Storia del reame di Napoli dal 1734 sino al 1825/Libro VIII/Capo III
Questo testo è completo. |
◄ | Libro VIII - Capo II | Libro IX | ► |
CAPO TERZO.
Errori di governo e loro effetti.
XLIII. Un decreto del re per causa privata fu cagione di universale spavento. La compagnia Redinger era creditrice dello stato per provvigioni somministrate all’esercito di Murat, ma difficoltà di conto fece il credito incerto sino all’anno 1818; quando alfine chiarito, fu negato il pagamento per decreto del re, «attesochè l’oggetto di tali spese fu di sostenere una ingiusta guerra contro noi, e d’impedire il ritorno del legittimo sovrano e di mantenere l’occupazione militare.» Il caso di Redinger, fatto massima di finanza, generò grandi perdite alle private ragioni, quindi lamenti e timori; che se l’avere fornito provvigioni era colpa, e punita, dovea tremar peggio chi sostenne il cessato governo col consiglio e col braccio.
In ogni opera del re e de ministri traluceva l’odio per il passato decennio: delle due strade chiamate del Campo e di Posilipo, di cui non vi ha più bella o più magnifica, l’una fu camminata dal re non prima del terzo anno del suo ritorno, l’altra non la è stata giammai; la disotterrata Pompei non fu vista da lui, e gli scavi quasi intermessi, come opere favorite de’ re francesi. Tutti i nomi decennali mutavano; solamente il ritenne la casa Carolina benchè fondata da Carolina Murat, perehè fu detto (non vergognando scriverlo negli atti publici) che rammenterebbe le virtù di Carolina d’Austria. Di chiunque nominavasi ne’ consigli il re domandava, è de nostri o de’ loro? Le fogge, le usanze, i colori del decennio erano abborriti; le sue leggi duravano per benignità o prudenza del congresso di Vienna. Distintivo del governo fu l’odio coperto, indi l’infingimento; altro voleva il cuore de’ governanti, altro il labbro diceva, l’animo e la politica discordavano; e le provvidenze, mosse da cagioni contrarie, imprimevano alla macchina sociale difformità di scopo e di azioni. Diciamo più concisamente: era nuovo il popolo perchè del decennio, vecchio il governo perchè antichissimo; la quale differenza di età politica porta seco divergenza manifesta o secreta di passioni e di opere. Questo è il morbo civile che più inferma gli stati borbonici di Europa.
XLIV. L’odio istesso diede motivo ad instituire l’ordine cavalleresco di San Giorgio, coll’aggiunto nome di Riunione, per segnare il tempo nel quale i due regni separati si composero in uno. Il re non comportava l’ordine delle due Sicilie, che, sebbene mutato di epigrafe e di colori. traeva principio da Giuseppe, lustro e fama da Gioacchino; e le convenzioni di Casalanza e del congresso vietavano che si abolisse. Ma concedendo a’ militari decorati delle due Sicilie l’ordine, in ugual grado, di San Giorgio, il primo fu rivocato, e l’abborrito nome scomparve. L’ordine nuovo era militare, dandosi al valore ed a’ servigi di guerra per giudizio di un capitolo di generali; gran maestro il re, gran contestabile il principe ereditario della corona, gran collane i fortunati capi dell’esercito, gran croci i generali più chiari in guerra, e così discendendo per otto gradi sino a’ soldati. Il nastro è turchino orlato di giallo, i colori della stella rubino e bianco, i motti in hoc signo vincas circondando la effigie del santo, ed all’opposta parte, virtuti. I Napoletani, i Siciliani, i Murattisti, i Borbonici ne furono fregiati: parve segno di pace fra le contrarie parti dell’esercito.
XLV. Ed indi a poco viepiù scomparvero i nomi di Giuseppe e Gioacchino, pubblicando i novelli codici. Erano sei; ma poichè in nulla mutarono que’ del commercio e di procedimento, rimane a dire del civile, del penale, del procedimento criminale e del militare: subbietto grave al quale spesso io ritorno, perchè dello stato di un popolo non sono documenti le ribellioni, le guerre, i domini, ma le leggi docilmente eseguite e ridotte a coscienza.
Ho detto altrove qual fosse nel decennio il codice civile: richiedevano i nostri costumi e le opinioni dell’universale più stretto il matrimonio; ma fu ridotto indissolubile nel nuovo codice, se non per i casi del concilio, la qual perpetuità apporta nelle famiglie disonesti costumi e disperazione. Altra riforma si sperava nell’accrescimento della paterna potestà, che distrutta dalle prime licenze della libertà francese, poco risorta nell’impero e tra noi, oggi, peccando di contrario eccesso, fu troppa. Doveva migliorare il sistema ipotecario; restò qual era. Fu permesso nelle civili contrattazioni il volontario imprigionamento, tenendo a vile la personale libertà. Quel codice fu peggiorato, ma ciò che avanza del sapientissimo libro quasi basta alla felicità sociale.
II codice penale serbò alcuni errori dell’antico, cioè la inesatta scala de’ delitti, la soperchia severità delle pene, il troppo uso del supplicio di morte; ed introdusse tre novelli errori, 1° Creò delitti di lesa maestà divina, e gli punì aspramente; quasi giungesse a Dio l’umana bestemmia, e l’offendesse: chi oltraggia Iddio è preso di demenza, e gli è pena condegna andare tra forsennati. 2° Distinse in quattro gradi la pena di morte, segnandoli per le vesti. Era indizio di barbarie l’antica crudeltà sul condannato prima di ridurlo a morte, ma coll’accrescere il martirio diveniva grado di pena: oggi è ridevole far diverso il dolore del morire, o il terrore dell’esempio per veste gialla o nera, a piedi nudi o calzati. Le quali diversità, insensibili al suppliziato, nuove alle opinioni, non sono istromenti di legge, 3° Tolse o scemò a’ giudici piccolo arbitrio che avevano, fra certi limiti, della pena; perciocchè il patire, prendendo misura dalle sensazioni, diversamente affligge; e quindi la facoltà di variare in poca parte la durata, adequa le differenze di età, stato, sesso, capacità di sentire. Ma d’altra parte le affatto abolite confiscazioni tanto sopravanzano agli esposti errori che rendono il codice delle pene di gran lunga migliore dell’antico.
Non dirò altrettanto, e ne ho dolore, del procedimento criminale: fu peggiorato. L’antica speranza de’ giurì pur questa volta restò delusa; la facoltà d’imprigionare per mandato di accompagnamento, confermata; il giudizio di accusa confidato a cinque o tre giudici, da sei o quattro ch’erano prima; il benefizio della parità, rivocato, i giudici dell’accusa, che già non lo erano del processo, lo furono per il novello codice; erano dunque giudici prevenuti contro l’accusato, pericolo alla giustizia ed intoppo alla ingenuità del dibattimento; i casi portanti a cassazione furono ristretti, la condizione dell’incolpato, già trista, si fece tristissima. Il governo volle abbassare l’autorità del magistrato supremo, saldo sostegno di libertà, perchè delle leggi.
Il codice militare detto statuto comprendeva molti pregi, molti errori delle antiche instituzioni. Erano due i falli più gravi; non separare lo stato di guerra da quello di pace, ed allargare la giurisdizione de’ tribunali militari. Poichè variano i doveri del soldato secondo è in pace o in guerra, le infrazioni a’ que doveri costituiscono differenti delitti; nè sotto i rapidi moti di guerra potendo serbarsi le forme ordinarie di procedimento, ne deriva la consueta impunità, o l’arbitraria punizione: difetto ed eccesso che del pari offendono la giustizia e la disciplina. Lo ampliare poi la giurisdizione militare, separa la milizia dallo stato civile, è resto di feudalità, errore ancora grato e comune agli eserciti ed a’ governi; competono a’ tribunali militari pochi giudizii nello stato di pace, tutti in quello di guerra, essendo carattere di competenza nella pace il delitto, nella guerra il delinquente.
Era tra le pene la prolungazione di servizio e le battiture. Ma se il servire è dato in pena, lo stato militare è considerato penoso, e si spegne lo splendore morale che fa lieti e forti gli eserciti. Le battiture sono certamente della trista famiglia de’ supplizii; ma, poichè apportano e dolore ed infamia, sconvengono ad esercito che si compone per coscrizioni: diensi in guerra a chi fugge o si arretra, o si nasconde, che tanto infame è la viltà che non vi ha pena che le accresca vergogna.
Si legge fra delitti la insubordinazione, ma non l’abuso del comando. Eppure tutto è patto in società, debiti e diritti sono vicendevoli, all’obbedienza cieca degli uni è contrapposto il comandar giusto degli altri. II procedimento nei giudizii militari è conforme al civile; stabilire il giurì, far migliore il processo di contumacia e di calunnia, surrogare in molti casi al carcere la sicurtà, perfezionare il dibattimento, usare più giustamente il criterio morale, sono i desiderii de’ sapienti nel procedimento penale, ma non si poteva attendere il compimento del codice militare primachè del comune. Come che tale lo statuto del quale parlo, egli è forse il migliore dei codici militari europei.
XLVI. Il codice di amministrazione, ordinamento essenziale e bramato, restò come innanzi disperso in molte leggi, decreti ed ordinanze, sì che i giudizii amministrativi dipendevano più che non mai dalle voglie o interessi del governo; che se nel decennio il supremo arbitrio s’imbatteva talvolta negl’intoppi del consiglio di stato, oggi (quel consiglio disciolto) non aveva freni o ritegno. Tanto incivili sono le pratiche delle quali ragiono, che per esse la saggia o libera amministrazione del regno è tenuta in odio.
XLVII. La pubblicazione de’ codici fu seguita da importanti cangiamenti. Riordinando i tribunali, molti giudici furono privati senza palesarne il motivo, e quel silenzio e la intemerata vita della più parte di loro fece credere che ne fosse causa la malnata nemicizia de ministri e del re per gli uomini e le cose del decennio. Il pubblico parteggiò per gli sventurati, che imprendendo liberali professioni incontrarono fortuna e favore. I re non veggono i cangiati costumi, e che la condanna de’ governi assoluti è commendazione all’universale, l’aura è condanna; cosicchè distrutto il tesoro delle opinioni, non altro premio dar possono che di materiale godimento, le ricchezze, e ne deriva che i loro seguaci sono pochi, schivi di onore, empii nelle fortune, vili ai pericoli.
De’ magistrati mantenuti fu pur trista la sorte. Legge di Giuseppe li dichiarava stabili; ma decreto di Gioacchino del 1812, sospendendo per tre anni la stabilità, prolungava il cimento sino all’anno 15, allorchè per le vicende politiche di quell’anno e per nuovo deereto del nuovo re fu allungata la incertezza sino alla pubblicazione de’ codici borboniani; e que’ codici promulgati, e scelti a modo i giudici, non cessava l’esperimento per altri tre anni. Si voleva tenerli sempre a dipendenza, per lo che gli onesti si sdegnavano, tutti temevano. Nè basta; era spiato ogni giudice, il voto di ognuno in ogni causa rivelato al governo, e spesso ad arbitrio del ministro erano i giudici puniti con rimproveri, minacce, congedi, lontane traslocazioni. Mancavano alla magistratura le due più pregiate condizioni, stabilità, indipendenza; e di là uomini di loro natura cultori di arti oneste e amanti di quiete, bramavano ancor essi moti e novità di stato.
XLVIII. Cosa di maggior mole fu il riordinamento della polizia, la quale, uscendo dalle furiose mani del principe di Canosa, passò, come ho riferito, a Francesco Patrizio, che di vario capriccioso ingegno, quando rilassava le discipline, quando aspramente le stringeva, e lo sfrenato destriero (insegna e simbolo de’ nostri popoli) o trascorreva superbo dell’inabile governo, o infuriava della sferza importuna. Perciò rinvigorirono le antiche sette di libertà, nuove se ne aggiunsero, e qui appariva un libello invitatore, là un messaggio ardimentoso al monarca, altrove una costituzione messa in istampa, e da per tutto svelata contumacia verso il governo, ed offese e delitti contro i suoi partigiani.
De’ quali disordini più abbondava la provincia di Lecce, così che vi andò commissario del re co’ poteri dell’alter-ego il general Chruch, noto inglese, passato agli stipendii napoletani per opere non lodevoli, quindi obliate per miglior fama. Il rigore di lui fu grande è giusto: centosessantatrè di varie sette morirono per pena, e quindi spavento a’ settarii, ardimento agli onesti, animo nei magistrati, resero a quella provincia la quiete pubblica. Ma senza pro per il regno, perciocchè i germi di libertà rigogliavano, animati dalla carboneria. Della quale setta è tempo che io discorra l’origine, l’ingrandimento, la vastità, i vizii, la corruzione.
XLIX. Alcuni Napoletani esuli nel 1799, iniziati in Isvizzera ed Alemagna dove la setta portava altro nome, tornando in patria la introdussero, ma restò debole ed inosservata. Nell’anno 1811 certi settarii, francesi, ed alemanni, qua venuti, chiesero alla polizia di spanderla nel regno come incivilimento del popolo e sostenitrice de’ governi nuovi. Era ministro un Maghella genovese, surto dagli sconvolgimenti d’Italia e di Francia, al quale furono argomenti e raccomandazioni la simiglianza delle sette massonica e carbonaria, la facilità provata di assoggettare i massoni, il bisogno di farsi amica la plebe, ed infine la potenza degli stati nuovi, continua istigatrice ad imprese arrischiate, Il male accorto non pensava che le fazioni giovevoli a’ governi oprano alla svelata, sì come le contrarie hanno d’uopo di mistero e secreto; e che le opinioni di una setta, quando accordino agl’interessi di un popolo, prestamente si spargono, tenacemente allignano; cosicchè la carboneria, professando in principio i desiderii de’ Napoletani e le dottrine del secolo, apportava di sua natura temerità alle moltitudini, pericoli allo stato.
Tutto ciò non vedendo l’inabile ministro, propose l’entrata di quella setta a Gioacchino, che per istinto di re più che per senno di reggitore vi si opponeva, ma finalmente aderì, e quasi pregata la carboneria entrò nel regno. Chiamata dalla polizia, doveva suscitar sospetti, ma si accreditò; perciocchè guasti erano i costumi, ed in governo nuovo ed ombroso, fra tanti moti di fortuna la polizia dando impieghi e guadagni, apparve la setta un mezzo di lucro. Presto e molto crebbe di numero e di potere; tra i pubblici uffiziali che si scrissero settarii, e i settarii che divennero uffiziali pubblici, non vi era pubblico uffizio che molti non ne contenesse.
Spiacque il troppo e ne insospettiva il governo, quando giunse lettera del dotto Dandolo, consigliere di stato del regno italico, il quale diceva al re Gioacchino: «Sire, la carboneria si spande in Italia; voi liberatene, se potete, il vostro regno, però che quella setta è nemica de’ troni.» Ed indi a poco il re ne fece pruova, perchè nell’anno 14, come ho riferito nel settimo libro, stando coll’esercito in riva del Po, tumultuarono i carbonari di Abruzzo, e bisognò a sedarli forza, prudenza ed astuzia. Scoppiò la collera, come in Gioacchino soleva, sconsigliata e superba; proscrisse la setta, perseguitò i settarii, gli chiamò nemici del governo. E da quel giorno i nemici veri ascrivendosi alla carboneria, i buoni ed i circospetti la fuggivano, vi entravano i tristi e i temerarii.
Dichiarata la setta, per editti e supplizii, nemica di Gioacchino, mandò emissarii in Sicilia, bene accolti dal re, e meglio da lord Bentinek che in quel tempo disegnava opere più vaste. E perciò nemica di un re, di altro re fatta amica, vezzeggiata da grandi, credendosi la speranza di alte italiane venture, non pur setta estimavasi ma potenza. E crebbe di arroganza nel cominciare dell’anno 15, perchè di amicizia la richiese (quasi pentito) Gioacchino, travagliato dalle avversità di fortuna e di guerra. Ed ella già vòta di uomini di senno e di virtù, perdendosi nella gioja di sognate grandezze, promise a tutti il suo braccio, non tenne fede ad alcuno, non diede a patti la sua amicizia, non dimandò leggi o franchige; ignorando essere natura de’ grandi farsi umili nel bisogno, e dipoi spregiatori ed ingrati. Ma pure in tanta stoltezza ella cresceva, così essendo le sette; che la prosperità o l’avversità le ingrandisce, la mediocrità le distrugge, i grandi beni, i grandi mali, troppi stimoli, troppo freno sono loro alimento, e perfino la sferza del carnefice non è flagello, ma sprone.
La caduta di Gioacchino nell’anno 15 piacque a’ carbonari, che, ricordando i colloquii di Sicilia, speravano dal re Ferdinando sostegno e favori. Ma quegli riprovò la carboneria, nè impedi le pratiche, lasciò i carbonari delusi e sconcertati, così che non osavano di adunarsi: erano nel regno mille e mille settarii, nessuna setta. Ho riferito altrove come il principe di Canosa salito a ministro di polizia, collegandosi a’ calderari, tessendo inganni a’ carbonari, concitando infiniti misfatti, alfin cadde; ed allora la carboneria, peggiorando, divenne da pacifica sanguinaria, da speculativa operatrice, e misurate le sue forze, trovate grandi, non più intenta a difendersi, ella offendeva, e delitti nefandi nelle sue adunanze concertava. Opere malvage volevano malvagi operatori, e per ciò, e per usurparli alla fazione contraria si accoglievano i più ribaldi. La sceleratezza fu titolo agl’iniziati; e così tralignata la setta, passò dalle pubbliche passioni alle private, e per odii, sdegni, vendette, sparse molto sangue di pessimi e d’innocenti.
Il governo sperava di reprimere l’audacia dei carbonari, castigandoli severamente de’ commessi misfatti; ma (già troppo valida la carboneria) tacevano gli offesi, mancavano gli accusatori, mentivano i testimonii, sì arrendevano i giudici; ora i mezzi declinavano, ora la volontà di punire, divenne continua la impunità. E ciò visto, si scrissero settarii tutti i colpevoli, e coloro che volgevano in mente alcun delitto; le prigioni si trasformarono in vendite; i calderari, mutata veste, aspirarono all’onore della opposta setta: tutti cui nequizia e mala coscienza agitavano furono carbonari.
L. Tale era la carboneria nell’anno 18, nel qual tempo l’esercito diviso per interessi e per genio, malamente composto, peggio disciplinato, era materia convenevole a quella setta: e subito ella si apprese a’ minori; però che de’ generali nessuno o un solo era settario; degli uffiziali superiori pochi; della milizia civile, uffiziali e soldati (giovani e possidenti), tutti. Nè il clero fu libero del contagio. La religione dechinava da che la filosofia avendo attenuate alcune credenze, e ’l mal costume tutte bandite, restava di lei l’esercizio di pratiche vane non grate a Dio, inutili alla società; preghiere abituali cento volte al giorno ripetute, moto di labbro non di cuore; limosine tenui, non a benignità ma per usi o pompa, nè con incomodo ma dal soperchio; confessioni per vuotar la coscienza e rinsaccarla di colpe, atti di penitenza, non pentimento; e in somma superstizioni, o (peggio) ipocrisie ed inganni. Questa era la religione del popolo e del re.
Perciò, al cominciare dell’anno 19, la carboneria si componeva di uomini arrischiati ed operosi, atti a sconvolgere lo stato più che a comporre ordini nuovi; ma sul finire dell’anno molti altri ne introdusse assennati e potenti, che fatti accorti dalla vastità della setta, ovvero audaci dalle fiacchezze del governo, speravano, essendo settarii, far sicure le proprie facoltà o acquistare potenza nello stato nuovo: e così la carboneria tanto numerosa, oggi acquistando peso di consiglio e ricchezze, si fece maggiore del governo. Io nei cinque anni chiedeva a me medesimo donde nascesse la infingardia di chi reggeva lo stato; è forse ignavia? io diceva: è timidezza? è politica necessità? Ma poi conobbi essere quelle le regole del governare, chiamate sapienti nell’antico, cioè far poco per le opinioni, disapprovare, tollerare, cedere, spingere; e raggirando, renderle usate e spregevoli: senno di ministri vecchi per età, e per dottrine. Ma i tempi erano mutati: la carboneria nel XVIII secolo rimaneva setta perchè incontrava in ostacolo i resti della feudalità e del papismo; era più che setta nel XIX, ajutata dal genio e dalle passioni del tempo; si pensava sotto Carlo colla mente de’ governanti, si pensa sotto Ferdinando colla propria mente; allora il popolo camminava per impulsi altrui, oggi si muove per impeto proprio.
Abbandonando il subbietto della carboneria, nulla dirò de’ suoi voti, o riti, o cerimonie, perchè lo spirito e la sustanza delle politiche unioni non risiede in quegli aspetti, ma nello interesse degli uomini che le compongono. Perciò a bene intendere quella setta basterà dire, i carbonari essere i minori della società, che, sostenuti dalle ragioni della eguaglianza civile, muovono spingendo verso i maggiori; il quale moto nelle adunanze virtuose e costumate tende alle democratiche instituzioni, ma nelle scostumate de’ giorni presenti, ad invadere impieghi e potere, serbando i pretesti e ’l linguaggio di democrazia. Ora che scrivo (anno 1824), l’indole della setta è mutata; ma se in meglio o in peggio, lo dirò a suo luogo. Ripiglio il filo de’ racconti.
LI. Questi ho lasciati al finire del 1819, quando per cinque anni ogni opera del governo aveva destato ne’ soggetti scontentezza o dispregio; quindi fu spenta la persuasione di quel politico reggimento: perdita a’ governi estrema, ed indizio certo di vicina caduta. Tale è la persuasione di cui ragiono, che dove sia nel popolo, pure le ingiustizie sono tollerate; e dove manca, la stessa giustizia è sospetta. Riandiamo a sostegno di materia sì grave La nostra più recente istoria. Nel 1790, governandosi Napoli in monarchia moderatamente assoluta, duravano parecchi errori di stato e mali usi antichi, ed eccessi di finanza, e conculcazione di giustizia, ed angarie di feudalità e di chiesa; ma tanti pubblici danni restavano coperti dalla adesione del popolo. Per la rivoluzione di Francia, le pratiche moderate di governo si volsero in dispotismo; cessò la persuasione in piccolo numero di soggetti, crebbe per ignoranza nella moltitudine; e perciò il governo, meno legittimo, più forte, vide i, prodigi della sua potenza ne’ tempi e alla caduta della repubblica napoletana.
Seguì la tirannide del 99, seguirono i dieci anni de’ re francesi; il popolo s’incivili, ed una tacita legge agraria divise fra’ popolani le proprietà de’ baroni e della chiesa. Nel 1815 ritornato al trono Ferdinando IV, sostenne o mutò leggermente gli ordini del decennio; per lo che vi erano, come innanzi, codici eguali, indi giusti, finanza grave ma comune, amministrazione civile, rigida e sapiente; e poi per leggi, come che offese talvolta, la polizia senza arbitrio, il potere giudiziario indipendente, i ministri del re e gli amministratori delle rendite nazionali soggetti a pubblico sindacato; e finalmente decurionati, consigli di provincia, cancelleria, tutte congreghe di cittadini e magistrati, attendenti al bene comune; le quali leggi e statuti componevano una quasi libera costituzione dello stato. I governanti erano benigni, la finanza ricca, s’imprendevano lavori di pietà ed utilità pubblica, prosperava lo stato; felice il presente, felicissimo si mostrava l’avvenire, Napoli era tra’ regni di Europa meglio governati, e che più larga parte serbasse del patrimonio delle idee nuove: erasi versato a pro suo tanto sangue nel mondo.
Da che dunque nascevano le contumacie dei soggetti, i tumulti, le ribellioni? Che mancava alle speranze pubbliche? La persuasione del popolo. L’avevano distrutta le atrocità del 99, gli infingimenti del quinquennio, la storia del re, le pratiche del ministero, la incapacità di governo; fioriva il corpo sociale, e (maraviglia a dirsi) il capo inaridiva. Credendo che le buone leggi decadessero e la monarchia moderata volgesse all’assoluta, i liberali temevano della persona, i possidenti dei nuovi acquisti, e stimolo alla rivoluzione non era il mal essere ma il sospetto. Al cominciar del libro io promisi che, descritti i vizii delle vari parti dello stato, avrei dato nome al morbo che lo spense; ed ora dico, sciogliendo la promessa, che furono vizii principali così la scontentezza inopportuna di ogni ceto della società, come il meritato dispregio del governo, e che morbo apportatore di morte fu la cessata persuasione del popolo.
Se a taluni sembrerà che io mi sia dilungato dal rigore istorico, dirò in discolpa che per me la storia non è solamente narratrice dei fatti, ma espositrice delle cause, giudice delle azioni. Scrivo quindi del mio tempo come di remoto secolo, e comunque io tema biasimo e minor fede dai contemporanei, ho speranza di ottenere credito e lodi dagli avvenire; perciocchè i racconti del presente chiamati nemicizia se offendono, adulazione se esaltano, e vendette, o parti, o fazioni, diventeranno istorici documenti quando il tempo avrà spento le passioni della nostra età.
LII. Erano quali io gli ho descritti i settarii, l’esercito, la milizia civile ed il popolo, quando la polizia prendendo novelle forme si unì al ministero della giustizia. L’accoppiamento poteva produrre che la polizia prendesse le rigorose norme delle leggi, ma invece i magistrati adottarono i modi arbitrarii della polizia; così volendo l’indole umana, impaziente delle sue catene quanto cupida d’imporne. Fu eletto direttore un tal Giampietro, assoluto, costante. I più veggenti pronosticavano politici sconvolgimenti; ma il governo, sia torpore di mente o di animo, li credeva impossibili, e viveva e reggeva alla spensierata. Se alcuno mai per zelo di carica o di patria rivelava i pericoli, n’era preso a sdegno e a sospetto, credendo unicamente a chi lodasse quello stato e presagisse felicità e sicurezza. I pericoli si avvicinavano, solo mancava l’occasione, come a preparato incendio la scintilla.
LIII. Indi a due mesi avvenne la rivoluzione di Cadice, e s’intese applaudita dai popoli d’Europa, riconosciuta dai monarchi: e poichè giurarono la costituzione delle cortes Ferdinando VII come re, Ferdinando I come infante di Spagna; e poco sangue, poche lacrime, nessun danno pubblico aveva costato quel rivolgimento, piacque il modo civile agli odierni amatori di libertà, e soprattutto ai Napoletani, avidi, come ho detto, di politico miglioramento, non già per muovere le proprietà ma per farle più stabili e sicure. Onde io credo che se la rivoluzione si mostrava col solito corteggio di mali e di pericoli, i nostri molti settarii e liberali l’avrebbono rigettata.
L’esempio della Spagna era potente su i Napoletani per la simiglianza tra i due popoli di natura e di costumi. Non mai tanto i carbonari sì agitarono nelle adunanze, non mai tanto crebbero di numero e di mole; e vedendo che la riuscita dell’impresa stava nel consentimento dell’esercito, si volsero in tutti i modi, infaticabilmente, a rendere settarii gli uffiziali e i soldati; molti, come ho detto, lo erano, moltissimi ne aggiunsero in breve tempo. Intanto il grido della rivoluzione di Spagna e ’l vantato eroismo di Riego e di Quiroga avevano quasi sciolta la coscienza delle milizie dalla religione dei giuramenti, e mutato in virtù lo spergiuro.
Fu sì grande nel regno il moto di libertà che L’assopito ministero si riscosse, e vista la congerie dei mali, pensando ai rimedii, ondeggiò lungo tempo tra il resistere o il cedere, e i rigori del dispotismo o le blandizie di libertà. Se proponeva di richiamare i Tedeschi, si offendeva il credito del ministro Medici, che poco innanzi aveva indotto il re a rinviarli dal regno: se dicevasi di concedere la bramata legge, si offendeva l’Austria, e si mancava alla promessa confermata nel congresso di Vienna, di resistere all’impeto delle idee nuove. Fra’ quali dubbietà, que’ ministri incallivano al romore dei tumulti, tornavano all’antica scioperatezza; ma nuovi moti, nuovi gridi, e maggiori pericoli palesati al tempo stesso in Calabria, Capitanata e Salerno, vincendo gli ozii e i ritegni, stabilirono (mezzano e molle partito) dar legge che divertisse i pericoli con lieve offesa della monarchia, e velando il mancamento alle promesse date nel congresso. Accrescere a sessanta membri la cancelleria, farne eleggere metà dai consigli di provincia, metà dal re, ordinarli in due camere, dichiarare necessario per ogni atto legislativo il loro voto, fare pubbliche le discussioni, operare cangiamenti sì grandi senza pompa di legge ma per quasi non avvertite ordinanze, erano le basi del novello statuto al quale il ministero, benchè ritrosamente, accedeva.
LIV. Ma un grande avvenimento arrestò ad un tratto le sollecitudini nel governo, i tumulti nelle province: L’esercito si adunò a campo nelle pianare di Sessa, il re vi si recò a permanenza. Romoreggiava da lungo tempo il sospetto che le nostre schiere, ad esempio delle spagnuole, scuoterebbero il freno della obbedienza per dimandare libera costituzione; e perciò a vederle, per comando e quasi a dispregio del pericolo, radunate e andar tra quelle sicuro re canuto per anni, fu creduto un atto di bello ardire e di serena coscienza, sì che i settarii, ammirando e temendo, sospesero le cominciate mosse.
Ma fu motivo al campo esterna politica, non civile. Riferirò le cose pervenute al mio orecchio, dichiarando (come vuole debito di verità) che non ne ho documenti altro che dalle affermazioni di altissimi personaggi. I quali dicevano che nel congresso di Vienna o in altra più recondita adunanza di potenti fu stabilito che alla morte di Pio VII si dessero le legazioni all’Austria, le Marche allo stato di Napoli, e che intanto si nascondesse al pontefice il proponimento per non addolorare (diecvasi) la sua vecchiezza; ma invero per più certo successo, cogliendo la santa sede mentre era vota. Perciò alla occasione della grave malattia del papa nel 1819, l’Ausiria inviò altre schiere a Ferrara, e Napoli annunziò di formare un campo negli Abruzzi, acciò l’occupazione dei nuovi dominii seguisse dopo appena la morte di Pio, innanzi la scelta del successore. Ma i cieli vollero che il pontefice guarisse, e che fosse delle occulte pratiche avvertito. Ed allora monsignor Pacca, governatore di Roma, prodigo, dissoluto, complice ambizioso dello spoglio, con passaporti austriaci fuggì, e si disse per sordida causa di furto; al governo di Napoli fu chiesta ragione dell’annunciato campo, e rispose, che per esercizio de’ suoi battaglioni di fresco formati. Ma quel campo negli Abruzzi non fu mai radunato; e dipoi per accreditare il pretesto lo posero ne’ piani di Sessa nel tempo e modo che ho riferito. Ora che scrivo Pio VII è morto, Leone XII è papa; le Legazioni e le Marche appartengono ancora alla santa sede: o furono dunque mendaci que’ racconti, o le rivoluzioni dell’anno 20, e lo agitarsi dei popoli contro i re hanno rannodato più strettamente le monarchie assolute al sacerdozio. Se poi più giovava all’Italia l’indebolimento del papato, 0 più le noceva ricettare altre armi, leggi, ordinanze tedesche, sono ardue sentenze per noi, facili ai posteri.
Nel campo di Sessa praticando insieme i settarii dell’esercito si legarono di amicizia come di voto; e perciò se, innanzi, i disegni contumaci degli uni frenava il sospetto della fedeltà degli altri, dopo quel tempo fu sicura la contumacia e si accrebbe. II re stava lieto nel campo; era frequente (nuova benignità per i murattiani) il sorriso su le sue labbra, per lo che sorridevano di corrispondenza i generali e i soldati: reciproco infingimento o leggerezza. Ma il governo per quelle apparenze credè fido l’esercito, abbandonò lo sforzato pensiero di trasformare la cancelleria in immagine di camere rappresentative, e ritornò alla consueta spensieratezza. A mezzo il maggio del 1820 levato il campo, i reggimenti si condussero alle prime stanze.
LV. Al finire dello stesso mese i carbonari di Salerno, intendendo ad un generale sconvolgimento, parlarono ai settarii vicini, spedirono ai lontani lettere ed emissarii: ma i motori, capi della setta, ultimi della società perchè scarsi di fortuna e di nome, furono persuasi dai settarii più ricchi, perciò più timidi, a sospendere le cominciate mosse, e spedire altri fogli, altri nunzii rivocatori dei primi. Nel quale vacillamento il governo inanimì, e dei ribelli chi fu messo in carcere, chi sbandito per editto: cessò il pericolo. Ma la immensa ribellante materia si agitava, come fuoco sotterraneo di volcano, copertamente. Quale indi a poco fu la scintilla, donde uscì, quanto incendio produsse, come si spense, saranno i capi del seguente libro.