Storia del reame di Napoli dal 1734 sino al 1825/Libro VI/Capo III
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CAPO TERZO.
Riordinamento del ministero e delle amministrazioni. Nuove discoridie civili.
Fatti di guerra.
XVI. Furono riordinati i ministeri: quello degli affari stranieri, inutile finchè durano i moti della conquista, fu indi a poco affidato al marchese del Gallo pur ora ambasciatore del re Ferdinando presso l’imperatore de’ Francesi. Il qual rapido passaggio chiamato tradimento da’ più severi, veramente nacque dagl’incanti della napoleonica potenza, da’ fatti dell’antico re, da’ segni di felicità che trasparivano in quel nuovo stato, dal proprio comodo e della incostanza del secolo. Il ministero dell’interno ebbe carico di quella parte di economia civile che racchiude L’amministrazione delle comunità e delle province, le arti, le scienze, le fondazioni di pietà ed utilità pubblica. Dipoi, regolate con nuove leggi le amministrazioni, fu meglio il regno diviso in province, distretti e comunità: un capo amministratore, che chiamarono intendente (abolito il preside), attendeva alla provincia, il sotto-intendente al distretto, il sindaco al municipio. Un consiglio comunale, detto decurionato, fissava i bisogni, le spese, le entrate; eleggeva gl’impiegati municipali durabili un anno; vegliava che non mancassero a’ loro debiti; li giudicava dopo l’uffizio. Questa rappresentanza della comunità componevasi, secondo il numero degli abitanti, di dicci a trenta, scelti a sorte fra i possidenti, di età maggiore di ventun anno, rinnovandone in ogni anno la quarta parte.
Ciò che il decurionato per la comunità, era il consiglio distrettuale per il distretto, il provinciale per la provincia: dieci membri componevano il primo, venti il secondo; gli uni e gli altri proposti in maggior numero da’ decurionali tra i possidenti del distretto e della provincia, ed eletti dal re, che vi aggiungeva un presidente preso fra i più ricchi e nobili del regno. Quei consigli adunati in ogni anno, il distrettuale per quindici giorni, il provinciale per venti, giudicavano i conti del sotto-intendente e dell’intendente, distribuivano le imposte regie fra distretti e comuni, si richiamavano de’ mali pubblici, e poi palesando i possibili miglioramenti, le speranze e i voti dei popoli riferivano direttamente al governo. L’intendente, maggiore di tutti nella provincia, era negli ultimi giorni dell’anno sindacato da’ suoi soggetti, e censurato se manchevole, ed accusato se ingiusto, vicenda in cui risiede la civil libertà.
XVII. Concentrate nell’autorità del governo le amministrazioni delle province, dovea darsi un consiglio allo stato, e fu dato. Era composto di trentasei consiglieri. un segretario, otto relatori, un numero indefinito di auditori, un vice-presidente, un presidente, il re: dava sopra ogni legge parere segreto per giuramento e statuto. Chi guardasse alle condizioni di quel consiglio lo direbbe parte della potestà regia; e chi alle occorrenze de’ tempi, instituzione libera e popolare. Senato al certo consultivo, ma in presenza del re, a riscontro de’ ministri, di opposizione o almeno di ritegno al voler cieco del potere. Il re ne creava i membri; ma re nuovo dovea sceglierli fra i meritevoli, che erano gli onesti per fama e i sapienti. Segreto il voto; ma poichè cinquanta i presenti, non mancava il benefizio della pubblicità, che non risiede negli usci spalancati alla plebe, ma nel giudizio sempre retto delle moltitudini e quindi nel bisogno, per trarre dal discorso laude e consentimento del dir vero e giusto.
Ed oltracciò (il nostro orgoglio non se ne offenda) non eravamo allora bastanti a più libere instituzioni; che si vogliono costume non leggi per far libero un popolo; nè la libertà procede per salti di rivoluzione, ma per gradi di civiltà; ed è saggio il legislatore che spiana il cammino a’ progressi, non quegli che spinge la società verso un bene ideale, cui non sono eguali le concezioni della mente, i desiderii del cuore, gli abiti della vita. Confessiamolo e speriamo, poco si addice e poco basta a noi molti Italiani, troppo civili o non civili abbastanza per le imprese di libertà.
L’orditura del sistema amministrativo che ho descritto era imitata dalle più libere umane associazioni, la Grecia, Roma repubblica, Roma impero sotto Nerva e Trajano. Dipoi Costantino per avarizia e stoltezza tolse alle comunità l’economia di se stesse; e suo figlio spartì i beni comuni tra ’l fisco e ‘l clero. Giuliano riparò a quelle ingiustizie. Valentiniano le ravvivò, Teodosio le spense di nuovo: la libertà dell’amministrazione camminava con le libertà politiche. In Francia, in Alemagna, in Inghilterra, in Italia, i comuni ritornarono liberi nell’undicesimo secolo: Napoli molto innanzi aveva un consiglio municipale. Ma la mortifera pianta della feudalità coprì il mondo, ogni libertà fu distrutta; il rialzarsi di qualche città, la benignità di qualche principe, erano eccezioni alle regole di servitù, breve respiro nella vita de’ popoli.
L’inghilterra, prima in Europa, dipoi a nostri tempi la Francia, con l’acquisto delle libertà politiche resero l’amministrazione a’ comuni. La Costituente francese fece ancor troppo, dando alle libertà municipali tante soperchie guarentige che le furono catene; ed isprecando per i bisogni e i disordini della rivoluzione i beni delle comunità. Succedè l’impero: Bonaparte volendo prospera la Francia, le dava giovevoli instituzioni, ma coi modi del dispotismo; perocchiè questo è il difetto (se pur difetto) delle menti eccelse. Alle troppe regole della Costituente unito il troppo vigor dell’impero, sursero ordinanze severe, severamente osservate: minacciato il consigliero che rifiutasse di sedere a’ consigli, so spetto il cittadino che rinunziasse alcuna carica del comume, tutti gli uffizii di libertà esercitati con pazienza servile; la bontà del sistema scomparve. Si aggiunse che addossando alcune spese del tesoro pubblico al patrimonio della comuità, l’amministrazione, divenuta fiscale, scambiò l’indole, i dazii comunali non più si pagavano quetamente come lo spendere per la famiglia, ma di mal cuore come i tributi del fisco. Tal quale era l’amministrazione in Francia fu trapiantata nel reame di Napoli.
XVIII. Ed in quel tempo istesso altro giovamento si fece al regno, componendo le guardie provinciali nelle province, le civiche nelle città, e dando a’ cittadini armi e potere. Per ogni provincia una legione divisa per distretti e comunità; nella sola città di Napoli sei reggimenti; il servizio gratuito a sostegno degli ordini interni; legionari i possidenti di beni, o d’industrie, o d’impieghi; la scelta loro dalle autorità municipali, la dipendenza dalle civili, la nomina dal re. Furono queste le basi della milizia interna, forza dei governi che hanno co’ popoli interessi comuni, pericolo dei contrarii.
Ma l’avversione de’ Napoletani alle armi, il sospetto che dalle milizie civili si coscrivesse l’esercito, i pericoli del servire attesochè i briganti erano molti ed andari, ed infine il non aver ben sentito il genio salutare di quella instituzione, furono cagioni di popolare scontentezza e ritegno. Restò la legge rotta di effetto; ma di poi migliore senno ’l bisogno di opporsi a’ guasti sempremai crescenti del brigantaggio poterono più del comando; e a poco a poco quelle milizie formavansi, benchè deboli e disperse, essendo riserbato al succedente regno d’ingrandire e compiere opera tanto generosa e cittadina. Le menti più sagge godevano al vedere il vincitore armare i vinti, e l’amor di conquista confondere con l’amor di patria.
XIX. Vasta pianura, una volta fondo del mare, quindi alzata per ghiaie e terre scese da’ monti con lo scorrere de’ torrenti, abbandonata perciò dalle acque marine, e col passar de’ secoli coperta d’alberi e di città, e quella parte di Capitanata che chiamano Tavoliere; lunga settanta miglia, variamente larga. Il clima vi è temperato, e l’erba e l’acqua abbondante, sì che nel verno le minute gregi trovano pastura nel Tavoliere come in estate su i monti.
Sin da remotissimo tempo, che sarebbe fuggito dalla memoria degli uomini se Varrone nol ricordasse ne’ libri suoi, quel terreno, destinato a pascolo, produceva ricco tributo allo stato. Col variar de’ regni andò parte d’esso venduta o data in dono nel dominio de’ baroni e de’ preti; ma nel XV secolo Alfonso I di Aragona la richiamò al fisco per contratti perpetui, e così le cose restarono sino a noi. Erano i pascoli naturali, vaganti le greggi, gravi le taglie, ingannevoli i modi de’ tributarii e della finanza, e si che facea maraviglia vedere la pastorizia di barbara nascente società serbarsi fino a’ nostri tempi; e le pratiche de’ pubblicani aver rigore al XIX secolo, nella patria, e non ha guari sotto gli occhi del Palmieri, del Galiani, del Filangieri espositori più volte, non mal graditi, de’ mali del Tavoliere e de’ rimedii.
Una legge di Giuseppe diede a censo perpetuo quelle terre, preferendo i Locati (così chiamavano gli antichi fittajuoli); ma vietando i troppo grandi acquisti, sciogliendo le servitù, facendo libere le proprietà, rivocando la dogana, la doganella, i cavallari, i guardiani; vincolî antichi e danni continui di quella industria. E così, divenuti padroni i censuarii, ristretti i pascoli a’ soli bisogni, coltivate le residue terre a piante fruttifere, introdotta per la via certa degl’interessi, la coltivazione de’ prati, arricchì la finanza, prosperò l agricoltura, migliorarono le sorti de’ pastori, le condizioni delle greggi: e nel tempo stesso per gratuite concessioni di non pochi terreni a’ più miseri cittadini, la povertà fu sollevata, e sursero novelli possidenti; prudenza di governo nuovo e pubblica utilità dove ancora rozze sono le industrie.
XX. Mentre buone leggi promettevano al regno futura felicità, molti mali presenti lo affliggevano. Il general Regnier, vinto in Santa Eufemia, travagliato sopra i monti di Tiriolo, sentendo la prima Calabria sollevata in armi, raccolse le schiere in Cosenza, ed unendole alle altre poche del general Verdier, proseguì lentamente a ritirarsi verso Basilicata. Così Amantea, guardata da’ borboniani, fu liberata di assedio; Scilla, che i borboniani assediavano, più stretta e disperata di ajuto; Cotrone ceduto agli Anglo-Siculi; tutte le Calabrie perdute da’ Francesi. Per lo esempio e fortuna de’ Calabresi incitati a guerra, i popoli delle altre province, la Basilicata, i due Principati e Molise formicavano di bande borboniche; ta Terra di Lavoro era sommossa da frà Diavolo, gli Abruzzi dal Piccioli, le Puglie dalle navi nemiche scorrenti l’Ionio e l’Adriatico; la stessa Napoli tollerava gli oltraggi delle artiglierie di mare siciliane ed inglesi.
Le congiure continue: molti uffziali, dopo giurata fede a Giuseppe, disertando in varii modi, accrescevano le forze del nemico in Gaeta ed altrove; le pratiche col governatore di Capri e col principe di Canosa erano attivissime; il magistrato Vecchioni, consigliere di stato di Giuseppe, conspirava con altri tristi a rovina del governo; sopra di un tal Gueriglia, capo di briganti fatto prigione, fu trovato un foglio che diceva: «Farete sollevare nel regno di Napoli tutti i vostri partigiani, ecciterete il paese a tumulto, segnerete le case da bruciare, i ribelli da uccidere.» Ed il foglio era firmato (incredibile a dirsi) da Sidney Smith. Come dall’altra parte gli amici del governo e ministri della polizia, più vigili e audaci, opprimevano i borboniani; e dal vicendevole sdegno derivavano molte morti per condanne o vendette, utili e cieche, a danno di nocivi e d’innocenti.
E l’esercito francese di giorno in giorno menomava, più per travagli che per ferro; avvegnachè l’eccessivo calore della estate, l’aer mal sano, il vivere disordinato, erano cagione di malattie e mortalità. Così nell’Europa moderna vedendo come i popoli possano far guerra agli eserciti ordinati, la Spegna ed altre genti imitarono l’esempio; e sebbene fin d’oggi a sostegno di servitù e di errori, verrà tempo che gl’imparati modi saranno usati per migliori cause. Era giunto a tale lo stato dell’esercito che nel consiglio del re fu posto ad esame, se ormai bisognasse adunar le schiere in luogo munito degli Abruzzi, ed aspettar soccorso dalla Francia o dal tempo. Il re piegando al più debole partito, Saliceti al più forte, fu deciso che doppiando mezzi e fatiche di guerra si accelerasse la resa di Gaeta; onde valersi nelle ribellate province di quattordici mila soldati, oppugnatori di quella fortezza, e che subito vi fusse spedito il maresciallo Massena, del quale la fama e l’ingegno apportassero ajuto ed animo a’ suoi, danno e sgomento al nemico.
XXI, Altro ajuto benchè lontano avevano gli assediatori di Gaeta. Il forte di Scilla, come ho detto innanzi, presidiato da Francesi, stringevano Inglesi e Siciliani a’ quali era prescritto di recarsi (reso appena il forte) in Gaeta, per accrescerne la guarnigione; ma Scilla faceva mirabile resistenza. Piccolo castello, un dì palagio baronale, fortificato in varii tempi e modi, con poche artiglierie, duecento uomini di presidio, e non avendo altra maggiore difesa che il luogo, punto sino allora ignoto nella storia dell’armi, contribuì alle fortune dell’esercito e del conquisto francese. Da che apprendano i militari a non giudicar lieve della importanza de’ luoghi forti; e figgere in mente essere una la legge, uno il debito degli assediati: non cedere che alla estremità di forza o di fame. Ma quel castello alfin cadde il dì 16 di luglio del 1806, perchè fu aperta con le mine dagli assalitori larghissima breccia ne’ muri, quando già nello interno erano i presidii menomati, scarso il vivere, esauste le fonti. Eppure i patti della resa onorarono i vinti, così esigendo valor di guerra; nè il cadere di Scilla giovò a borbonici di Gaeta perchè tardo.
Gaeta si arrese a’ 18 dello stesso luglio. Qual fosse per opere quella fortezza, ho già riferito nel primo libro narrando l’assedio del 1734; ma negli anni che succederono sino al trattato di Aix-la-Chapelle, e fra i timori di guerra sotto il regno di Ferdinando, restaurati ed accresciuti gli antichi baluardi, era nel 1806 cerchiata da due muri e più innanzi da un fossato e da due cammini coperti. Le opere, sia condizione del luogo, sia difetto d’ingegno, non sono tracciate a regola d’arte, lo che nuoce o giova alle difese secondo che gli assediatori sono in guerra dotti o inesperti. Amore delle armi proprie mi spingerebbe a descrivere tutte le particolarità di quella impresa, ma istorica temperanza vuol che io discorra le sole cose memorabili.
Cominciò L’investimento in febbrajo a modo di blocco, mancando agli assalitori le grosse artiglierie e gli altri attrezzi necessarii ad assedio. AI finire di maggio, preparati i cannoni, alzate alcune batterie a Montesecco, aperta la trinciera e prolungati i rami verso i due mari dell’istmo, si formò la prima parallela, ed essendo quel suolo di duro sasso calcare, nudo di terreno e di piante, gli assediatori trasportavano da lontano le terre, e provvedevano fascine e gabbioni dal bosco di Fondi, il più vicino, sebbene a dodici miglia dal campo. Anche più gravi sarieno state le fatiche degli assediatori, se non avessero tolto e travi ed altri legni diroccando case e chiese del vicino sobborgo, già abitato da novemila marinai ed industriosi, desertato al cominciar dell’assedio, ed indi a poco ripopolato di abitatori, i quali per amore del patrio suolo tornavano volontarii, benchè sotto a’ pericoli della guerra ed alle licenze de’ due eserciti.
Le trincee avanzavano, ed al tempo stesso altre opere si ergevano sopra i due lidi per tener lontane le navi nemiche o le schiere che sbarcar volessero dietro al campo; per lo che i Francesi, assalitori ed assaliti, sostenevano della doppia guerra gli onori e le fatiche. Più volte le navi siciliane ed inglesi, venute a battaglia, furono con onta e danno respinte, combattendo per la parte francese dodici barche napoletane. I baluardi della fortezza tiravano dì e notte, sì che furono numerati in ventiquattro ore duemila colpi, senz’ apportarci alcun danno.
Ma dagli assediatori nessun colpo partiva, solamente intesi a stringere la fortezza. Si stava, al finire di giugno, sul fossato, dirigendo le opere a luoghi dove aprir breccia ch’erano due: la cittadella (così chiamata impropriamente una grossa torre), ed il bastione della breccia che ricorda col nome le offese di altro assedio. Al primo luglio impreso il trasporto delle artiglierie; a’ 6 di tutte le batterie munite di ottanta cannoni di grosso calibro e mortari: a’ 7 spuntando il giorno, dato il segno, scoppiarono ad un punto i preparati fuochi, romor terribile dopo lungo silenzio agli assediati, che recandosi a bastioni risposero con maggior numero di offese, avendo artiglierie più abbondanti. I dieci giorni di continuo percuotere erano fatte alla cittadella le brecce, abbisognandone due per uno ingresso; ma la breccia al bastione, di più saldi muri; non era compiuta, e perciò aggiugnendo altri cannoni, si separavano ambe le entrate, per lta sera del 19, aperte e facili.
XXI. Benchè gli assalti fossero preparati per la mattina del 20, i Francesi a’ primi albori del 18, formate le schiere a colonna, simularono quel moto che nel campo suol precedere il punto di montar la breccia. E gli assediati, viste aperte le mura ed in pronto il nemico di assaltare dimandarono patti di resa; ma non così certamente se il prode Philipstadt era nella fortezza; imperciocchè il colonnello Storz, che dopo la mortal ferita del primo ne faceva le veci, animoso anch’egli e risoluto alla guerra, aveva debole autorità di secondo, e comandava per consigli, male estremo degli assedii. Fu concordato in quel giorno istesso rendere Gaeta a’ Francesi ed imbarcare la guernigione per Sicilia, prima giurando di non combattere contro la Francia ed i suoi confederati per un anno ed un giorno. Erano i prigioni tremila e quattrocento, alcune altre centinaja rimasero con gli stessi patti agli ospedali; altri per via di mare fuggirono liberi; ed altri, infedeli o incostanti, si diedero nascostamente al vincitore.
Al giorno delle prime offese, 7 luglio, montavano gli assediati intorno a settemila, metà degli assediatori; bordeggiavano in giro alla fortezza o stavano ancorati nel porto quattro vascelli inglesi, sei fregate, trenta cannoniere o bombarde, alcune navi da trasporto. In tutto l’assedio la fortezza tirò centomila palle o bombe, e l’altra parte quarantamila. Furono morti o feriti novecento borboniani, mille e cento Francesi: tra borboniani ferito nel capo il principe Philipstadt; tra Francesi il general Vallongue colpito da scheggia di bomba cessò di vivere al terzo giorno; ed il general Grigny con miglior fortuna mozzato del capo da una palla da sedici. Degli altri, prodi ancor essi, sono i nomi oscuri ed inonorati.
XXIII. L’esercito di Gaeta, dopo breve riposo, sotto il comando dello stesso Massena, andò nelle ribellate Calabrie, bandite dal governo in istato di guerra; cessando in quelle province l’impero deile leggi, l’autorità de’ magistrati, le forme, i giudizi, gli usi civili, si commettevano la facoltà, la libertà, la vita de’ Calabresi al volere del solo uomo che reggeva l’esercito. Minaccia e pericoli così grandi non impaurirono quelle genti che in gran numero adunate in Lauria, sostenuto dal genio degli abitanti, e tenendo ritirata sicura su gli alpestri monti del Gaudo, s’imboscarono innanzi alla città; ed all’apparire della prima schiera francese, sollecita per troppo sdegno, si palesarono innanzi tempo per colpi di archibugio. Indi sbigottendo fuggirono, ed a quello aspetto di timore gli abitanti della città (fuorchè gl’inabili all’andare, vecchi, infermi, fanciulli) seguirono la fuga. Lauria, meno a castigo che per primo esempio, fu messa a sacco ed arsa dal vincitore, sì che bruciarono con le case alcuni de’ rimasti abitanti deboli ed innocenti. L’esercito avanzò, è fatte caute le altre città, accoglievano il vincitore con segni di amicizia e di allegrezza. Massena dopo aver cinto di assedio Amantea e Cotrone, giunto a Palme si arrestò; perchè in quell’ultima Calabria erano forti i luoghi e guardati da molti difensori, con animo fermato ad estremo combattere. Le terre che i Francesi tenevano, obbedivano a Giuseppe, quelle che gl’Inglesi o Siciliani, a Ferdinando; le non occupate dagli eserciti soggiacevano alla fortuna delle civili fazioni: così che in quelle province si vedevano molte morti, nessuna battaglia, i danni della guerra non la gloria.
I due castelli assediati cederono al fine con sorte diversa de’ presidii, ma gloria eguale; Amantea è città di Calabria di duemilacinquecento abitatori, fondata quasi su la marina del Tirreno, sopra un gran sasso già scoglio; la chiudono da tre lali le rupi, e dal quarto un vecchio muro fra due deboli bastioni; pochi soldati la guardavano e molti borboniani, gli uni e gli altri sotto il governo del colonnello Mirabelli, nato in quella città, ricco, nobile, usato all’armi ed all’onore; tre cannoni di ferro munivano i baluardi, le munizioni e le vettovaglie bastavano, l’animo ridondava. Il general Verdier con tremiladuecento soldati, artiglierie ed attrezzi, andò ad assaltarla; e quindi cinta quella fronte del castello che è verso la campagna, alzata una batteria di cannoni e di obici, agli albori del giorno, per segno convenuto, avanzarono a corsa con le scale i soldati più prodi, ma la forza del luogo ed il valore del presidio li respinse, sicchè scemati ritornarono ai campi. Altre offese, altri assalti, altre minacce andate a vuoto, il generale sperò di entrare in Amantea per il lato meno guardato, perchè creduto inaccessibile. In una notte lunga e fosca del dicembre, piccolo drappello di sette uomini, de’ quali primo il più destro, rampicandosi fra sassi che separano dal mare la città, tanto oltre avanzò che sentiva il parlare delle ascolte nemiche, mentre colonna più numerosa con funi e scale tacitamente seguiva le segnate tracce, ed altre schiere gridando e sparando attaccavano il muro bastionato per divertire i difensori dal vero assalto. Ma per voce infantile che dalla fronte di mare grida I Francesi, accorrono le guardie, tirano sessi ed archibugiate verso il luogo che il fanciullo indicava; è colpito un de sette e’ muore; altri della colonna maggiore sono feriti; ma nessuno si lagna per non discoprire la impresa. Si rassicurava per quel silenzio il presidio, scemavano i colpi, udivasi un Calabrese rimprocciare il fanciullo dell’affermare ostinato di aver visto e inteso i nemici, quando un obice del campo scoppiò in aria, e con la luce palesò gli assalitori. Mille offese ad un puntò partirono da’ vicini ripari, molti de’ Francesi furono morti, si arrestarono gli altri e si raccolsero nei campi. Il generale poi che vide non bastar le sorprese, non gl inganni, non le forze, levato l’assedio, ritornò doglioso ed assetato di vendetta in Cosenza.
Ma finito il dicembre, egli più forte, meglio provvisto di macchine ritornò agli assalti, conducendo dalle sue parti il colonnello Amato, pur cittadino di Amantea, congiunto e da fanciullezza compagno ed amico al Mirabelli; al quale giungendo al campo amorevolmente scrisse, e questi amorevolmente rispose, l’un l’altro tentandosi, l’Amato con esaltare l’amor di patria, il Mirabelli la virtù della fede, ed in entrambi prevalendo l’onore durarono nemici no, ma contrarii. Si alzarono intanto parecchie batterie contro il castello, e dopo alcuni giorni di fuoco, aperta la breccia, fu ben quattro volte assaltata e difesa. Cangiò modo all’assedio: avanzando sotterra fu minato un bastione che allo scoppio rovinò; e quando pareva certa la vittoria perchè inevitabile la entrata, fu visto che altre fortificazioni novellamente costrutte impedivano il passaggio. Più vicina la guerra, fu più mortale; ora l’arte degli assediatori prevaleva al valor disperato degli assediati, e or questo a quella. Ma soprastava la fame a Calabresi, e sol per essa il piccolo castello di Amantea, munito di tre rosi cannoni, difeso da inesperti partigiani, assalito da fortissime schiere con le migliori arti di guerra, dopo quaranta giorni di assedio (senza tener conto del primo assalto) a patti onorevoli si arrese. I presidii tornarono in Sicilia come prigioni per un anno ed un giorno.
Ma i difensori di Cotrone andarono liberi. Erano partigiani, per le colpe antiche malvagi, per le presenti tristissimi. Consumate affatto le vettovaglie, non volendo arrendersi perchè ricordavano le mancate fedi de’ Francesi a’ briganti, non sapendo per segni dimandar soccorso ad una fregata inglese che a vista della cittadella bordeggiava; tre più arditi, prima che il giorno spuntasse, nudi e taciti uscirono dalle mura, ed arrivati al fiume che lambisce una fronte della città, povero d’acque, ma in quella notte per piogge copioso, s’immersero nell’onde, incurvaronsi, e benchè le ascolte francesi guernissero le rive, giunsero inavvertiti alla foce. Distesi a nuoto nel mare e scoperti da soldati nemici, uno di archibugiata fu morto, il secondo ferito, il terzo giugne, narra al capitano del legno lo stato misero degli assediati e il disegno di fuga. Rendono al castello i convenuti segnali; e nella succedente notte, su la fregata avvicinatasi al lido, la guernigione uscendo dalla porta meno guernita, sorprendendo gli assediatori e combattendo, perviene ad imbarcarsi. I Francesi nel seguente giorno occuparono il castello vuoto di guardie. Ne’ casi del brigantaggio. narrati dalla fama più che dalle istorie, ho trovato registrato il fatto non il nome dell’intrepido nuotatore.
XXIV. Così nelle Calabrie. Frattanto in Napoli si ordinava la finanza, sì migliorava la istruzione pubblica, si aboliva la feudalità. si scioglievano i fede-commessi, si spartivano i beni del demanio comune, si davano a’ giudizii criminali libere forme: molti beni si facevano. Delle quali cose ragionerò partitamente, conlegandole, come ho fatto sin ora, alle ribellioni, alle congiure, agli eccessi delle fazioni, alle asprezze della polizia, alle crudeltà de’ capi militari, alle licenze dell’esercito; onde il lettore di questi scritti veda uniti nel regno di Giuseppe grandi beni a grandi mali, gli uni futuri e di mente, gli altri presenti e di fatto; e così discuopra perchè tra Napoletani i sapienti secondavano il conquistatore, e gl imperiti lo combattevano. Dirò tempi di altro regno, in cui, da tutti sentite le più civili instituzioni, ebbe il popolo animo e moto comune.
S’impose tributo su i poderi rustici ed urbani, detto fondiaria. abolite le antiche contribuzioni dirette (erano ventitrè), ineguali ed assurde. La fondiaria toccava ogni rendita di beni stabili, rivocando gli usati favori alle terre regie, feudali, ecclesiastiche, o le maggiori gravezze ad alcune province o comunità; legge uguale, senza ingiurie o privilegi, traeva a pro dello stato la quinta parte delle entrate disgravate di pesi. E poichè imponeva sette milioni di ducati, era creduta la entrata generale di trentacinque milioni, minore del vero in quel tempo, ma non è debito della storia il dimostrarlo.
Senza catasto, censo, o statistica, per dividere il peso fra tributarii si ebbe ricorso a ripieghi e compensi con fraudi ed errori innumerevoli. Un catasto amministrativo cominciato nel 1806 terminò (più per lassezza degli operatori che per compimento dell’opera) nel 1818; e però con poco piu di tempo e di spesa componevasi il catasto geometrico che a noi manca, e qui lo dico a vergogna e stimolo della civiltà napoletana. Quel tributo in sè grave, i disordini nel ripartirlo, il rigore all’esigere, furono scontentezze che dipoi scemarono per lo scresciuto prezzo delle granaglie e il celere passaggio di mano in mano dei beni stabili.
Gli arrendamenti ritornarono alla finanza: chiarite le ragioni degli assegnatarii. e scritte in un libro, detto gran-libro de’ creditori dello stato; si diede ad ognuno di loro una cedola dinotante il credito, guarentita della finanza pubblica, trafficabile, fruttifera dal 4 per 100, poi ridotta al 3. Al gran-libro si assegnarono per ipoteca dieci milioni di beni stabili, venuti dai disciolti conventi; e però le cedole, accomunate ai destini di non ben saldo governo, discesero a vilezza, e la serbarono lungo tempo, benchè con esse si comprassero i beni ipotecati; trovandosi esposte le compre al doppio pericolo della fortuna di uno stato nuovo, e delle sorti avvenire del papato. Eppure gli avidi e arrischiosi presi dalle attrattive di ricchezza compravano le terre de’ frati, le case, i conventi, le chiese; e i timidi tenendo sicuro e vicino il ritorno dell’antico re, sdegnavano di chiarire i loro crediti. E così per l’audacia de’ primi, per la ignavia de’ secondi, il debito dello stato scemava.
Fu ribassato il tributo del sale; ed indi a poco, mutandone l’economia, impedito le smercio libero, distribuito il genere per comunità e famiglie (cinque rotoli all’anno per ogni testa), il consumo forzoso indi minore, un dazio giusto trasformato in abborrito testatico; ma l’amministrazione più semplice, meno infida. La finanza in quel tempo era logorata da mille fraudi, facili per la novità delle leggi, delle imposte, de’ mezzi di esigerle; e per amministratori e pubblicani, la più parte Francesi, avidi, a modo di conquistatori superbi, verso tributarii inesperti e scontenti. Di tutte le taglie pubbliche quella del sale è gravissima a’ Napoletani, che avendo sale in miniere a piccola profondità, sale disciolto in alcuni ruscelli e formato in cristalli ne’ margini, sale addensato per cocente sole di luglio dalle acque marine sopra i lidi, vedono i larghi doni della natura appropriati da cupidigia finanziera; e poichè facile il controbando, così molesta la vigilanza che ne’ paesi più meridionali del regno s’impediva di attingere acqua dal mare, perchè esposta al sole lascia sale ne’ vasi.
Separato il patrimonio regio da quello dello stato, l’uno si affidò al ministro di casa reale, l’altro ad un direttor generale; il primo indipendente se non dal re; il secondo circondato di un consiglio e soggetto a pubblico sindacato. Il demanio dello stato per conventi disciolti, beni confiscati, vescovadi ed abazie vacanti, fu ricchissimo; ma quelle dovizie finchè duravano nell’amministrazione fiscale, erano disperse; come, se davansi a vendita, o a censo, o a dono, si trasmutavano in benefizio pubblico, migliorando i possessi per novella industria, fruttando tributi alla finanza, creando possidenti nuovi, partecipi e fedeli a’ destini del governo. Alienare il patrimonio affidato alla direzione sarebbe stato il più saggio pensiero del direttore, ma vanità e privato interesse vi si opponevano.
Simile alla direzione del demanio fu ordinata quella de’ dazi-indiretti; e il nome dice quali tributi amministrasse.
Si ridussero a due i già sette banchi della città; uno di corte in San Giacomo, l’altro di privati nella casa detta de’ Poveri: il primo abbondava di denaro, raccogliendo per ordinanza tutte le entrate del fisco; l’altro scarso o vuoto, dipendendo i depositi da volontà, ed essendo dubbia la fede nel governo, e vive nella memoria le passate frodi su i banchi.
Poco appresso fu composto il tesoro pubblico dove con regole di legge si concentravano le entrate ed uscite della finanza, e sì che del patrimonio fiscale il tesoro chiariva ogni credito, ogni spesa; il banco accertava il denaro entrato ed uscito.
Così riordinata la finanza pubblica, ogni rendita si trovò toccata da tributo, ogni peso egualmente distribuito, ogni ramo di finanza amministrato, ogni amministrazione soggetta a pubblico sindacato, l’erario dello stato rappresentato per numeri nel tesoro, serbato in danari nel banco, la finanza di Napoli in un sol libro, in un solo erario racchiusa. Semplicità maravigliosa e durabile.
XXV. La feudalità traendo origine da conquista, monarchia, civiltà mezzana de’ popoli, ed indole superba della umana specie, surse e crebbe nelle due Sicilie come nel resto del mondo. Fu potente a’ tempi de’ Lombardi e de’ Normanni, abbassata dagli Svevi, rialzata dagli Angioini, sostenuta (perfino nelle guerre baronali) dagli Aragonesi, e per sordida avarizia nel lungo tempo del viceregno. Carlo incivilì i baroni, surrogando gli onori ed il fasto di corte alla potenza feudale; progredì la civiltà sotto Ferdinando i diritti ingiuriosi alla umanità disusarono per costumi più che per leggi. Ma le industrie privative, i tributi feudali sulle terre e le case, i fondi promiscui, non poca parte di giurisdizione, altre servitù e sofferenze del popolo si sostenevano.
Questo largo residuo di feudalità distruggendosi per legge del 1806, ritornò intera la giurisdizione alla sovranità, e ne fu dichiarata inseparabile; tutte le gravezze, tutte le proibizioni feudali furono rivocate; reso libero l’uso de fiumi, disciolta la mescolanza delle proprietà, le servitù abolite; la nobiltà conservata ne’ titoli, distrutta ne’ privilegi, surrogati i nomi al potere. Ma per allora quei benefizii erano precetti non cose; chè la feudalità, benchè scossa ed invecchiata, non cadeva alle prime spinte, ed altre ne abbisognarono forti e molte sotto il regno del successore, sì che a dir vero Giuseppe ebbe il merito della intrapresa, Gioacchino dell’opera.
Per altra legge, abolite le sostituzioni fedecommessarie, gli attuali godenti divennero franchi padroni delle già vincolate proprietà; i vitalizii (assegnamenti a vita) si convertirono in beni liberi; tutti i legami del possedere si sciolsero; grande quantità di terre tornarono commerciabili. La legge del re Ferdinando dell’anno 1801 prescrivente che la dote delle donne patrizie (qualunque fosse la ricchezza della famiglia) non superasse i ducati quindicimila, oltraggio ed ingiustizia al sesso ed alla natura, favore a’ primi nati, tralcio di feudalità, fu abolita per altra legge di Giuseppe del 1806. Le quali riforme per i fedecommessi, le doti, la feudalità, utili certamente all’universale de cittadini, dannose a’ feudatarii ed a’ nobili, erano esaminate ed assentite nel consiglio di stato da consiglieri nobili per la maggior parte e baroni. Laude ad essi ed argomento a mondo della napoletana civiltà.
XXVI. Il convento della Incoronata in provincia di Avellino, in pena di aver dato rifugio a frà Diavolo, fu disciolto, piacendo al governo la onesta occasione di saggiare la opinione comune in un’opera legata alle coscienze, e rallegrandosi all’osservare il plauso de civili, la indifferenza della plebe che già visti altri sfratati nel regno di Ferdinando, e frati giacobini, frati insanguinati ne’ rivolgimenti del 99, aveva perduta per essi o scemata l’antica riverenza. Il governo, preso animo, disciolse gli ordini numerosi di San Bernardo e San Benedetto, ed aggiugnendo persuasioni al comando, disse nel preambolo della legge che la espulsione de’ frati era voluta dal genio del secolo e dalla economia dello stato: tutti i conventi parevano soggetti ad una sorte.
Ma non filosofica nè politica fu l’idea del governo, bensì finanziera ed avara; avvegnachè si sciolsero i conventi ricchi per goder delle spoglie; i poveri e i mendicanti, ch’era di peso il disfarli, duravano; ed assegnando ai già frati tenue stipendio, coloro, sentito l’interesse di tornare alle antiche case, givano destando nel popolo le assopite coscienze. Abbisognava alla politica di quel tempo disfare per intero gli ordini monastici, ridurre ad usi civili gli edifizii e le chiese, dare a quel genere avarissimo larga mercede, e larghe ma cittadine speranze. Così la invecchiata pianta periva. Nè è già che rinverda, perchè, di emula de’ troni fatta serva, perirà dimenticata come la feudalità; ma pure il tronco arido, nudo, nuocerà lunga pezza agli ordini della società ed alle dottrine dell’evangelio.
Come che imperfetta quell’opera fu giovevole allo stato, perocchè la finanza tesoreggiò, crebbero i nuovi possidenti, scemò il debito pubblico; si donarono edifizii alla istruzione, alla educazione, alle case di arti e di pietà; si fornirono le chiese, migliorò la condizione de’ curati, ampliaronsi le biblioteche e i musei; si provvide agli ospedali e ad altre fondazioni di pubblica utilità. I tre conventi di Cava, Montecasino e Montevergine aboliti come case religiose, serbati come archivii del regno, erano mantenuti dalla finanza, ivi conservandosi i documenti della monarchia ce della storia delle Sicilie.
Disciolti i conventi, aboliti i feudi, fu prescritto che i demanii ecclesiastici, feudali, regii, comunali, si dividessero fra cittadini con lieve peso di censo francabile, preferendo i poveri, donando a’ più poveri. Per moto così continuo delle proprietà la rivoluzione compievasi; chè non per nomi o case regnanti gli stati mutano, ma per interessi.
XXVII. Si composero quattro nuovi tribunali e si dissero straordinarii perchè restavano cassi alla promulgazione de’ codici. In ognuno, otto giudici (cinque civili, tre militari) giudicavano inappellabilmente i delitti di stato, o contro la pubblica sicurezza. Lo antiche barbare forme di procedura furono abolite; un’autorità locale raccoglieva le prime pruove, altra maggiore componeva il processo, il pubblico accusatore accusava il reo; e da quello istante divenivano di ragion pubblica le querele, i documenti, i nomi dei denunziatori e de’ testimonii. Il processo non istava nelle carte scritte, ma nel dibattimento, quando l’accusatore coll’avvocato, l’accusato co’ testimonii, alla presenza de’ giudici e del pubblico, disputavano, e dalle opposte sentenze scaturiva la verità e s’imprimeva nella coscienza de’ magistrati e del popolo.
Erano i giudici di numero pari, acciò nella parità de’ voti la più mite sentenza prevalesse; si ammetteva la privata accusa scritta e giurata, ma l’accusatore falso era condannato per taglione. Tanto lume di verità e di giustizia succeduto alle tenebre dell’antico processo invaghì il popolo che, andando alle sale di giustizia come a teatrali spettacoli, partecipava a quelle vere scene di pietà o di terrore, sentiva spavento de’ delitti e delle pene, imparava le leggi. Gran mezzo di civiltà, poco minore de’ giurati, è il dibattimento.
Da un tribunale straordinario fu giudicato frà Diavolo e dannato a morte. Stava il giudizio nel riconoscimento della persona, trovandosi bandito nemico pubblico quando correva sconvolgendo il regno. Morì vilmente bestemmiando la regina di Sicilia e Sidney Smith, che lo avevano spinto a quella impresa.
Chi fosse questo tristo è noto da’ precedenti libri: ultimamente, inviato da Sicilia nel regno con trecento malfattori tratti nelle galere, sbarcò a Sperlonga, campeggiò quelle terre, predò, uccise, e più danno faceva, se da maggiori forze assalito non fosse stato costretto a riparar fra i monti e boschi di Lenola. Sempre inseguito, perditore in ogni scontro e fuggitivo, restò con pochi (gli altri uccisi o prigioni), e per due mesi di selva in selva, nella notte più che nel giorno vagando, sperò imbarcarsi per la Sicilia. Ma ogni via gli era chiusa. Nuovamente incontrato, ferito, rimasto solo, persuaso da stanchezza, povertà e forse tedio di vita, andò travestito ed inerme a prender riposo e comprar balsami nel villaggio di Baronissi, dove suscitando alcun sospetto fu arrestato e riconosciuto per frà Diavolo.
Portava in tasca i fogli di Sidney Smith e della regina, ne’ quali e nelle sue risposte dicevasi colonnello dell’esercito di Sicilia, e lo era; ma non il grado e il nome diffinisce la qualità dei capo, bensì l’uffizio e la schiera. Frà Diavolo, se veniva nel regno con grande o piccolo stuolo di soldati, a combattere con regole della milizia, fortunito era ammirabile, sventurato e preso era prigione; ma frà Diavolo già assassino, di assassini capo, da assassino operando, in qualunque fortuna era infame e colpevole. Non si confondano popolo armato e brigantaggio, l’uno difenditore de’ suoi diritti, libertà, indipendenza, opinioni, desiderato governo; l’altro fazione iniqua motrice di guerre civili e di pubblico danno.
XXVIII. Migliorato il processo criminale, il governo, per avanzare i costumi assai più validi a scemar delitti che i magistrati e le pene, volse le cure alla pubblica istruzione. La prima luce di lettere italiane spuntò in terra napolitana delie colonie greche: Zaleuco si disse da Locri, Pitagora da Crotone, Archita era da Taranto, Alessi di Sibari, ed in altra età Ennio, Cicerone, Sallustio, Vitruvio, Ovidio, Orazio ebbero i natali sotto il nostro cielo. Le lettere morirono; e tempi spietati per crudeltà d’imperatori, tumulti di plebe, licenze di esercito, furono seguiti da invasioni di barbare genti, Unni, Vandali. Goti. Il primo che osasse ridestar le dottrine, e sapesse invaghirne il buon re Teodorico fu Cassiodoro nato in Squillace, piccola città delle Calabrie. In lui si spense la italiana letteratura e restò sepolta per lungo tempo sotto il ferreo scettro de’ Lombardi e de’ Saraceni, se non quanto serbava piccolo e secreto ricovero in Montecasino. Come poi le lettere rialzassero lo impaurito capo per virtù dei re Svevi, cadessero nuovamente per gli Angioini, risorgessero negli Aragonesi e fossero oppressi nel tanto lungo vicercale governo, non fa mestieri che io qui rammenti. Nè a quel che bo detto degli antichi tempi mi ha spinto letteraria vanità o amor soperchio di patria, ma desiderio onesto di far chiaro il peccato di quei nostri re che si adoprarono d’isterilire suolo alle lettere così fecondo.
Nelle vicende della napoletana letteratura era disuguale la efficacia delle pene o de premii; perciocchè nelle avversità moriva in carcere Giannone, torturavasi Campanella, bruciava vivo Giordano Bruno, chiudevansi scuole e ginnasii: e nella fortuna erano favoriti, a vil modo di cortigiani, alcuni dotti, e tollerate per pompa alcune accademie. Perciò castighi gravi e frequenti, premii rari ed ignobili generavano nella avversità universale ignoranza, e nelle venture pochi egregi uomini sopra popolo ignorantissimo; la istruzione non era pubblica, non diffondevasi; l’obbietto politico si disperdeva. Il quale errore, attraversando tutti i tempi e le vicissitudini delle lettere italiane pervenne sino a dì nostri 1806.
XXIX. Avvegnachè diverse leggi di quell’anno il corressero; prescrivendo che ogni città, ogni borgo avesse maestri e maestre, per i fanciulii e le fanciulle, del leggere, dello scrivere, dell’arte de’ numeri e de’ doveri del proprio stato; che ogni provincia avesse un collegio per gli uomini, una casa per le donne ove apprendessero alcune scienze primarie e le belle arti e i nobili esercizi di colta società; e che nella città capo del regno fiorisse la università, per genere ed altezza di studii, culmine piramidale della pubblica istruzione. Altre leggi fondarono le scuole speciali: una Reale-militare, altra Politecnica, altra delle Belle-Arti, altra delle Arti e Mestieri, altra de’ Sordi-e-Muti, un’accademia di marina, una delle arti del disegno, un convitto di chirurgia e medicina, un secondo di musica. Alcune delle quali fondazioni erano nuove, altre migliorate, tutte dotate dalla finanza pubblica. I seminarii, collegi speciali de’ preti, furono conservati; e sebbene si divisasse riformarli, aspettavasi opportunità di tempo; non volendo, fra tanti moti di regno nuovo, altre querele col papa. Secondavano la istruzion pubblica i collegi privati, eretti a privato guadagno, favoriti dal governo, vigilati ne’ metodi, premiati ne’ successi. S’instituì, dotata riccamente, un’accademia di storia ed antichità e di scienze ed arti, che dipoi, accresciuta, fu chiamata Società Reale: si giovò con doni e privilegi ad altre due accademie nominate d’Incoraggimento e Pontaniana. L’Italia venera ancora queste congreghe, in memoria di aver serbato il germe delle lettere in tempi barbari; e non pensando che oggi, quasi perduta ogni utilità, sono rimaste a pompa della civiltà e de’ governi.
Del sistema che ho adombrato di pubblica istruzione erano pregi l’insegnamento facile ad ogni ceto, ad ogni uomo, cosicchè nessuna virtù rimanesse depressa perchè negatole di mostrarsi; il privilegio di nascita scomparso, albergando nello stesso collegio i primi e gli ultimi della società, il figliuolo del patrizio e del contadino: le lettere protette, multiplicate le scuole, dotate abbondevolmente le accademie e i licei: i dotti venerati, non arricchiti; chè il soperchio favore del principe, benefizio ad essi, è nocumento alle scienze. Libertà di scrivere, piena proprietà dello scritto sono spinta ed alimento agl’ingegni; qualunque altra cosa in più o in meno, è a lor danno, Ma queste ultime perfezioni non s’incontravano nelle leggi di Giuseppe; avvegnachè l’insegnamento pubblico per quei governi francesi era instituzione piuttosto civile che scientifica, solamente intesa ad abbozzare la istruzione de’ popoli; derivando dalle mezzane dottrine ambizioni, mollezza e servitù; quanto da compiuta sapienza, podestà di se stesso, altezza d’animo, e gli stessi moti alla libertà che per altre cagioni hanno i popoli rozzissimi e forti: conciossiachè le nazioni due volte sono alte a libero stato; nella prima rozzezza e nella piena civiltà.
XXX. Ma qualunque benefica instituzione non era che nelle leggi, dappoichè lo stato del regno ne impediva gli effetti. Il brigantaggio ingrandito ed ammaestrato, mutate regole di guerra, evitava gli scontri, non entrava nelle città, correva le campagne, assaltava gl’inermi, predava, distruggeva e nascondevasi; così a larga mano versando disastri, e seccando le vene del pubblico bene, indeboliva e screditava la conquista. E maggiori danni operavano i ministri del governo, perocchè i capi militari nelle province ponevano taglie alle città, menavano in prigione ed a morte i cittadini, conculcavano le antiche leggi e le novissime, gli usi nostri, le nostre più care abitudini.
Tutti i gradi del rigore eransi adoperati contro i briganti, e il brigantaggio cresceva; il re cambiò politica. Per editto concedè perdono a quei malfattori che andassero inermi alle regie autorità, e giurassero fede al governo, ubbidienza alle leggi. Molti e molti, deposte le armi, giurarono; nè per ravvedimento ed amor sincero di pace, ma per godere quietamente la male acquistata ricchezza, ed aspettare opportunità di nuovi guadagni. Tornarono quindi alle città turpemente ricchi e baldanzosi, facendo sfoggio infame del furto e delle atrocità, sul viso a’ depredati e dei parenti ancora vestiti a bruno degli uccisi. E di poi, consumato il bottino, ritornavano al brigantaggio, indi al perdono; talchè vedevi de’ perdonati cinque e sei volte. E ministri regii nelle province, poichè videro falsa la sommissione, imitando gl’inganni facevano strage de’ perdonati, talora con pretesto di giustizia, più spesso alla sfrontata. Io nella valle di Morano vidi molti cadaveri, e seppi che il giorno innanzi uno stuolo di amnistiati (così li chiamavano con voce francese) vi era stato trucidato dalle guardie, e avvegnachè si finse che avessero spezzate le catene, e tentata e cominciata la fuga, si andò uccidendoli in varii punti di quel terreno, a gruppi e alla spicciolata, di ferro e di archibugio, trafitti in vario modo come suole in guerra; contrafacendo con istudiosa crudeltà gli accidenti delle battaglie. Pareva quel luogo un campo dopo la guerra.
XXXI. Le quali interne discordie crescevano per Je cose di Europa; e dirò come. Abbenchè l’anno 1805 finisse con la pace di Presburgo, la quiete fu passeggiera, perocchè i maneggi tra la Francia e la Inghilterra, intrapresi nel febbrajo, sciolti nel maggio, si convertirono in maggiori querele e nemicizie. Le Bocche di Cattaro, che dovevano vuotarsi da’ Russi, erano tenute ostinatamente; spregiando le preghiere dell’Austria, le minacce della Francia, la permanenza degli eserciti francesi in Alemagna. La pace indi a poco fermata a Parigi tra i legati di Francia e di Russia, non fu ratificata dall’imperatore Alessandro; e gli eserciti delle due nazioni disputavano con le armi il possesso di Ragusa. L’Hannover tolto al re Giorgio III, dato in custodia alla Prussia, fu motivo che la Inghilterra e la Svezia le intimassero guerra.
In giugno la repubblica batava, riconosciuta col recente trattato di Presburgo, fu mutata da Bonaparte a regno di Olanda, ed eletto re Luigi suo fratello. In agosto Bonaparte componendo la confederazione del Reno, spogliò de’ loro stati alcuni signori alemanni, ingrandì altri parecchi di terre e di dominio, abolì vecchi titoli, ne creò nuovi per fin di re, costrinse l’imperatore austriaco a rinunziare al nome ed offizio di capo del corpo germanico, surrogò a quella dignità e potenza sè stesso col nome altierò di Protettore. E così gli stati occidentali dell’Alemagna che facevano testa alla Francia, cambiando sorte, si volsero contro i potentati del Settentrione; e di separati ed avversi che, per la occulta natura del corpo germanico, erano innanzi, divennero, per nuovi interessi e per indole della confederazione del Reno, uniti e consorti. Condizioni e memorie che saranno nell’avvenire motivo di guerra per lo impero d’Austria.
Della Italia il Piemonte, Genova e Corsica erano uniti alla Francia; e per la pace di Presburgo il regno italico fu accresciuto degli stati di Venezia, Istria e Dalmazia veneziana, isole venete, e Bocche di Cattaro; la Toscana, sebben governata con le antiche leggi di Leopoldo, serviva gl’interessi della Francia, perchè la nuova reggitrice teneva stato e nome di regina da Napoleone; il reame di Napoli, scacciatane la stirpe de’ Borboni, era dato ad un Bonaparte. Non restava di antico altro che Roma monca ed avvilita, Sicilia debole e minacciata.
XXXII. Mutazioni così grandi erano accadute nel 1806; e quell’anno, non ancora finito, altro gravissimo avvenimento turbò le attuali cose, minacciò la sicurezza dei nuovi stati, e per fino della Francia; essendo a Bonaparte necessità confidare la immensa mole dell’impero alle vittorie ed alla fortuna, La Prussia al primo di ottobre si levò a guerra contro la Francia collegandosi alla Inghilterra, poco innanzi simulata nemica; avendo in seconda linea l’esercito russo che a gran giornate andava in ajuto di lei, e sperando impegnare la casa d’Austria, nemica irreconciliabile della Francia. La Prussia per dodici anni era stata neutrale nelle guerre di Europa, aspettando maggior frutto dalla politica che dalle armi; ma serbando in cuore odio coperto contro i nuovi re ed i nuovi stati. La Francia dissimulava quello infingimento per attendere opportunità a vendicarlo. La confederazione del Reno pose fine agl’inganni, perocchè Ia Prussia temendo di mali estremi, e la Francia confidando nella sua possanza, si mossero a guerra.
Era nuovo l’esperimento. La memoria del gran Federigo combatteva per i Prussiani; così che nei campi di Jena, il giorno innanzi della battaglia, il re parlando all’esercito ricordava il gran nome e i gran fatti; e l’intrepido Bonaparte riguardando attentamente più dell’usato le mosse e l’arte delle schiere nemiche, parea quasi dubitasse dello scontro, ma vistolo appena, diceva: La Vittoria è per noi. Vinse a Jena, debellò molte fortezze, espugnò Berlino, scacciò il re e la famiglia in Könisberg, abbattè, disfece la potenza prussiana. Ma col continuo combattere, e col guardare le soggiogate città scemava l’esercito francese; mentre la contraria parte raccoglieva i fuggitivi e i dispersi, chiamava nuovi soldati dalle province soggette, rifaceva gli ordini, rincoravasi; e l’oste moscovita passava la Narew, e parte di lei combatteva intorno a Varsavia: la fortuna dell’armi stava incerta. Nei quali turbamenti e pericoli vacillavano i nuovi stati, le moderne istituzioni non assodavano, la condizione di conquista si prolungava.
XXXIII. Così stando le cose di Europa nel finir dell’anno 1806, cominciò per noi più mesto il 1807; perciocchè le congiure contro il governo, ingrandite di numero e di forza, cagionavano opero inique, castighi acerbi, timori e pericoli; nè come per lo addietro ad uomini bassi de’ quali è soppresso il lamento, ma agli elevati per nobiltà e condizione. Il magistrato Vecchioni, consigliere di stato di Giuseppe, scoperto reo, fu confinato in Torino; Luigi La Giorgi, ricco e nobile, straziato morì in carcere; il duca Filomarino ebbe il capo mozzato; il marchese Palmieri, colonnello, fu appiccato alle forche; e mentre l’infelice saliva la scala del palco, si levò nel popolo voce di salvezza che generò tumulti infruttuosi a quel misero, ma esiziali ad altri, puniti con la morte pel vegnente giorno. Si tenevano prigioni il capitan generale Pignatelli, il principe Ruffo Spinoso, il maresciallo di campo Micheroux, i conti Bartolazzi e Gaetani; e donne patrizie Luisa de’ Medici, Matilde Calvez; e donne di onesta fama, preti e frati in gran numero; il vescovo di Sessa monsignor de Felice. I luoghi più chiusi e più sacri, come i claustri, davano ricetto a’ congiurati; e perciò furono viste monache professe uscir del vietato limitare, e sedere con abito religioso in pubblico giudizio sulla panca de’ rei.
In quel mezzo fu imprigionato Agostino Mosca, perchè sopra i monti di Gragnano, dove era atteso il re Giuseppe, stava in agguato ed armato per ucciderlo. Aveva in tasca una lettera della regina di Sicilia, scritta di suo pugno, instigatrice velatamente al delitto, ed altra più scoperta della marchesa Tranfo dama di lei: portava sul nudo del braccio destro una maniglia di capelli legati in oro, dono della stessa regina, fattogli, ei diceva, per mano del Canosa, ad impegno de’ promessi servigi. Convinto del tentato misfatto, fu condannato a morte, e giustiziato con orribili pompe nella piazza del mercato, in mezzo a popolo spaventato e muto.
Nè le congiure si limitavano alla città; ma nelle province; dove erano più libere per l’assenza o scarsezza delle forze del governo, diramando si spiegavano in aperti tumulti e brigantaggio. I mezzi di leggi non bastando per discoprire tante trame e reprimere tanti moti, la polizia insidiosamente mascherava da congiurati i suoi emissarii, contraffaceva lettere, corrispondeva sotto simulate forme son la regina di Sicilia e co’ più conti borbonici; ne indagava le pratiche, le seguiva; e giunte a maturità di pruova, le palesava e puniva. Non inventava congiure, come maligna fama diceva, ma, potendo spegnerle sul nascere, le fabbricava e ingrandiva; mossa da due stimoli pungentissimi, timore e vanto. Allo scoprimento, gli emissarii, poco fa congiurati, si trasformavano in accusatori e testimonii; le lettere ricercate o contraffatte, in documenti; il fabbro di quella rete (perchè magistrato di polizia) componeva il processo; e giudici militari scelti ad occasione ed a modo, ne giudicavano. Punivansi uomini rei, ma la reità era incitata: scaltrezza estrema delle moderne polizie, pregiata come arte da’ malvagi governi, abborrita come delitto dagli onesti, tollerata e chiamata talento del secolo dagli uomini corrotti della società.
E sempre crescendo le asprezze, furono sequestrati i beni de’ fuorusciti, seguaci del re Borbone in Sicilia, o fuggenti dall’abborrito dominio francese. Quella legge, giusta tra nemici, ebbe in molti casi benefica eccezione; produsse a’ privati gran danno, alla finanza piccolo frutto: e di poi, mutato in confisca il sequestro e venduti i beni o donati, viepiù si accesero le contrarie fazioni dei due re, e novelli semi di future vendette si sparsero.