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LIBRO OTTAVO — 1817. 197

la quale tenendo nome dal soggetto fu chiamata Braccio militare o baronale. E dipoi per rispetto alla potenza del clero, si aggiunse all’assemblea militare altra di ecclesiastici, e Braccio ecclesiastico fu chiamata. In quel tempo avanzava la civiltà di Sicilia, e ecrescevano con essi i bisogni e i tributi; ma non era il governo come in oggi, mancava il censo delle proprietà e delle rendite, la finanza non era una scienza, il conquistatore tutto prendeva da’ paesi vinti ma colla forza; il governante non poteva imporre gravezze che per volontarie offerte de’ soggetti, donde venne nell’antichità il dono gratuito, abusato ne’ posteriori secoli. Perciò ad occasione si convocava in Sicilia l’assemblea de’ liberi possidenti, chiamata Braccio demaniale, ed agli due bracci si aggiungeva.

Tutte e tre le congreghe si formavano in una che prendeva, secondo usi del tempo, nome di parlamento. Del braccio militare erano i membri ereditarii; dell’ecclesiastico, i vescovi e gli abati di certe sedi; del demaniale i deputati eletti dal consiglio municipale di alcune città o terre, Il parlamento si radunava in ogni anno; ma dopo l’impero di Carlo V ogni quattro anni in sessione generale, per distinguerla dalle straordinarie convocate ad occasione di non preveduti bisogni. Al chiudere della sessione generale venivano eletti quattro membri di ogni braccio, che insieme componevano un’assemblea esecutrice, tra le due sessioni, delle sentenze, sostenitrice delle ragioni del parlamento.

Il quale tassava i tributi, non potendo imporne il governo se non per casi urgentissimi, come il riscatto del re prigioniero, la invasione di nemici esterni, le interne rivoluzioni, o altro sconvolgimento istantaneo e di gran mole; ed anche allora l’arbitrio del re fra stretti limiti si volgeva. Gli Aragonesi avevano aggiunto al parlamento altre facoltà, che i re successori rivocarono; lasciando intera la sola ed antica su i tributi. Così stettero le cose insino all’anno 1810. Io riandando le costituzioni di tempi e popoli che chiamiamo barbari, dico sovente e me stesso che le più dure catene sono per noi che ci vantiamo secolo di civiltà.

XXVII. Nel 1810 il re Ferdinando, scacciato da Napoli, già da quattro anni confinato in Sicilia, minacciato dal re Murat, costretto a mantenere per difesa e speranza un esercito, volendo per segreti emissarii tener viva la sua parte nel regno perduto, e la dignità del nome, per ambasciatori, nelle corti straniere; scarsi a tante spese i tributi dell’isola e i soccorsi dell’Inghilterra, egli adunò parlamento, e, mostrando nell’opposta Calabria gli apparati del nemico, dimandò sussidii pari a’ bisogni ed alla grandezza del pericolo. Il parlamento ne diede, ma non quanti si speravano; ed aggiunse al piccolo dono patti gravosi. Quel re andava proclive allo sdegno; i suoi ministri, napoletani e sconosciuti, avevano in odio la Sicilia;