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LIBRO SESTO — 1806. 29

libertà, indipendenza, opinioni, desiderato governo; l’altro fazione iniqua motrice di guerre civili e di pubblico danno.

XXVIII. Migliorato il processo criminale, il governo, per avanzare i costumi assai più validi a scemar delitti che i magistrati e le pene, volse le cure alla pubblica istruzione. La prima luce di lettere italiane spuntò in terra napolitana delie colonie greche: Zaleuco si disse da Locri, Pitagora da Crotone, Archita era da Taranto, Alessi di Sibari, ed in altra età Ennio, Cicerone, Sallustio, Vitruvio, Ovidio, Orazio ebbero i natali sotto il nostro cielo. Le lettere morirono; e tempi spietati per crudeltà d’imperatori, tumulti di plebe, licenze di esercito, furono seguiti da invasioni di barbare genti, Unni, Vandali. Goti. Il primo che osasse ridestar le dottrine, e sapesse invaghirne il buon re Teodorico fu Cassiodoro nato in Squillace, piccola città delle Calabrie. In lui si spense la italiana letteratura e restò sepolta per lungo tempo sotto il ferreo scettro de’ Lombardi e de’ Saraceni, se non quanto serbava piccolo e secreto ricovero in Montecasino. Come poi le lettere rialzassero lo impaurito capo per virtù dei re Svevi, cadessero nuovamente per gli Angioini, risorgessero negli Aragonesi e fossero oppressi nel tanto lungo vicercale governo, non fa mestieri che io qui rammenti. Nè a quel che bo detto degli antichi tempi mi ha spinto letteraria vanità o amor soperchio di patria, ma desiderio onesto di far chiaro il peccato di quei nostri re che si adoprarono d’isterilire suolo alle lettere così fecondo.

Nelle vicende della napoletana letteratura era disuguale la efficacia delle pene o de premii; perciocchè nelle avversità moriva in carcere Giannone, torturavasi Campanella, bruciava vivo Giordano Bruno, chiudevansi scuole e ginnasii: e nella fortuna erano favoriti, a vil modo di cortigiani, alcuni dotti, e tollerate per pompa alcune accademie. Perciò castighi gravi e frequenti, premii rari ed ignobili generavano nella avversità universale ignoranza, e nelle venture pochi egregi uomini sopra popolo ignorantissimo; la istruzione non era pubblica, non diffondevasi; l’obbietto politico si disperdeva. Il quale errore, attraversando tutti i tempi e le vicissitudini delle lettere italiane pervenne sino a dì nostri 1806.

XXIX. Avvegnachè diverse leggi di quell’anno il corressero; prescrivendo che ogni città, ogni borgo avesse maestri e maestre, per i fanciulii e le fanciulle, del leggere, dello scrivere, dell’arte de’ numeri e de’ doveri del proprio stato; che ogni provincia avesse un collegio per gli uomini, una casa per le donne ove apprendessero alcune scienze primarie e le belle arti e i nobili esercizi di colta società; e che nella città capo del regno fiorisse la università, per genere ed altezza di studii, culmine piramidale della pubblica is-