benedizione.

La sera fu eseguita nel gran salone senatorio sul Campidoglio decorato sontuosamente, quella cantata che io stesso pregai il conte Marchetti di scrivere, ed il maestro Rossini di porre in musica, fino dal 23 luglio decorso.2

V’intervennero tredici cardinali.

Il eonte di Siracusa fratello del re di Napoli.

La principessa di Sassonia.

Il duca di Devonshire.

L’eletta della nobiltà e cittadinanza romana, e quasi tutti gli esteri più ragguardevoli ch’erano in Roma. Ascesero gl’intervenuti a milleduecento circa.

Figurò, come fu realmente, che desse quella serata il popolo romano. A tal effetto divisai di emettere duecentocinquanta azioni di scudi due ciascuna, che rilasciai a quasi tutte persone ragguardevoli.

I dilettanti filarmonici in numero di cento circa eseguiron la cantata con accompagnamento di grande orchestra; e siccome essa davasi e da chi contribuiva col danaro, e da chi prestava l’opera, si fece un invito agli eminentissimi cardinali, del seguente tenore.

«Gli azionisti ed esecutori della cantata in onore di Nostro Signore papa Pio IX, da eseguirsi nell’aula massima del palazzo senatorio sul Campidoglio, la sera del 1 gennaio 1847, pregano sua eminenza reverendissima il signor cardinale di far loro l’onore d’intervenirvi alle ore sette.»3

Riportiamo quest’invito, perchè eccezionale, in grazia della eccezionalità dei tempi che correvano. D’altra parte non poteva farsi diversamente, perchè in realtà erano i Romani che davan la serata.

Le azioni furon tutte smaltite, e se ne ricavarono [p. 176 modifica]cento scudi; ma la spesa montò a millecinquecento; cosicchè il principe Torlonia ch’era stato eletto da Sua Santità per presiedere al buon ordine della serata, e che ne diresse magnificamente le decorazioni, rifuse del proprio i mille scudi mancanti.

Nell’interno della sala eranvi iscrizioni composte da Francesco Spada mio fratello.

All’esterno sopra la porta d’ingresso ve n’era una grande che diceva:


A PIO IX


ottimo pontefice massimo

cantico di riconoscenza e di laudi

giuliva roma consacra

nell' immortale e venerato suo nome

solennemente inaugurando sul campidoglio

l'inizio del nuovo anno.


La piazza, le cordonate, il foro romano illuminati di fiaccole. E veramente potè dirsi ch’essendo serata data dal popolo romano, riuscì degna e del sommo cui veniva consacrata, e del popolo magnanimo che l’offeriva.

L’amnistiato Matthey ne dettò una descrizione, e il Contemporaneo nel suo primo numero ne parlò. Entrambi però esaltaron di più la dimostrazione della mattina, anzichè la festa della sera, nè poteva essere altrimenti. La festa della mattina era l’opera del partito cui appartenevano, quella della sera era figlia della verità, e dei sentimenti di rispetto e di sudditanza del vero popolo di Roma

Erasmo Fabbri Scarpellini, scrisse la storia della cantata.4

[p. 177 modifica]Lo stesso 1 gennaio con atto del cardinale Gizzi vennero ad abolirsi i due tribunali criminali dell’uditore della Camera e del Campidoglio, e con atto successivo del 3 fu proibita la estrazione per l’estero del grano e granturco. Entrambe queste misure vennero favorevolmente accolte dal pubblico.5

Risonavano ancora alle orecchie dei Romani le melodie della cantata nella sera del 1; riepilogavansi ancora gli episodi della mattina, e la colomba che spiccava il volo dalla loggia del Quirinale, e il raggio di luce che venne, squarciando le nubi, a posarsi ov’era il pontefice, quasi annunziatore di lieti presagi, e l’effetto imponente delle centinaia di voci di tutti que’ giovani che all’aria aperta inneggiavano al pontefice, quando nuovi sentimenti di sorpresa, di gioia e di ammirazione vennero ad aggiungersi a quelli di cui era inebriato il popolo romano verso il pontefice, che divenuto era l’idolo, in quel tempo, di tutti i cuori, il centro di tutte le speranze.

Ricorreva l’ottavario della Epifania, che celebravasi nella chiesa dei padri Teatini in sant’Andrea della Valle.

Attendevasi il padre Ventura per sermoneggiare, quando con sorpresa universale si vide apparire sul pulpito il Santo Padre.

Fatto esso un cenno per imporre silenzio, si compose in atto di voler dire qualche cosa al pubblico. Pronunziato ch’ebbe per prime parole: «Miei amatissimi figli,» un senso d’ineffabile dolcezza scese nel cuore di tutti.

Ringraziati quindi i Romani delle rispettose dimostrazioni di venerazione e di amore pel primo dell’anno, prese a recitare una predica commoventissima contro il vizio della bestemmia, e quello della lussuria.

L’impressione prodotta sull’affollatissimo uditorio non è da potersi immaginare, nè con adeguate parole esprimere.6

[p. 178 modifica]L’andamento delle cose in Roma ciò non ostante era di una natura anormale, perchè non poteva dirsi assolutamente che volgesse in male, ma neppure ci vedevi nn bene deciso; perchè nello insieme un non so che di misterioso e d’inesplicabile trapelava.

Quella spensieratezza in tutti, quel poetico entusiasmo, che sì bene si addice nelle accademie, e sì male nell’andamento degli affari che trascuravansi e quasi tenevansi a vile, e quella non curanza degli usi della vita civile e consueta, non ti lasciavano veder chiaro.

Il papa sempre esaltavasi. Esso solo il grande, il pietoso, il clemente, il sommo, il munificentissimo, il sapientissimo, l’immortale. Avevano già gli esagerati con fini inonesti, i moderati con troppo sdrucciolevole facilità, votato il sacco degli epiteti superlativi per estollere il nome e le gesta del sommo gerarca. Con tutto questo, guai se un atto qualunque non accetto alla rivoluzione veniva da esso emanato. Si dimenticavano allora i superlativi, e si poneva mano ai lamenti, alle accuse, e alle raoipogne.

Se n’ebbe un esempio in occasione della venuta in Roma di un tale Pelosi lucchese, al quale riuscì di traforarsi fra i popolani per insinuare idee allusive alla unione d’Italia. Venutane in cognizione la polizia, gl’intimò lo sfratto immediato, e da ciò si prese argomento di querimonie verso la polizia, il governo e lo stesso pontefice.

Tuttociò dava agli applausi un’apparenza di fuoco di paglia, dacché bastava il più lesero soffio per ispegnerne la fiamma. Ciò accadeva in sui primi mesi dell’anno incominciato, e non poteva non tener gli animi dei più assennati incerti e sospesi.

Intanto il Contemporaneo, ch’ebbe vita appunto nel gennaio 1847, attraeva colle sue prime pubblicazioni la seria attenzione, e la simpatia dei Romani, al punto ch’esaurita la prima edizione, perchè tutti volevano abbonarvisi, [p. 179 modifica]convenne farne una seconda ristampa in più ristretti caratteri. Ciò fece salire sempre più in grazia dei Romani lo Sterbini, il Gazòla, il Torre e il Masi che n’erano i compilatori, e che divennero così gl’istruttori politici del popolo romano. E siccome gli articoli di quel giornale erano in sui primi tempi tutto incenso al papato, tutto rispetto alla religione, tutto progresso se vuoi, ma imbrigliato da moderanza di espressioni, così salirono talmente in fama i liberali che gli scrivevano, che alcuni scambiavanli poco meno e confondevanli con san Tommaso d'Aquino, e san Giovanni Crisostomo. Da ciò può farsi un’idea del rispetto e dell’influenza che veniva lor conferita.

Ciò accadeva in Roma. Nelle provincie poi saliva in rinomanza il Felsineo, e più tardi l’Italia. Ma di ciò, e del giornalismo in genere, avremo occasione di parlare più diffusamente nel capitolo XVII, che consacrammo esclusivamente al giornalismo.

Per il momento adunque ci limiteremo a passare in rivista ciò che accadde dal gennaio alla metà di marzo 1847, epoca nella quale fu divulgata la legge sulla stampa, e innanzi tratto parleremo dei banchetti che in quell’intervallo ebber luogo, e che eran venuti in moda, in seguito del banchetto cui diessi l’epiteto di mostro, e che si fece l’11 di novembre dell’anno precedente. Ne abbiamo parlato lungamente al capitolo VII.

Il 9 febbraio fu dato un banchetto di circa quaranta commensali al marchese Massimo d'Azeglio, giunto il giorno innanzi, dai casinanti di piazza di Sciarra, ed altro più sontuoso dalla Camera di commercio al famoso Riccardo Cobden. 7 Vollero onorare i Romani nel Cobden il coraggioso campione, sostenitore in Inghilterra del libero scambio; ma ì primi ad immaginarlo e promuoverlo furono gl’Italiani e non gl’Inglesi. Il Contemporaneo riporta i nomi degl’intervenuti che furono cinquanta fra nobili, commercianti e letterati. Eranvi stati invitati parecchi Inglesi. [p. 180 modifica]Riportò pure il discorso del marchese Potenziani, e la risposta del Cobden.8

Il 23 poi ne dette uno il famoso Ciceruacchio nell’osteria di Barletta. Ne fece parte il marchese Massimo d’Azeglio.9

Gli Americani ancora banchettarono e solennizzarono l’anniversario del loro gloriosissimo cittadino Giorgio Washington, intrecciando lodi al regnante sommo pontefice, ed all’illustre Americano.10

Intanto che il popolo prendeva gusto ai banchetti, il governo non si ristava dall’adottare qualche utile provvedimento, perchè il 21 gennaio, con plauso di tutta Roma, monsignor Grassellini governatore faceva raccogliere duecento accattoni e chiuderli in un ricovero. 11 Con editto del primo febbraio il cardinale Massimo, come prefetto delle acque e strade, disponeva che i canali dei tetti della città venissero condottati con appositi tubi nell’interno dei muri. 12

Il Santo Padre poi proseguiva a mantenere il popolo in entusiasmo, perchè oltre allo avere prodotto piacevole sensazione una sua visita di sera in casa Baldini in Borgo nuovo, ov’era una povera inferma, ebbe la soddisfazione di veder coronato il suo appello alla carità dei cattolici per sovvenire i danneggiati dall’ultima inondazione del Tevere, cosicchè se gli apriva nuova sorgente di lodi e di benedizioni dalla parte dei miseri beneficati mercè le sue amorevoli cure. Altra innovazione introdusse che piacque immensamente ai Romani.

Eran soliti gli Ebrei di recare, il primo giorno del carnevale, in Campidoglio una tassa o tributo di scudi ottocento accompagnando l’offerta con tale atto, ch’era per essi umiliante; ma il Santo Padre, fermo lasciando il tributo alla [p. 181 modifica]Camera capitolina, volle abolito quello sfregio siccome un segno superstite di religiosa intolleranza. 13

Ma altra cosa pur anco produsse una maggiore e più grata impressione nell’animo dei Romani, e fu quel vedere in Roma una deputazione d’Inglesi indirizzarsi al Santo Padre per ringraziarlo del bene fatto agl’Irlandesi colpiti dal flagello della fame, esserne benevolmente accolta, e riceverne la sua risposta. Piacque pure l’aver veduto pochi giorni dopo presentarsi al pontefice un ambasciatore straordinario inviato dal Sultano per complimentarlo. Racconteremo separatamente questi due avvenimenti.

Ebbe luogo il primo il giorno 8 di febbraio. Erasi formato però fin da qualche tempo prima un comitato d’Inglesi, fra quelli che in Roma risiedevano, all’oggetto di raccoglier sussidi pei poveri Irlandesi.

Concorse il Santo Padre a questa opera benefica, somministrando un migliaio di scudi del proprio peculio, e gl’Inglesi desiderosi di esprimere la loro gratitudine, e tributare nel tempo stesso un atto di ossequio alla Santità Sua, chiesero ed ottennero l’udienza pel giorno otto di febbraio nel quale recaronsi in deputazione alla medesima.

Il dottor Cullen rettore, ed il dottor Kirby vice rettore del collegio irlandese, presentarono la deputazione al Santo Padre.

Essa componevasi dei signori:

Ffolliot membro del Parlamento
Blancy Balfour
Whiteside
Ross de Bladensburg
Jones
Bryan colonnello
Jenkinson capitano
Patterson capitano
Dewedney reverendo
Richards reverendo [p. 182 modifica]
Smart
Gurney

              Tilt e del signor Harford illustre archeologo inglese, che ne era il presidente.

Accolse il Santo Padre cortesemente e dignitosamente la deputazione, ed il presidente Harford parlò presso a poco così:

«Abbiamo l’onore di presentarci alla Santità Vostra riuniti in deputazione per raccogliere in Roma le offerte a pro di quella parte dei nostri concittadini dIrlanda che sono al presente travagliati dal flagello della fame, desiderando inoltre di palesare alla Santità Vostra la viva nostra gratitudine per la benefica, spontanea, e generosa offerta di scudi mille, che Vostra Beatitudine si piacque farci tenere per mezzo del dottor Cullen allo scopo suddetto. Preghiamo al tempo stesso la Santità Vostra di permetterci che esprimiamo la intima convinzione in cui siamo, che il sentimento il quale oggi anima noi sarà impresso profondamente nel cuore, non solo degl’Inglesi tutti ora dimoranti in Roma, ma di quelli eziandio dell’intero impero britannico».

Rispose a questo discorso il Santo Padre nel modo presso a poco seguente:

» Molto mi consola vedere tanti benevoli signori d’ogni parte del regno britannico raccolti insieme, a compiere una eccellente opera di carità, adoperandosi in ogni maniera onde arrestare le stragi della fame, e alleviare la spaventosa miseria dei loro fratelli d’Irlanda. Se i mezzi che sono in poter mio fossero più ampli, non mi limiterei al poco da me fatto a vantaggio di una causa verso cui mi sento attrarre vivamente. Per supplire a questo difetto, pregherò con tutto il fervore l’Onnipotente acciocché si degni volgere uno sguardo compassionevole su quel popolo, e allontanato il flagello che l’opprime, largheggi ad esso la pace, la felicità e l’abbondanza.»

[p. 183 modifica]In seguito il presidente della deputazione, Harford, presentò ad uno ad uno. a Sua Santità i membri della deputazione, ognuno dei quali venne dalla medesima benignamente accolto. Nel presentare però a Sua Santità il signore Whiteside, le fece osservare come avesse il medesimo acquistato celebrità, perorando le cause nei tribunali. Allora il pontefice disse che la eloquenza è un dono dato da Dio, e diresse al Whiteside le seguenti parole:

«Voi signor Whiteside riceveste uno dei più preziosi doni del cielo; può questo essere migliorato dallo studio, ma riguardato come dono, cosa mai si può paragonare al maraviglioso potere per cui un uomo solo può signoreggiare le menti di migliaia di uomini? L’arte di persuadere è certo la più bella, quando si adoperi a bene.»

Noi troviamo magnifico e significativo il discorso del Santo Padre, e la deputazione degl’Inglesi ci rivela le simpatie che quest’uomo straordinario aveva saputo eccitare nella nazione inglese. I Romani ne speravan bene, e intanto l’entusiasmo sincero pel pontefice, nella parte sana, venivasi rinvigorendo ogni giorno.

Ma quando poi si seppe che anche un ambasciatore della Porta Ottomana era giunto per complimentare il pontefice, da parte del suo signore, l’entusiasmo e il rispetto per la sacra persona del papa, giunsero al colmo. Chekib Efendi era il nome dell’inviato.

Il Diario di Roma del 23 che ne parla dice quanto appresso: «S. A. I. il sultano Abdul-Megid Kan, compreso pur esso da quella universale esultanza suscitatasi ovunque all’annunzio del faustissimo avvenimento al trono pontificio della Santità di Nostro Signore papa Pio IX, si avvisò di darne al mondo intero una solenne luminosissima prova. Ordinò quindi a S. E. Chekib Effendi, designato a suo ambasciatore presso la I. e R. corte di Austria, di condursi espressamente in Roma per esprimerne in suo nome ed a viva voce le più estese congratulazioni al Santo Padre, e per attestare insieme la profonda stima [p. 184 modifica]onde S. A. sentivasi penetrata per un sovrano, che nel periodo di pochi mesi avea saputo attirarsi l’ammirazione, e il plauso di ogni colta nazione.»

» Furon queste presso a poco le espressioni (prosegue il Diario di Roma) che nelle lettere ufficiali dirette da Reschid Pascià Gran Visir della sublime Porta al segretario di stato di Nostro Signore, occorsero.»

Il 20 di febbraio fu il giorno nei quale Chekib Effendi; venne ricevuto dal Santo Padre in udienza solenne. Presentatosi al cospetto di Sua Santità, imprese a dire che: «S. A. I. il sultano suo augusto padrone, avea sentito con somma compiacenza la felice esaltazione della Santità Sua al trono pontificio. Aggiunse, che quantunque non esistessero fino ad ora fra la sublime Porta ed il governo della Santa Sede particolari relazioni, pure il suo signore, associandosi alla universale soddisfazione del mondo per l’esaltamento al trono della Santità Sua, gli avea dato l’onorevole incarico di presentarlene nell’augusto suo nome le più sincere e vive congratulazioni; che S. A. coglieva con premura questo fortunato incontro, per entrare direttamente in relazione col governo di Sua Santità, esprimendo in fine la sua ferma fiducia che i sentimenti di benevolenza del suo augusto signore verso i suoi sudditi di tutte le classi, ch’esso considerava eguali senza distinzione di credenza come un padre che ama indistintamente tutti i suoi figli, sarebbero apprezzati a preferenza di ogni altro dalla stessa Santità Sua, alla cui stima e preziosa amicizia S. A. grandemente aspirava.»

Il Santo Padre corrispose a questo discorso nei termini i più graziosi, commettendo al signore ambasciatore di far conoscere all’imperatore ottomano: «Con quale riconoscenza avesse accolto, e contraccambiasse i sentimenti di leale benevolenza che S. A. per di lui mezzo le aveva espresso, e come si aprisse il suo cuore alla lieta speranza che le vicendevoli relazioni ch’essa [p. 185 modifica]bramava di stringere col governo pontificio, fossero per tornare a somma utilità dei cattolici dimoranti in quel vasto impero, la cui religiosa condizione quanto più sarebbesi migliorata mercè della continuazione dell’aumento del potente sovrano patrocinio inverso loro, tanto più preziosa gli sarebbe stata la sua amicizia, e più gradito l’effetto delle proposte amichevoli relazioni.»

Fu presente alla detta udienza il cardinale Mezzofante; ed il procuratore degli Armeni Don Arsenio Angiarakian fece da interprete. Restò Chekib Effendi parecchi giorni in Roma, ne visitò le magnificenze, e il primo di marzo fece la sua visita di congedo.14

Certamente ove si rifletta come nel brevissimo spazio di dodici giorni accadessero due avvenimenti importanti e inducenti entrambi speranze di migliore avvenire, non potrà non convenirsi che Pio IX, o colla nobiltà de’ suoi atti, o colla rettitudine delle sue intenzioni, o col suo aspetto dignitoso ad un tempo e sereno, aveva il potere di affascinare i cuori, ammollire gli animi, conciliarsi e rispetto e simpatie dell’universale; cosicchè ben a ragione Pietro Giordani parlando di lui, lo chiamò: «Questo miracolo di papa.»15

Ma il vedere quegl’Inglesi amici di Roma, ma sopra tutto della Roma monumentale, della Roma storica, della Roma pagana, e sì poco amici (almeno il loro governo) della Roma papale, i quali, fino dal tempo della regina Elisabetta, interrotte le relazioni con Roma, neppure come potenza consideravanla, in guisa che non vi era nè poteva esservi fra i due stati scambio di rappresentanti; quegl’Inglesi stessi diciamo, passando sopra ai secolari rancori ed alle tradizionali antipatie, chiedono di essere alla Santità Sua presentati per ringraziarla del bene fatto ai loro connazionali, pronunziare inoltre un discorso, riceverne una risposta, ed essere questa pubblicata in un giornale, che [p. 186 modifica]ili lingua inglese in Roma stampavasì: ciò no sembra un avvenimento meritevolo di seria considerazione.

E che gl’Inglesi fossero effettivamente entusiasmati per Pio IX, e che vagheggiassero l’idea di rannodare legami di amicizia fra i due stati, si rileva dalle mozioni che furon fatte poco dopo in parlamento, fra le quali la più rimarchevole fu quella del signore Horsman.16 La questione però dei collegi misti avendo fatto tramontare l’astro di Pio IX in Inghilterra, altre mozioni non furon fatte, e tutto restò come prima.

Quel vedere poi un ambasciatore espressamente inviato dalla Porta Ottomana, nemica giurata non dei cattolici soltanto, ma del nome cristiano, per complimentare il pontefice, offerir legami di amicizia e protezione ai cattolici, è tale un avvenimento da non doversi narrare semplicemente di volo.

Imperocchè mentr’è cosa bella, commovente, tragrande, e significativa oltremodo, non lascia di avere un non so che di singolare e misterioso; perchè alla fin fine l’impero ottomano è per sua natura non solo ostile al papato per motivo di religione, ma ostile alla civiltà, di cui Roma rappresenta il centro, come Costantinopoli rappresenta l’antagonismo.

E pure questo stato si commove ancor esso, e spedisce, senza che vi sia antecedente veruno che no autorizzi la ripetizione un suo inviato speciale, in segno di esultanza al sommo Gerarca del cattolicismo.17

Queste considerazioni ne spinsero a studiare nei diari di quella epoca l’andamento delle cose in Oriente, e l’effetto che i tripudi romani potessero avervi prodotto.

Non fu certo senza sorpresa che rinvenimmo come in Oriente, fin da prima della emancipazione della Grecia, [p. 187 modifica]esistevano consorterie politiche numerosissime, sotto il nome di Eterie, e con fini decisamente progressisti e liberali, e sopra tutto a Costantinopoli, in Alessandria, al Cairo, e in Salonicco. E in questi luoghi venivansi celebrando e feste, e dimostrazioni, e cantate, e banchetti, con iscrizioni, e stemmi di Pio IX, e armi, e trofei ed emblemi allusivi al risorgimento italiano, e più tardi, perfino con coccarde tricolori;18 tutte le quali cose indicavano abbastanza come vi fosse unità di scopo, e legami di affratellamento fra i nostri di qua e quei di là, e questa unità di scopo, come si vedrà in appresso, andava a risolversi nella repubblica universale da costituirsi in tutta l’Europa.

Considerando poi come in quel tempo reggeva la somma delle cose in Costantinopoli il famoso Reschid Pascià, ministro riformatore e filosofo, protetto, se pure non vogliasi riguardarlo come quasi creatura del governo inglese, dovemmo convincerci che quei centri d’Italiani colà residenti e tra loro collegati abbian prevalso mediante abilissimi mediatori sull’animo, o del sultano stesso del suo primo ministro, onde indurlo a ordinare questa missione, il cui effetto non poteva non riuscire vantaggiosissimo alla causa italiana, perchè tutti avrebber detto: «Vedete i vantaggi immensi che la politica savia e liberale di Fio IX produce! Anche il Turco si piega a fargli omaggio. Lo stesso Oriente ne esulta! Vedete come le azioni buone e generose facian sentire il controcolpo perfin negli Sciti trapiantati nelle regioni orientali

Tutto ciò molto astutamente immaginato, non poteva non conferire maggior forza e vigore e ascendente in Pio IX, perchè siccome voleva farsi di lui l’istrumento della unione e rigenerazione italiana, la grandezza presente di Pio IX predisponeva le cose, perchè valeva grandezza futura d’Italia.

[p. 188 modifica]Da ciò l’interesse sommo dì esaltare ed amplificare dappertutto le gesta di Pio IX, diffonderne la narrauone e gli effetti, quasi che coll’ingrandirlo e porlo in più 1ucida evidenza, volesse farsene uno spauracchio per tutte le teste coronate di Europa.

Oltre il Diario di Roma parlano della missione di Chekib Effendi tanto il Ranalli19 quanto il Farini, il quale incorse però in due equivoci di data.20 Può vedersi ancora la storia del Grandoni.21 Noi torneremo a parlarne nel tomo II, capitolo III.

Mentre però tanti e sì straordinari casi occorrevano, e mantenevano quello stato di esaltamento nelle immaginazioni, di cui demmo già tanti indizi, non si tratteneva il governo dall’occuparsi di utili miglioramenti, e fino dai 16 gennaio ci annunziava il Contemporaneo che una prima riunione di giureconsulti per la riforma de’ codici aveva avuto luogo.

Fin dal 14 il cardinale Gizzi aveva diramato una circolare contenente alcune disposizioni sul Consiglio supremo.22 Il 30 ne aveva divulgata altra sulla formazione della statistica criminale.23 Una notificazione poi del medesimo del 20 febbraio dava disposizioni per la libera circolazione dei cercali nell’interno dello stato.24 Il 4 di marzo poi venne dalla segreteria di stato approvata d’ordine di Sua Santità, la organizzazione di un Istituto agrario,25 non che l’apertura di un nuovo ospizio per gli accattoni sotto la presidenza del cardinale Brignole.

Il cardinale Massimo inoltre, come prefetto delle acque e strade, emise una notificazione affinchè si costruisse [p. 189 modifica]uno stabilimento per la distillazione del gas fuori della città) in data del 10 marzo,26 e d’ordine del Santo Padre ne pubblicò il capitolato. Intendevasi con ciò di aprire la via per la illuminazione a gas della città di Roma.

Al Santo Padre era stata presentata fin dal 23 febbraio da una deputazione composta del marchese Guidetti senatore di Bologna, del conte Giovanni Marchetti, e dell’avvocato Antonio Silvani, la bandiera che i Bolognesi inviavano ai Romani in segno di amicizia e di fratellanza.27

Altro e più sostanziale miglioramento venne ad attrarre le sollecitudini del Santo Padre.

Ci convien ricordare che Roma mancava di un municipio, mentre le città tutte dello stato, ed anche i più meschini paeselli lo avevano. Il desiderio pertanto che anche Roma avesse il suo era in quel tempo generale.

Con biglietto adunque della segreteria di stato del 2 marzo venne nominata una commissione speciale, la quale, sotto la presidenza del cardinale Altieri segretario dei memoriali, era incaricata di proporre il modo di affidare alla magistratura romana la cura di alcuni rami di amministrazione più strettamente appartenenti alla città di Roma, avuto riguardo alle differenze che la qualità stessa di città capitale mette necessariamente fra Roma e le città di provincia.28

Essa componevasi tanto del prefato eminentissimo

Altieri, come presidente, quanto di
Orsini principe Don Domenico
Borghese principe Don Marcantonio
Del Bufalo marchese
De' Cinque cav. Ferdinando
Colonna cav. Don Vincenzo [p. 190 modifica]
Bartoli Luigi Giuseppe monsignore avvocato generale del Fisco
Armellini Carlo avvocato concistoriale.29

        Recò pure grata sorpresa, ed eccitò in tutti un senso di ammirazione quell’aver saputo che la sera del 9 mano il Santo Padre erasi recato improvvisamente alle scuole notturne ai Monti, e piacque talmente questo nuovo tratto di paterna sollecitudine, che ne parlarono anche i giornali.30

Queste furono le cose principali che fino alla metà del marzo 1847 occorsero, alloraquando venne finalmente pubblicata la legge sulla stampa, della quale parleremo nd capitolo seguente.







Note

  1. Vedi l’Inno, ossia parole e musica nel volume II, Documenti, n. 2 e 8.
  2. Vedi il capitolo II di questo primo volame, e vedi pure il volume che contiene tutti i documenti originali che riferisconsi alla detta cantata.
  3. Vedilo in originale nel volume II dei Documenti, al n. 4.
  4. Vedila nel vol. XX delle Miscellanee, num. 4. — Vedi il Roman Advertiser del 9, ove trovasi la corrispondenza fra Rossini e Spada per quest’oggetto. — Vedi l’Album del 23 gennaio, — Vedi la Rivista di Tosi n. 7, anno 1847. — Vedi la Pallade di Gerardi, num. 41. — Vedi la Storia del Grandoni, pag. 218. — Vedi Ranalli, vol. I, pag. 87. — Vedi il Farini, vol. I, pag. 176; vi si parla della festa della mattina, non di qudh della sera. — Vedi Documenti, vol. II, dal n. 4 al n. 11, ove trovasi il libretto della cantata, scritto dal conte Marchetti.
  5. Vedi il Diario di Roma del 5 gennaio 1847.
  6. Vedi il Diario di Roma del giorno 19 gennaio 1847. — Vedi il Roman Advertiser, n. 106. — Vedi la Pallade di Gerardi, n. 42. — Ved. il ristretto della predica nel Documento n. 13, volume II, e fra le stampe e litografie, sotto il n. 10 A, il disegno colorato esprimente il fatto.
  7. Vedasi il Contemporaneo, n. 5 ed il Roman advertiser, n. 17.
  8. Vedi il foglio aggiunto al n. 7 del Contemporaneo del 8 febbraio 1847.
  9. Vedi l’Italico num. 2.
  10. Vedi le Notizie del giorno 21 gennaio.
  11. Vedi le Notizie del giorno del 21 gennaio 1847.
  12. Vedi lo Notizie del giorno del 4 febbraio del 1847.
  13. Vedi Ranalli, vol. 1. pag. 88.
  14. Vedi il Diario di Roma del 2 mano 1847.
  15. Vedi Miscellanee, vol. XXXIII, n. 6.
  16. Vedi la Bilancia, pag. 29.
  17. Spedì è vero Baiazet nel 1490 un suo inviato a Innocenzo VIII, ma la sua missione fu relativa alla custodia di Zdaim suo fratello fatto prigioniero dai Cavalieri gerosomilitani, e consegnato al papa.
  18. Vedi il Corriere livornese (giornale di Guerrazzi) anno I, numero 23, anno II, numero 73. -— Vedi la Pallade, numero 91 anno 1847. — Vedi l’Epoca numero 7 pag. 26. — Vedi Documenti, vol. IV, num. 47.
  19. Vedi Ranalli, volume I, pagina 89.
  20. Vedi Farini, volume I, pag. 182, terza edizione.
  21. Vedi Grandoni, pag. 46.
  22. Vedila nella raccolta degli atti del 1846 e 1847 alla data rispettiva
  23. Vedi il Diario di Roma del 13 febbraio 1847.
  24. Vedi il Diario di Roma del 23 febbraio.
  25. Vedila nel Documento n. 16, vol. II.
  26. Vedi il Diario di Roma del 13 marzo 1847.
  27. Vedi li Contemporaneo, n. 9.
  28. Vedi il Diario di Roma del 2 mano 1847.
  29. Vedi l’Educatore alla pag. 88. — Vedi il Contemporaneo, num. 11.
  30. Vedi nel vol. stampe e litografie quella che rappresenta il fatto.